Nel corso del 2020 ho avvertito il bisogno di ripensare la mia dieta mediatica, dai giornali alle newsletter, per provare a uscire dalla “echo chamber” del lockdown ma senza lasciarmi travolgere dall’infodemia.
Lo ammetto: per qualche mese ho pensato di poter fare a meno dei quotidiani di carta. Nel periodo che va da marzo a maggio 2020, in coincidenza del primo lockdown in cui anche andare a fare la spesa era diventato un’avventura, ho rinunciato alla mia camminata quotidiana verso l’edicola più vicina per non espormi a ulteriori, improbabili rischi sanitari. È stato così che, per la prima volta dalla maggiore età, ho trascorso quasi tre mesi di seguito informandomi solo online o via radio (per scelta non guardo la televisione): esperimento fallito.
Le echo chamber e l’insostituibile “pesantezza” della carta stampata
Ho preso l’abitudine di leggere quotidiani di carta sin da quando ero giovanissimo, associando in maniera irreversibile la lettura del “giornale” a un buon cappuccino al bar in compagnia di mio padre. Anche una volta uscito di casa, all’età di 21 anni, ho continuato ad acquistare quotidiani per passione: quando vivevo a Parigi non vedevo l’ora che arrivasse il weekend per leggermi “Le Monde”, mentre in Italia ho smesso da tempo di avere un quotidiano di riferimento per aprirmi alla molteplicità di idee e opinioni spesso in conflitto tra loro.
Sembra strano dirlo, su un blog che si chiama “Umanesimo Digitale”, ma è così: non sono mai riuscito a emanciparmi del tutto dall’idea che attraverso la carta stampata sia possibile informarsi meglio, su determinati aspetti della vita quotidiana, rispetto alle possibilità offerte dall’online. Non sto parlando dell’online tout court, ma della versione online dei quotidiani tradizionali: ancora oggi non riesco a passare più di pochi minuti sui siti di questi ultimi, mentre mi immergo per ore nella lettura di un “cartaceo” senza distrarmi.
Posso quindi fare a meno dei quotidiani cartacei per ricevere informazioni su ciò che già ho intenzione di cercare, sugli argomenti che già so che potrebbero interessarmi, ma non riesco a fare a meno di essi per seguire quegli argomenti che online non ricerco attivamente e che gli algoritmi non mi suggeriscono quasi mai: mi riferisco alla politica interna, alla “nera”, alle inchieste giudiziarie e altri aspetti meno gradevoli della cronaca quotidiana che sul cartaceo si collocano in un ordine gerarchico pressoché impossibile da ignorare.
Online, scorrerei i titoli distrattamente, promettendomi ogni volta di approfondire le notizie “dopo” aver letto quelle per me più urgenti: questa è la conseguenza di una modalità di fruizione dei contenuti sui siti web dei giornali che ha perso qualsiasi pretesa di stabilire una gerarchia tra le diverse notizie. L’occhio si muove velocemente e distrattamente tra titoli diversi in competizione tra loro per la mia attenzione, e il bisogno di informarmi su ciò che mi riguarda nell’immediato (per lavoro, per gusti personali) mi porta a rimandare all’infinito ciò che non ha collegamenti diretti con la mia vita di oggi. Non penso di essere l’unico a soffrire di questa “debolezza”.

L’infodemia data dagli automatismi dell’informazione algoritmica
Mentre prendevo a poco a poco consapevolezza di come l’assenza di quotidiani cartacei avesse come conseguenza quella di rinchiudermi all’interno di una “echo chamber” fatta di notizie, fonti e argomenti già noti, iniziavo ad avvertire sempre più la ridondanza delle mie abituali fonti di informazione online. Né le newsletter a cui ero iscritto, né i flussi di aggiornamenti dei vari social erano più sufficienti ormai a permettermi di approfondire davvero le notizie che mi interessavano: ovunque le stesse informazioni, rielaborate con parole diverse, ma senza collegamento tra loro né ulteriori spunti di riflessione.
È stato così che, per non lasciarmi sommergere da una infodemia che nell’anno del Covid19 ha raggiunto livelli quasi parossistici, ho iniziato le “grandi pulizie” di primavera: ho dedicato intere serate a rimuovere collegamenti da account Twitter, pagine Facebook, gruppi social e newsletter di cui non ricordavo neppure di essere iscritto. A poco a poco, in mezzo a un ineliminabile rumore di fondo, ho iniziato a scoprire giornalisti, studiosi e professionisti capaci di soffermarsi un momento di più sull’opportunità di condividere o meno qualcosa con il prossimo. Meno contenuti, ma più ragionati e contestualizzati.
