Gig economy: la UE presenta il conto

Più che aumentare i diritti dei lavoratori, l’obiettivo principale della nuova proposta di Direttiva della Commissione Europea per regolamentare le condizioni degli addetti della gig economy sembra essere quello di recuperare – almeno in parte – le tasse perdute dopo anni di inazione dei governi del continente.

Tra 1,6 e 4 miliardi di euro: secondo quanto riportato da Reuters sarebbero queste le maggiori entrate fiscali attese nei Paesi dell’Unione Europea in base alla nuova proposta di Direttiva della Commissione per “migliorare le condizioni dei lavoratori delle piattaforme digitali”, come recita il titolo del documento pubblicato questa settimana e che ha iniziato il suo lungo iter di discussione e approvazione tra Parlamento e Consiglio Europeo. La notizia è degna di nota sia per il fatto di essere stata descritta da più parti come un primo tentativo di regolamentazione dei diritti dei cosiddetti “gig worker”, sia per il fatto che essa rientra all’interno del più ampio processo di tassazione delle multinazionali del web a partire dalla definizione di una serie di caratteristiche volte a distinguere il lavoro autonomo da quello dipendente, seppur quando quest’ultimo viene organizzato, sorvegliato e misurato dagli algoritmi.

Secondo le stime della Commissione sarebbero oltre cinque milioni i lavoratori delle piattaforme di “gig economy” a essere interessati dalle proposte contenute nella nuova Direttiva (foto di Jon Tyson da Unsplash)

Dopo la Global Tax, la Commissione UE prova ad aumentare ulteriormente la pressione fiscale sulle BigTech

A pochi mesi dall’accordo sulla nuova Global Tax, che ha mandato in soffitta le singole “digital tax” nazionali, la proposta di direttiva della Commissione prevede infatti di portare qualche milione di lavoratori autonomi nel recinto ben più definito (e tassabile) dei lavoratori dipendenti, con l’obiettivo neppure troppo nascosto di recuperare una parte dell’immensa ricchezza prodotta da aziende multinazionali come Uber, Deliveroo, Glovo: secondo quanto riportato da Repubblica, nel nostro Paese nel corso del 2019 Uber Italy avrebbe pagato solo 171 mila euro di imposte, 11 mila euro Deliveroo e ben “zero” euro Glovo, mentre secondo le analisi della Commissione stessa il fatturato della “platform economy” sarebbe più che quintuplicato tra il 2016 e il 2020. I riferimenti al valore economico delle piattaforme digitali, all’interno del documento che riassume la proposta di Direttiva della Commissione, a mio giudizio sono rivelatori di un obiettivo che tuttavia ha ben poco a che vedere con quello di aumentare i diritti dei lavoratori di queste ultime.

Nessuna innovazione sul fronte dei diritti, ma solo una equiparazione tra gig worker e impiegati d’ufficio “tradizionali”

Più che una iniziativa volta a tutelare gli interessi dei lavoratori, infatti, la proposta della Commissione Europea sembra essere finalizzata a tutelare gli interessi economici dei singoli Stati nazionali nei confronti di multinazionali che fino ad oggi sono riuscite a prosperare pagando solo una minima parte di tasse. Il sospetto viene, infatti, dalla lettura stessa della bozza di proposta: i “diritti” di un rider assunto come lavoratore dipendente diventeranno gli stessi di un impiegato in ufficio, con ferie, malattie, permessi, orari di lavoro definiti, se non fosse che coloro che lavorano per le piattaforme digitali sono esposti a una serie di pericoli (si pensi, banalmente, al fatto di doversi muovere in bicicletta su strade trafficate e pericolose come quelle di una città come Milano), criticità organizzative (si pensi alla comunicazione con il datore di lavoro che avviene quasi esclusivamente tramite app) e forme di sorveglianza innovative (si pensi alla scarsa trasparenza delle recensioni espresse dai clienti) che altre tipologie di lavoratori “tradizionali” non hanno mai sperimentato né mai sperimenteranno sulla propria pelle.

