Partita a rilento, con una raccolta inferiore alle attese, la Digital Tax italiana resterà in vigore almeno fino al 2024 in attesa che la nuova Global Tax sui profitti delle multinazionali, digitali e non, entri ufficialmente in vigore: si tratta di un vero “addio”, o solo di un arrivederci?
“E così, finalmente, è arrivato l’accordo globale per la tassazione delle multinazionali, per portare più tasse nei Paesi in cui si vendono i servizi e per vietare le aliquote scandalosamente basse. È una cosa che abbiamo chiesto, e supportato, a lungo“: la frase, letta su LinkedIn qualche giorno fa, a prima vista potrebbe essere stata scritta da qualche giornalista, attivista, ricercatore o politico impegnato per una più equa redistribuzione delle risorse accumulate dalle grandi multinazionali globali. Niente di più sbagliato: l’autore di quest’ultima è Diego Ciulli, Head of Governement Affairs and Public Policy di Google in Italia, dipendente di un’azienda che fino al 2020 si serviva abitualmente di espedienti come il “Double Irish” per pagare il minor importo possibile di tasse sui profitti generati nei Paesi dell’Unione Europea grazie al regime fiscale agevolato di Paesi come l’Irlanda. La dichiarazione di Ciulli è emblematica, in questo senso, di un sentimento di sollievo diffuso in tutte le BigTech, non solo in Google: non a caso, la giornalista ed esperta di tecnologia Ina Fried della newsletter Axios Login ha definito in modo lapidario l’accordo negoziato in sede Ocse sulla “Global Tax” mondiale come “una tassa che piace alle multinazionali“.
Con la nuova Global Tax anche l’Italia dovrà rinunciare a imporre tassazioni ad hoc per le BigTech
Dopo sei anni di inconcludenti negoziati, nel 2021 la tassa globale ha iniziato a diventare realtà grazie all’impegno dell’amministrazione Biden negli Stati Uniti e al progressivo venir meno delle resistenze nei Paesi considerati tradizionalmente paradisi fiscali come il Lussemburgo e la stessa Irlanda. Entro il 2023, infatti, i governi di 136 Stati al mondo si sono impegnati in sede Ocse a rivedere il proprio regime fiscale per imporre una tassazione del 15% sugli utili delle multinazionali con un fatturato superiore ai 750 milioni di dollari all’anno, nel luogo e nel Paese di attività di queste ultime, rinunciando contemporaneamente a imporre qualsiasi forma di “digital tax” specificamente rivolta alle BigTech come quelle imposte negli anni scorsi da Italia, Francia, India e poche altre nazioni. Infine, rispetto all’accordo raggiunto a luglio, il testo approvato a ottobre di quest’anno nell’ambito del G20 finanziario di Washintgon ha portato alla scomparsa dell’avverbio “almeno” riferito al 15% della tassazione, come richiesto dall’Irlanda, e non si escludono ulteriori modifiche nei prossimi mesi, quando l’accordo dovrà essere discusso e approvato dai singoli organi legislativi nazionali, tra cui il Congresso USA.
Per la “digital tax” italiana soli 233 milioni di euro raccolti rispetto ai 780 milioni inizialmente previsti
In questo clima di perdurante incertezza circa l’esito finale di un accordo che è stato forse troppo precocemente definito come “storico”, la tendenza di molti Paesi sembra essere quella di aspettare di vedere quello che faranno i propri vicini e concorrenti sul piano fiscale prima di procedere con le singole ratifiche nazionali e rimuovere le tassazioni già in vigore. È quello che intende fare, tra gli altri, l’Italia, dove il ministro dell’Economia Daniele Franco ha dichiarato che la digital tax italiana non sarà rimossa prima del 2024, anno successivo all’attesa entrata in vigore della tassa globale concordata in sede Ocse. L’obiettivo, ovviamente, è quello di cercare di raccogliere più tasse possibili dalle multinazionali come Google, Facebook e Amazon, in attesa che le nuove regole globali vadano a regime: la “digital tax” italiana, introdotta dalla Legge di bilancio del 2019 e volta specificamente a limitare la capacità delle grandi aziende digitali di sottrarre al nostro Fisco i profitti generati sul suolo italiano, spostando questi ultimi in regimi fiscali più favorevoli, è entrata in vigore nel primo gennaio 2020, ha raccolto nel 2021 poco più di 233 milioni di euro rispetto ai 780 milioni inizialmente previsti, e potrebbe quindi venir meno dopo soli tre anni di attività, sostituita dalla nuova tassa globale a cui anche il nostro Paese ha aderito.
