Mentre si moltiplicano in tutto il mondo i cori di voci critiche nei confronti di Facebook, Google, Amazon e altre grandi aziende tecnologiche, la traiettoria di crescita di queste ultime non sembra destinata a deviare nel breve termine: e se fosse, in parte, anche a causa delle critiche stesse?
110,4 miliardi di dollari: è il fatturato combinato di Alphabet e Microsoft secondo quanto emerge dalle ultime trimestrali diffuse questa settimana, in crescita del 33% rispetto allo stesso periodo di un anno fa. La crescita delle “BigTech”, altrimenti conosciute come “GAFAM“, non sembra avere fine, secondo quanto riportato tra gli altri anche da WeWealth, in un contesto dove persino Facebook ha dichiarato ricavi in crescita del 35% nel III trimestre 2021 (+6% l’aumento degli utenti) e solo Apple e Amazon hanno deluso in parte le attese degli analisti, facendo comunque registrare a loro volta percentuali di crescita del fatturato in doppia cifra anno su anno.
Se i numeri non raccontano tutta la verità, comunque hanno il merito di ricordare a chi si occupa di digitale e critica dell’esistente come la distanza tra aspettative dei critici e realtà dei fatti sia ancora oggi molto ampia da colmare: le piattaforme digitali continuano a godere dell’interesse di utenti, inserzionisti, investitori, malgrado migliaia di libri, articoli, inchieste, documentari, conferenze, dibattiti, scandali nel corso degli ultimi anni ne abbiano dimostrato evidenti mancanze, omissioni, comportamenti ai limiti della legalità.
L’elogio indiretto e non dimostrato della superiorità del “capitalismo della sorveglianza”
Paradigmatico, in questo senso, è il caso di uno dei libri di critica più citati (se non più letti) degli ultimi anni: “Il capitalismo della sorveglianza” di Shoshana Zuboff, recensito a suo tempo su “Umanesimo Digitale” e di cui ho avuto modo di discutere nuovamente questa settimana in occasione di un bel dibattito sul canale YouTube di Stroncature in compagnia di Roberto Menotti, Paolo Cesaretti, Jacopo Borgognone e Nunziante Mastrolia. Il libro, pubblicato nel 2019 e tradotto in italiano da Luiss University Press, offre un’accurata descrizione di come aziende come Google e Facebook siano riuscite a prosperare negli ultimi anni grazie alla creazione di un sistema di monitoraggio e sorveglianza capillare degli utenti che si servono dei loro servizi digitali gratuiti, al fine di elaborare previsioni sul comportamento futuro degli utenti stessi da rivendere in seguito agli inserzionisti. Previsioni, secondo Zuboff, ritenute attendibili perché generate da una “sorveglianza” maggiore rispetto al passato.
Paradossalmente, dal punto di vista di un’azienda interessata a investire in pubblicità online, un libro come “Il capitalismo della sorveglianza” (e i suoi numerosi tentativi di imitazione) potrebbe essere letto come una ulteriore dimostrazione dell’assoluta superiorità degli strumenti pubblicitari di Google e Facebook rispetto a quelli forniti da aziende più “tradizionali” (tv, giornali, radio, media online, etc.), al punto da convincersi a investire una quota crescente di budget pubblicitario nei nuovi “oracoli” dei comportamenti e delle preferenze di acquisto dei consumatori. Mai, nelle oltre seicento pagine di testo di Zuboff, vengono approfondite le difficoltà tecniche, le imperfezioni, i limiti, le caratteristiche e le opacità di strumenti come Google Ads o Business Manager con cui gli utilizzatori finali di questi ultimi si trovano a fare i conti ogni giorno, e che rendono questi stessi strumenti talvolta inadeguati quando non assolutamente inutili in alcuni contesti e per determinati obiettivi.
Gli “ossessionati” da Facebook che fingono di non vedere le criticità delle altre piattaforme simili
Se un certo tipo di critica digitale rischia di rivelarsi controproducente perché costruita sulla base non di ciò che le aziende tecnologiche sono, ma di ciò che promettono di essere (o dei desideri e obiettivi che promettono di realizzare), dall’altro lato la critica dei giornalisti e degli attivisti si concentra spesso ossessivamente su un solo aspetto del problema, quello più recente, ignorando tutto il resto. Ne abbiamo avuto dimostrazione anche nelle ultime settimane con i “Facebook Files” del Washington Post, ideati grazie ai documenti trafugati da Frances Haugen dalle chat interne di Facebook, i quali hanno lasciato il posto nei giorni scorsi nei titoli dei maggiori quotidiani all’annuncio della nuova denominazione di “Facebook Inc.” in “Meta“: se gli utenti vengono spesso accusati di aver ridotto il proprio limite di attenzione e concentrazione a pochi secondi di tempo a causa dell’utilizzo compulsivo dei social media, allo stesso modo l’attenzione dei giornalisti e dei media di tutto il mondo sembra essere sempre sul punto di svanire a fronte di qualsiasi annuncio di nuovi prodotti, servizi, denominazioni provenienti dalle stesse aziende tecnologiche fino a poco tempo prima così severamente accusate.