Detta così sembra un’attività banale: eppure non credo che ci si soffermi mai abbastanza su quanto la selezione algoritmica (e la nostra inerzia) possa condizionare a tal punto la nostra visione del mondo da rinchiuderci all’interno di automatismi che hanno ben poco di immanente e di casuale. Se non avessi fatto questo lavoro di pulizia oggi non avrei scoperto su Twitter dei nuovi account che fanno appassionare di astronomia come quello di Corey Powell, pagine Instagram che fanno divulgazione come LawPills, utenti Facebook che discutono di storia e letteratura come Giuseppe Mendicino, e non mi sarei iscritto a delle newsletter di approfondimento come “Platformer” di Casey Newton perché troppo impegnato a scorrere distrattamente i titoli delle precedenti.
A un certo punto, nel corso di un anno in cui l’informazione è diventata una risorsa inesauribile quanto opprimente, mi sono reso conto di come la “dieta mediatica” che mi aveva bene o male sostenuto negli ultimi anni fosse diventata palesemente insufficiente al mio bisogno di conoscere e capire il mondo e alla contemporanea impossibilità di farlo muovendomi da casa. Per non perdere il contatto con la realtà, ho dovuto trovare il tempo di selezionare nel mio consumo quotidiano di informazioni la giusta dose di varietà, tempestività e approfondimento: una vera e propria “dieta” per non continuare a “ingozzarmi” inutilmente di informazioni ridondanti scelti da algoritmi inadeguati e da contatti non accuratamente selezionati.
La mia dieta mediatica, ora
A poco a poco, con fatica, mi sono avvicinato a una nuova forma di equilibrio, basato sulla rassicurante regolarità delle newsletter settimanali e quotidiane in luogo dell’aggiornamento imprevedibile dei feed social e dei siti di news: alla mattina leggo la rassegna stampa di “Good Morning Italia”, il “Quartz Daily Brief” o l’edizione notturna (per il pubblico europeo) di “Platformer” di Casey Netwon. Durante il giorno tengo d’occhio le notifiche dei social, soprattutto per quanto riguarda i contenuti di interesse locale come quelli pubblicati nelle “social street” di quartiere milanesi. Nel pomeriggio mi soffermo sulle newsletter in inglese di “The Daily Disruptor”, “Cb Insights“, “Sifted“, verso sera arriva la sintesi quotidiana de “Il Post”, e gli aggiornamenti di lavoro di “Search Engine Journal”. Al mercoledì aspetto la newsletter di Binario 9 ¾, al giovedì quella di Francesco Gavello, al venerdì “Ellissi” di Valerio Bassan, al sabato quella di Fondazione Feltrinelli, mentre la domenica è il giorno di “Guerre di Rete” e “Charlie”.
In un eccesso di crisi di astinenza mi sono abbonato a cinque riviste cartacee, ma alla fine di quest’anno ne salverò solo un paio di cui una è “Scomodo”, nuovo mensile nato a Roma da una generazione di giovanissimi e talentuosi under 25. Dal lunedì al sabato compro in media cinque quotidiani cartacei diversi, non più di due al giorno, alternandoli tra loro con regolarità e provando a leggerli sempre fino in fondo alla ricerca di ciò che per me è “invisibile” (o quasi) online. Raramente mi collego ai vari “repubblica.it”, “corriere.it”, per citare i principali nella classifica di Audiweb, perché faccio sempre più fatica a distinguere tra ciò che è un dato di fatto e ciò che è solo opinione, bozza non confermata o voce di corridoio, Ascolto poco la radio, molto meno rispetto al passato recente pre-pandemia, e non ho ancora trovato la mia “dieta mediatica” ideale per i podcast: troppo lunghi, alle volte, e ancora troppo difficili da cercare con gli imperfetti filtri messi a disposizione da Spotify o Google Podcast.
In tutto questo manca, come ho detto, la televisione: non ne ho avuta una per anni, e ora che ce l’ho non riesco proprio a mettermi seduto davanti allo schermo per fare “zapping” tra Canale 5 e Rai Uno. Così come non riesco a fare a meno dei quotidiani, non riesco ad accettare un media come quello televisivo dove l’informazione viene spettacolarizzata all’interno di format di durata predefinita: a confronto, preferisco di gran lunga la lunghezza variabile di newsletter, articoli e video online, dove è il contenitore ad adattarsi al contenuto. Infine, non posso fare a meno di notare come le poche volte negli ultimi anni in cui ho dedicato più di qualche minuto alla “tv” – quella tradizionale, quella “in diretta” – sia stato in occasione di una visita a parenti ultraottantenni, dove sono rimasto sempre stupito dalla presenza degli stessi, identici presentatori di venti anni fa.
Come in tutte le diete, anche nel mio caso c’è sempre una pietanza che proprio non vuole saperne di andare giù.
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