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Digital Markets Act e interoperabilità: verso la fine dell’effetto network?

Il Digital Markets Act obbligherà i servizi di messaggistica più diffusi, come WhatsApp e iMessage, a diventare interoperabili con quelli meno popolari, come Signal e Telegram, mettendo con ogni probabilità in crisi il modello di crescita basato sull’effetto “network” su cui le grandi aziende tecnologiche hanno costruito il loro recente successo.

Per alcuni anni è sembrato inevitabile che aziende private come Facebook, Google, Amazon, Apple fossero destinate a un ruolo da eterne protagoniste nel settore dell’innovazione digitale, seguite a distanza di tempo, e con molto affanno, dai politici di ogni Paese, a lungo criticati da giornalisti, attivisti ed esperti per la loro manifesta incapacità di tenere il passo con le nuove possibilità offerte dalla tecnologia. Fino a poco tempo fa, le aziende conosciute con l’acronimo di “GAFA” sembravano essere in grado di plasmare il futuro di qualsiasi settore – economico, sociale o culturale che fosse – semplicemente destinando una quantità sufficiente di fondi, esperti e tempo di sviluppo a questo o quel progetto basato sull’utilizzo di nuove tecnologie digitali, approfittando di vuoti legislativi che sembravano essere del tutto incolmabili con i tempi lunghi e i compromessi richiesti dalla politica, soprattutto quella formata da esponenti privi di competenze e sensibilità tecniche avanzate.

L’innovazione tecnologica può essere di matrice privata o pubblica, guidata ora dalle aziende private ora dai legislatori sovranazionali

Non è sempre stato così: tra la fine degli anni Novanta e l’inizio degli anni Duemila, a cavallo della destabilizzante bolla delle dot-com, è stata la politica – nel caso specifico, quella di matrice statunitense, seguita a poca distanza di tempo da quella europea – a creare il contesto favorevole entro cui gli attuali “giganti” del web hanno avuto la possibilità di crescere e consolidare la propria posizione di monopolio a discapito dei concorrenti futuri: si pensi, solo per fare un esempio, alla “Section 230” contenuta nello United States Communications Decency Act che a distanza di un quarto di secolo dalla sua entrata in vigore fornisce ancora oggi ad aziende come Facebook e Google la totale immunità rispetto ai contenuti pubblicati dagli utenti, proteggendo le piattaforme da continue cause legali e offrendo alle aziende la possibilità, ma non l’obbligo, di moderare i contenuti in base al proprio tornaconto reputazionale.

Prima ancora che l’iniziativa di investitori e aziende private, è stata quindi la politica a incentivare il progresso tecnologico e l’innovazione digitale attraverso leggi e regolamenti volti a favorire la nascita di nuove imprese e a sostenere queste ultime nella sperimentazione di nuovi prodotti e servizi fino a poco tempo fa del tutto inediti. Dopo anni di parziale eclissi, e dopo che innumerevoli criticità nell’operato delle aziende più conosciute hanno smosso a più riprese l’opinione pubblica e gli esperti, la politica sembra infine essersi reimpossessata a pieno titolo del suo tradizionale ruolo di protagonista dell’innovazione tecnologica: la prova più evidente, in questo senso, viene dai nuovi “Act” di matrice europea, dal GDPR al Data Act, dal Digital Services Act allo stesso Digital Markets Act che ha dominato le cronache degli ultimi giorni. Nei palazzi di Strasburgo e Bruxelles si stanno perfezionando in queste stesse ore le norme che potrebbero aprire una fase completamente nuova dell’economia e della società digitale per i prossimi decenni.

Il Digital Markets Act costringe le aziende più grandi all’interoperabilità con quelle più piccole, a parità di condizioni tecniche di sicurezza e privacy

Il Digital Markets Act, in questo contesto, rappresenta forse l’innovazione legislativa più importante e apparentemente più temuta dalle grandi aziende tecnologiche: rivolgendosi nello specifico alle aziende che hanno almeno 75 miliardi di euro di capitalizzazione di mercato o 45 milioni di utenti registrati, il nuovo Regolamento costringerà queste ultime – tra le altre cose – a fornire servizi di messaggistica completamente interoperabili con analoghi servizi forniti da aziende più piccole. Secondo le anticipazioni (il testo finale non è ancora pronto, né lo sarà prima di qualche mese) entro pochi anni un utente di WhatsApp o di iMessage dovrebbe quindi essere in grado di inviare messaggi, foto, video a un utente di Telegram, Signal o di qualsiasi ulteriore servizio di messaggistica, senza rinunciare alle caratteristiche tecniche di sicurezza e privacy offerte da tutti i fornitori coinvolti.