In questo contesto, l’attenzione quasi spasmodica riservata negli ultimi tempi a Facebook e agli scandali che ormai a cadenza mensile colpiscono l’azienda sembra aver avuto almeno una conseguenza positiva per tutti gli altri social: mentre il social fondato da Mark Zuckerberg si trova costantemente sotto i riflettori, Twitter, Twitch, LinkedIn, Pinterest, TikTok continuano a prosperare in una condizione di semioscurità senza ricevere uguale attenzione per gli stessi se non più problemi di sicurezza, violazioni della privacy, censura di contenuti e molto altro ancora. La critica digitale, soprattutto quella che si legge sui giornali o si ascolta in tv o alla radio, vista dall’esterno appare talvolta come un tentativo di “rivincita” dei vecchi media sui nuovi, in particolare su quell’azienda – Facebook – che più di altri ne ha messo in crisi il modello di business basato sui ricavi da inserzioni pubblicitarie, al punto che piattaforme minori o emergenti sembrano essere quasi del tutto ignorate dalla grande stampa malgrado le evidenti somiglianze di LinkedIn, Twitter e TikTok con Facebook stessa, con le sue opacità, con le sue omissioni, con il suo modello di business e le asimmetrie informative nei riguardi di utenti e piccoli e grandi inserzionisti.
La critica di un modello non può basarsi sulla accettazione supina delle alternative esistenti e possibili
È compito della critica formulare proposte? No, ma è sicuramente compito della critica quello di non trascurare gli aspetti negativi degli strumenti apparentemente all’opposto di quelli oggetto di analisi: raramente, o per meglio dire quasi mai, mi capita di leggere studi critici e approfondimenti altrettanto dettagliati sulle piattaforme ritenute “alternative” rispetto ai vari Facebook, Twitter, Google o Amazon. Non si sente spesso parlare dei limiti strutturali di un motore di ricerca come DuckDuckGo, ad esempio, considerato da molti l’alternativa a Google e Bing seppur su scale drammaticamente inferiori. DuckDuckGo viene infatti solitamente descritto ed elogiato per le sue opzioni di tutela della privacy degli utenti, senza ricevere altrettante attenzioni per quanto riguarda e la qualità dei risultati delle ricerche o l’attività dei suoi quality rater (se mai esistono). Un limite della critica digitale contemporanea è, in questo senso, anche quello di partire da principi assoluti salvo poi non indagare mai le possibili conseguenze operative e di comportamento derivanti da un’adozione pressoché totale di questi medesimi principi. Forse, è il mio sospetto, è proprio questa mancanza di approfondimento a impedire agli ideatori di piattaforme concorrenti e innovative di riflettere sul proprio modello, perfezionarlo, acquisire visibilità, finanziamenti e quote di mercato in modo da rappresentare una vera e credibile “alternativa” ai modelli dominanti.
Oggi, una parte della critica digitale di maggior successo mediatico sembra essersi attestata su una ben precisa linea del Piave: di fronte i “nemici” della libertà e della democrazia, incarnati di volta in volta in Facebook, Google, Amazon, Microsoft e Apple in lontananza sullo sfondo (con i suoi revisori dell’App Store, con il suo “walled garden” in formazione), dietro le spalle la terra promessa delle “libertà” rappresentata da strumenti adottati solo da una quota irrisoria di utenti, da sempre descritti come alternative valide e credibili ma mai altrettanto indagati dal punto di vista del funzionamento operativo e dell’effettiva adozione sul lungo periodo. Il sospetto, infatti, è che molti tra coloro che sono attivamente impegnati nella critica digitale puntino oggi semplicemente a fare di questa attività un mestiere, un mezzo per ottenere visibilità personale, o un’attività slegata da qualsiasi obiettivo concreto, raggiungibile e misurabile: molti dei critici “di professione” che sembrano aver fatto della distruzione di Facebook una missione di vita, degli attivisti digitali che ogni giorno dedicano ore alle proprie “stories” di Instagram, probabilmente vivrebbero come una tragedia la possibilità che una qualsiasi di queste piattaforme possa semplicemente sparire dall’oggi al domani, per lasciare spazio alle poche, sconosciute e non meno problematiche “alternative”.