Dalla proliferazione dei contenuti al “rigetto” dell’abbondanza: le difficoltà a cui potrebbe andare incontro il settore dei podcast derivano innanzitutto dai limiti della tecnologia di ricerca, prima ancora che dalla qualità dei contenuti.
“Adesso tutti dicono di fare podcast, ascoltano i podcast, parlano di podcast, si intendono di podcast, scrivono libri su come si fanno i podcast… anche senza averne mai fatto uno”: così afferma Jonathan Zenti, uno dei più conosciuti e stimati autori italiani, nell’ultimo episodio del suo seguitissimo podcast “Problemi”, con un misto di ironia, sconforto e… rassegnazione. Trentacinque minuti che vale la pena di ascoltare per capire in che modo quello che fino a pochi tempi fa era un mondo tutto sommato ristretto, dove i ruoli di produttori e fruitori di contenuti erano ben definiti o perlomeno riconoscibili, si sia trasformato oggi – per usare le parole di Zenti – in una sorta di “Coca Cola dell’industria culturale”. E non solo di quella.
Non voglio, qui, mettermi a sciorinare dati e ricerche sullo straordinario successo del settore negli ultimi mesi. Il lockdown non ha fatto altro che accelerare un processo in atto da diverso tempo, che l’esperienza di autori come Jonathan Zetti, la visibilità raggiunta da produzioni come “Veleno”, la ricorrenza di eventi come il “Podcast Festival”, la crescita delle piattaforme di distribuzione come Spotify e la visibilità offerta dai motori di ricerca come Google stava da tempo alimentando anche nel nostro Paese. “Tutti – secondo Zenti – si sono messi a fare podcast”: chi per sincero interesse, chi per rilanciarsi professionalmente nel pieno della crisi economica tuttora in corso. Ma non sono le motivazioni quelle che voglio approfondire.
La proliferazione dei podcast, prima e dopo il lockdown
Quello di cui si discuterà a lungo, nei prossimi mesi, sono piuttosto gli strumenti che possono aiutare i produttori di contenuti e gli ascoltatori a non essere sommersi dalla marea dilagante di nuovi podcast. Passata l’euforia iniziale, l’abbondanza rischia di venire a noia, la mancanza di riscontri in termini di pubblico rischia di scoraggiare i nuovi autori di talento: troppa improvvisazione, troppe produzioni di scarsa qualità, troppe ricerche da effettuare prima di scoprire il podcast più adatto. Non è un caso, infatti, che Google abbia di recente aggiunto nel suo “Podcast Manager” l’accesso a nuovi dati statistici per capire quali tra i canali (motore di ricerca, assistente vocale, etc.) contribuisce maggiormente alla crescita del pubblico di ascoltatori e abbonati. Non mancherà molto, temo, prima di vedere su LinkedIn i primi annunci di lavoro per “Podcast SEO Specialist”, qualunque cosa esso voglia dire..
In questo senso non dovrebbe mancare molto prima che lo stesso concetto di “podcast” vada incontro a un inarrestabile processo inflazionistico. Già oggi si utilizza il termine per descrivere ciò che podcast non è, come l’audio di un video YouTube pubblicato separatamente su Spotify nella speranza di allargare la propria audience potenziale, o la registrazione di una trasmissione radiofonica originariamente pensata per un pubblico generalista, con tempi contingentati e una fruizione rigorosamente “in diretta”. Tutto il contrario, in sostanza, di ciò che il podcast rappresenta: così diluito, il concetto rischia di perdere la sua efficacia proprio nel momento di massima diffusione. Se tutto ciò che è “ascoltabile” diventa un podcast, che cosa rimane del podcast e dei podcast in quanto tale? Come si riconoscono, come si cercano?
Verso i “social” podcast? Speriamo di no
Se la domanda “identitaria” può rimanere ancora senza risposta, perché nessuna previsione è in grado di anticipare la capacità di apprendimento dei nuovi autori emersi nei mesi del “lockdown”, si pone oggi con urgenza la domanda di nuovi strumenti di ricerca e distribuzione. Fino a che punto, infatti, Spotify, Google o Spreaker sono in grado di rispondere in maniera pertinente alle richieste delle persone? Titoli, descrizioni, trascrizioni e recensioni dei podcast potrebbero non essere già oggi più sufficienti per “farsi trovare” dagli spettatori potenzialmente interessati. Per non parlare dei social media, per i quali il podcast è un contenuto “non nativo” (raggiungibile attraverso link esterno) e quindi penalizzato nella sua visibilità “organica” all’interno dei flussi di aggiornamenti degli utenti e delle pagine, in attesa che gli stessi social si decidano a offrire agli utenti la possibilità di creare nativamente contenuti audio (ma a frenare questa possibilità vi sono complessi e annosi problemi di moderazione).
Assisteremo alla nascita di nuovi motori di ricerca, specializzati nel reperimento di contenuti audio di qualità? I podcast che saranno maggiormente “citati” all’interno di altri podcast saranno quelli che avranno maggiore visibilità? O, piuttosto, non assisteremo a una trasformazione in chiave “social” dei podcast, la cui visibilità diventerà direttamente proporzionale ai commenti, ai “like” ricevuti? La diffusione della “ricerca vocale” andrà di pari passo con la capacità degli algoritmi di suggerire il miglior contenuto, testuale o vocale che sia, o questi ultimi resteranno prigionieri di processi che hanno già dimostrato tutti i propri limiti? Il problema, per ritornare allo sfogo iniziale di Jonathan Zenti, non è tanto che “tutti” si siano messi a fare podcast, quanto il fatto che “nessuno” sia oggi nelle condizioni di ascoltare distintamente le poche voci che si differenziano dal coro.
(Foto di copertina: rupixen.com/Unsplash)