“È mancata l’ambizione a raggiungere un’aliquota più alta” per una maggiore e più equa redistribuzione
I dubbi, in questo contesto, sembrano essere destinati ad aumentare nei prossimi mesi: tra i primi ad esprimersi in tal senso a livello pubblico è stato Tommaso Faccio, docente di diritto tributario alla Nottingham Business School e segretario generale della Commissione per la riforma della tassazione delle multinazionali (ICRCT), secondo cui l’aliquota del 15% sarebbe nient’altro che “un’occasione persa” come dichiarato durante un’intervista er Sky Tg24. “Il 15% è stato un favore all’Irlanda – ha detto il docente – è mancata l’ambizione da parte dei partner europei e degli USA a cercarne una più alta. Per l’Italia le stime con il 15% sono di circa 3 miliardi, con il 21% invece sono quasi 8. Per l’Unione europea, 50 miliardi con il 15%, 100 con il 21%“. Stime, ovviamente, basate su previsioni attuali che non possono includere la crescita dei fatturati delle aziende tecnologiche attuali e dei nuovi “colossi” dei prossimi anni: il venir meno delle “digital tax” nazionali o dell’auspicata e continuamente rinviata “digital tax” europea sembra quindi fin da ora togliere agli Stati la possibilità di adeguare il proprio regime fiscale nei confronti dei giganti del web in base alla crescita del fatturato di questi ultimi, impegnandosi troppo precocemente in un accordo globale che tuttavia del tutto “globale” non è. “Specchietto per le allodole“ è la definizione della Global Tax, secondo Altreconomia, che probabilmente più di altre si avvicina alla realtà dei fatti.
Addio, o solo arrivederci? L’esperimento tardivo delle digital tax nazionali, il rinvio di quella europea
In questo senso, è comprensibile la volontà del governo italiano (cui, nel mentre, sembra essersi aggiunto quello indiano) di non rinunciare troppo presto allo strumento della “digital tax” nazionale malgrado gli scarsi risultati fin qui raggiunti dal punto di vista del gettito finale: strumento che, dal punto di vista comunicativo, ha comunque rappresentato una svolta storica nel modo in cui le multinazionali digitali sono state per la prima volta identificate tra le cause di impoverimento e disuguaglianza sociale in virtù della loro storica propensione a sottrarre – ricorrendo a tutti i mezzi legali disponibili – i propri profitti e la ricchezza generata in un Paese, servendosi della conoscenza e delle infrastrutture di quest’ultimo, pur di pagare meno tasse possibili. In questo contesto, non è del tutto remota la possibilità che l’entrata in vigore della global tax così come ad oggi – 16 ottobre 2021 – è stata concordata possa andare incontro ad ulteriori “incidenti” di percorso, e che l’esperimento di digital tax su base nazionale, comunitaria o interstatale possa essere riesumato da qui a qualche anno, quando i profitti generati da Google, Facebook, ByteDance, Amazon saranno ulteriormente cresciuti, e sarà accresciuta la necessità dei governi di tutto il mondo – incluso il nostro – di aumentare le proprie entrate fiscali per rimediare agli enormi debiti contratti durante la pandemia. Per ora, in ogni caso, i festeggiamenti continuano sotto il cielo di Dublino.
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