Dalla prospettiva delle aziende a cui il regolamento è destinato, il Digital Markets Act rappresenta una soluzione di continuità decisiva in un mercato in cui la maggior parte dei servizi sono gratuiti, e il valore dei servizi e delle singole aziende cresce in misura direttamente proporzionale con gli utenti registrati e i dati estratti da questi ultimi: che valore potrà estrarre un’azienda come Meta da coloro che non avranno più bisogno di registrarsi a WhatsApp o a Messenger per comunicare con i propri amici, parenti, colleghi o clienti rimasti sulle sue piattaforme di messaggistica? Che cosa cambierà per Apple, dopo che per anni quest’ultima ha rifiutato qualsiasi opzione di interoperabilità del suo servizio iMessage verso gli utenti dei dispositivi Android?

Alcuni passaggi e criticità del Digital Markets Act condivise in anteprima su Twitter.

Da Telegram a WhatsApp, da Signal a iMessage: l’interoperabilità dei servizi di messaggistica mette in crisi la crescita fondata sull’effetto network

Più facile a scriversi che a realizzarsi, l’interoperabilità tra i servizi di messaggistica sembra tuttavia in grado di assestare un colpo mortale a quelle serie di fenomeni che sono stati alternativamente riassunti sotto il nome di “effetto network”: vale a dire, la capacità di una piattaforma di aumentare il proprio valore e la propria attrattività nei confronti degli utenti all’aumentare del numero di persone iscritte al servizio, rendendo estremamente oneroso il passaggio verso piattaforme nuove o semplicemente e meno popolari. Il Digital Markets Act, in questo senso, dovrebbe consentire anche ai servizi di messaggistica meno diffusi di crescere e consolidarsi in virtù della totale assenza di barriere tra un servizio e l’altro, permettendo agli utenti di mantenere i contatti con i propri amici, colleghi o clienti rimasti su WhatsApp anche dopo essere passati su una piattaforma come Telegram o Signal.

Eppure, non sarà sfuggito ai miei lettori più attenti come gli autori delle innovazioni legislative di matrice pubblica sembrino ripercorrere gli stessi errori degli innovatori tecnici di matrice privata: così come per lungo tempo questi ultimi hanno creduto – in buonafede o meno – che l’innovazione digitale fosse solo una questione tecnologica, dovendo poi compiere enormi sforzi per nascondere la componente umana dietro alla tecnologia (si pensi, ad esempio, alle migliaia di moderatori di contenuti invisibili che lavorano per aziende come Facebook), allo stesso modo le iniziative di cambiamento guidate dal pubblico sembrano tradire la certezza di poter migliorare la tecnologia limitandosi a normare i processi e le possibilità tecniche che la fanno funzionare, ignorando del tutto i processi e le possibilità umane che invece la rendono appetibile agli occhi di utenti, investitori e aziende.

Non è tuttavia sufficiente sostituire una tecnologia con un’altra, se si rinuncia a cambiare il contesto sociale e culturale entro cui questa opera

Il Digital Markets Act, in questo senso, non fa purtroppo difetto, rinunciando a normare quelle caratteristiche che rendono oggi un servizio di messaggistica profondamente diverso rispetto all’altro: la moderazione dei contenuti e delle chat, la possibilità di fare o meno uno screenshot delle conversazioni e di essere avvisati quando questo viene fatto dalla controparte, il limite alla quantità di inoltro dei messaggi, la possibilità o meno di utilizzare nickname e nascondere il proprio numero di telefono, di bloccare utenti molesti e proteggersi dallo spam, solo per citare le differenze più evidenti. Il nuovo Regolamento si limita pertanto a fornire sulla carta una interoperabilità di nome che potrebbe non coincidere con il suo utilizzo di fatto (così come è avvenuto fin qui per la portabilità dei dati concessa dal GDPR, all’atto pratico sconosciuta e ignorata dai più). Non sarebbe la prima volta, nel settore digitale, che le aspettative suscitate tra i destinatari di un’innovazione annunciata tra gli applausi vengono alla fine disattese.

Questo non vuol dire che i regolamenti non possano essere perfezionati e resi più adatti ad affrontare la molteplicità del reale. Così come, per anni, le aziende tecnologiche come Google, Facebook, Amazon e Apple hanno costruito gran parte del loro successo sulla base di promesse di automazione rivelatesi, alla prova dei fatti, nient’altro che promesse mai davvero realizzabili senza un cospicuo intervento umano (si pensi, solo per citare i primi esempi che mi vengono in mente, ai limiti del “motore di risposta” di Google, a quelli dell’intelligenza artificiale per moderare i contenuti di Facebook, a quelli della recente eredità digitale di Apple o dell’assistente virtuale di Amazon) allo stesso modo anche i politici potrebbero costruire gran parte del loro successo mediatico – ed elettorale – sulla base di promesse fin dal principio condannate a essere smentite dalla prova dei fatti. La causa, in entrambi i casi, potrebbe essere paradossalmente la medesima: la convinzione, ma sarebbe meglio dire l’illusione, che sia sufficiente limitarsi a sostituire una tecnologia con un’altra per generare una vera innovazione sociale e di business, dimenticando i lavoratori che quelle stesse tecnologie rendono efficaci e le persone a cui sono destinate.

Foto di copertina: Adem AY/Unsplash

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