“Capitalismo della sorveglianza”, pubblicato in Italia da Luiss University Press, è il nuovo libro di Shoshana Zuboff di cui sentirete parlare a lungo nei prossimi anni.
Ci sono libri che vengono citati continuamente pur senza essere letti, se non da pochi: “Il capitalismo della sorveglianza” di Shoshana Zuboff è tra questi, purtroppo non favorito dalla sua lunghezza (oltre 500 pagine) e citato spesso più per il suo azzeccatissimo titolo che non per via degli interessanti concetti espressi dall’autrice. Che cos’è, infatti, quel “capitalismo della sorveglianza” cui fa riferimento Zuboff: una distopia, un nuovo modello di business, un patto infernale tra Stati e aziende private? Rispondere a queste domande è lo scopo di questa recensione, nella speranza di scongiurare ulteriori utilizzi impropri del titolo in futuro.
Insegnante presso la prestigiosa Harvard Business School, Shoshana Zuboff concentra nel “Capitalismo della sorveglianza” una delle migliori ricostruzioni di sempre degli anni d’oro di Google, emersa come potenza globale negli stessi anni dell’esplosione della bolla delle dot-com e degli attentati dell’11 settembre 2001. Secondo Zuboff, infatti, sarebbero stati questi due avvenimenti a spingere l’azienda fondata da Larry Page e Sergey Bryn a entrare con decisione in quello che fino ad allora era un “territorio inesplorato” per le aziende hi-tech: lo sfruttamento a fini economici del “surplus” dei dati generati dagli utenti durante l’utilizzo dei servizi digitali, con l’obiettivo di “rendere gli annunci più remunerativi per Google e i suoi inserzionisti” grazie all’analisi dei dati stessi.
Il mercato dei comportamenti futuri del capitalismo della sorveglianza
Seguita a distanza di pochi anni da Facebook e da altre piattaforme social minori, Google è stata la prima azienda che ha “scoperto, elaborato e diffuso il capitalismo della sorveglianza”. Una nuova forma di capitalismo, quindi, dove i servizi messi a disposizione dalle grandi aziende hi-tech non sono più oggetto di compravendita ma sono “esche, esche che attirano gli utenti in operazioni nelle quali le loro esperienze sono estratte e ‘impacchettate’ per gli scopi di altre persone”. Un capitalismo che non opera nel mercato tradizionale dei beni e servizi di consumo ma nel “mercato dei comportamenti futuri”, dove a essere messe in vendita sono sofisticate previsioni sugli interessi e i comportamenti di miliardi di persone a fini pubblicitari: previsioni generate dagli algoritmi, a loro volta alimentati dalla raccolta continua di dati ottenuti attraverso molteplici “esche” per gli utenti.
A distinguere il libro di Shoshana Zuboff da altre opere di argomento analogo non è quindi un titolo particolarmente riuscito, bensì l’intuizione di come il capitalismo della sorveglianza non sia una tecnologia ma “una logica che permea la tecnologia e la trasforma in azione, inimmaginabile fuori dal contesto digitale”. La genesi del nuovo capitalismo coincide con la scoperta che i dati estratti dagli utenti non hanno alcun valore di per sé, ma lo acquisiscono nel momento in cui vengono utilizzati per elaborare ipotesi su ciò che le persone decideranno di acquistare, realizzare o desiderare in futuro. Previsioni, quelle vendute da Google e Facebook, ritenute più attendibili di altre perché generate da una sorveglianza mai prima d’ora così pervasiva (da Google ad Android, da Maps a Shopping, da YouTube a Google Play, da Facebook a Instagram, da Messenger a Whatsapp, eccetera eccetera).
Chi controlla che “le previsioni” siano giuste?
“Questa nuova forma di mercato – conclude Shoshana Zuboff – ritiene che servire i reali bisogni delle persone sia meno remunerativo che vendere previsioni sul loro comportamento”. Opera complessa e di non immediata lettura, il “Capitalismo della sorveglianza” pone il dibattito sulle tecnologie su un piano diverso rispetto a quello che siamo stati abituati ad affrontare fino a qui. Se è vero, infatti, che Google e Facebook possono essere accusati dall’autrice di aver ignorato qualsiasi “limite privato degli individui”, nondimeno il successo commerciale dei colossi del digitale dipende dal fatto che milioni di clienti di questi ultimi (dalla multinazionale che spende centomila euro in pubblicità all’anno alla piccola e media impresa che ha un budget di mille euro al mese) non si fanno troppe domande nel pagare per ottenere l’accesso alle previsioni formulate sulla base di una sorveglianza illimitata dei comportamenti e dei desideri degli utenti. Previsioni, tuttavia, tutt’altro che trasparenti nelle modalità con cui sono elaborate.
È qui, forse, che l’ottimo lavoro di Zuboff meriterebbe di essere ulteriormente approfondito. Se la crescita del valore del “mercato dei comportamenti futuri” dipende dalla crescita del valore globale delle “previsioni” in vendita su quest’ultimo, ogni successiva critica a questa nuova modalità di capitalismo non può che partire dall’analisi della effettiva utilità di queste previsioni per coloro che le hanno “acquistate”. In che misura Google e Facebook rispondono ai bisogni dei loro inserzionisti, siano essi una multinazionale o una piccola impresa, un’associazione no-profit locale o un politico che si candida per le elezioni nazionali? Dopotutto, la promessa dei “capitalisti della sorveglianza” è nientemeno quella di poter prevedere i comportamenti e gli interessi futuri degli utenti che ne utilizzano gratuitamente i servizi, a beneficio di coloro che sono in grado di pagare per accedere a queste stesse previsioni: una promessa che finora ha arricchito non poco coloro che l’hanno formulata, mentre milioni di aziende continuano a spendere soldi ogni giorno in cambio di qualche migliaia di “like” il cui reale significato è ancora tutto da dimostrare.