Solo cinque milioni di gig worker potrebbero diventare dipendenti secondo le previsioni della Commissione

Il sospetto di una misura volta più ad aumentare la pressione fiscale sulle BigTech che non a tutelare effettivamente i lavoratori della “gig economy” viene rafforzato dalle previsioni al ribasso e dai criteri del tutto arbitrari con cui vengono individuate le aziende che avranno in futuro l’obbligo di assumere i propri “gig worker” come dipendenti: secondo le stime della Commissione sarebbero attualmente solo cinque milioni i lavoratori interessati dalla Direttiva, su un totale di ventotto milioni di lavoratori “gig” delle piattaforme attive in Europa, un numero forse un po’ troppo ristretto per giustificare l’entusiasmo con cui i media di tutto il continente hanno accolto fin qui la notizia. Da notare, inoltre, come non tutte le piattaforme saranno “colpite” dalla nuova regolamentazione, ma solo quelle che rispetteranno almeno due criteri su cinque scelti arbitrariamente dalla Commissione e che saranno con ogni probabilità oggetto di intense negoziazioni da qui ai prossimi anni.

I criteri per definire se un lavoratore “gig” può diventare dipendente sono arbitrari e circoscritti a poche piattaforme note

Le piattaforme di “gig working”, infatti, potranno continuare a servirsi di una forza lavoro prevalentemente composta da autonomi nel caso in cui dovessero limitarsi a “determinare il livello di remunerazione o fissarne i limiti massimi”, oppure a “supervisionare le performance del lavoratore tramite sistemi elettronici”, “restringere la libertà di scegliersi le proprie ore di lavoro o i propri compiti”, “imporre delle regole specifiche sull’abbigliamento e il comportamento dei lavoratori verso i clienti” o “limitare la possibilità di costruirsi una propria clientela o lavorare per qualcun altro”. Secondo Bruxelles, una piattaforma di gig working potrà rispettare non più di uno di questi requisiti per poter continuare a operare senza ulteriori restrizioni, con la probabile conseguenza che solo le aziende più strutturate (e conosciute) saranno con ogni probabilità costrette ad assumere i “gig worker” come dipendenti, mentre quelli che avranno la “sfortuna” di lavorare per piattaforme meno grandi e meno organizzate non potranno godere degli stessi diritti dei loro colleghi più noti al grande pubblico.

L’obbligo alla trasparenza sugli algoritmi non serve a granché in mancanza di una formazione adeguata da parte del lavoratore

Peggio non potrebbe essere? In realtà, la proposta della Commissione contiene in sé elementi di novità degni di nota: l’obbligo per le aziende tecnologiche di dimostrare di non essere soggette alla nuova regolamentazione, ribaltando quindi un meccanismo che finora ha costretto i “gig worker” a farsi carico dell’onere della prova di fronte ai tribunali, e l’obbligo per le stesse aziende di essere più trasparenti sia nei confronti delle autorità (dal punto di vista delle informazioni sul numero di lavoratori attivi sulle proprie piattaforme), sia nei confronti dei lavoratori stessi, che potranno conoscere come funzionano gli algoritmi che organizzano e sorvegliano il loro lavoro e potranno contestarne le decisioni. Ovviamente, questo presume una conoscenza da parte di ogni lavoratore di che cosa sia, come funzioni, come venga costruito e possa essere modificato un algoritmo: ma, come i diritti che non producono più entrate fiscali, anche il diritto all’educazione e formazione digitale di lavoratori in là con gli anni non sembra essere un tema all’ordine del giorno dalle parti di Bruxelles.

jacopo franchi

Autore

Jacopo Franchi

Mi chiamo Jacopo Franchi, sono nato nel 1987, vivo a Milano, lavoro come social media manager, sono autore del sito che state visitando in questo momento e di tre libri sui social media, la moderazione di contenuti online e gli oggetti digitali.

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