Difetti di fabbrica

Lo stupore universale con cui è stata accolta la notizia della scoperta di migliaia di “ascoltatori” professionisti dietro Amazon Alexa è il sintomo della condizione del lavoro umano in questi primi anni dell’era digitale.

Ciò che facciamo per gli altri è destinato a rimanere anonimo. Solo poche persone (artisti, architetti, filosofi, imprenditori) hanno il privilegio di apporre una firma sulle proprie opere. Gli innumerevoli oggetti che riempiono i nostri uffici, le nostre case, la nostra vita si presentano invece come creazioni anonime: quasi fossero un prodotto della natura o delle macchine che li hanno diligentemente assemblati. Gli stessi malfunzionamenti di questi oggetti sono ancora oggi descritti come “difetti di fabbrica”, come se non fosse possibile identificare con certezza la persona a cui attribuire un errore di funzionamento o di progettazione.

Quelli che ascoltano per lavoro le nostre conversazioni con Alexa

Gli stessi uomini che in quanto consumatori possono oggi decidere del successo o del fallimento di qualsiasi prodotto sul mercato, sono sempre più spesso relegati ai margini del mondo produttivo in quanto esseri imperfetti e incapaci di reggere il confronto con macchine sempre più intelligenti, sempre più performanti. Non è una novità, se confrontata con gli ultimi trecento anni di rivoluzione industriale: nell’internet delle cose, tuttavia, dove gli oggetti diventano servizi e i servizi sono dispensati da oggetti “intelligenti”, la presenza umana viene oggi negata o occultata (almeno fino a prova contraria).

È il caso, svelato questa settimana da Bloomberg, dell’esistenza di migliaia di lavoratori che ascoltano ogni giorno migliaia di tracce audio registrate da Alexa tramite Amazon Echo, rispettivamente l’assistente vocale e lo smart speaker della multinazionale di Seattle. Ascoltano le nostre conversazioni, apparentemente senza poter ricollegare le singole voci a una persona definita (ma su questo è lecito avere più di un dubbio), per individuare i possibili “difetti di fabbrica” dell’assistente vocale e perfezionare la capacità di quest’ultimo di comprendere ed eseguire nel minor tempo possibile le richieste dei suoi acquirenti.

A far riflettere, in questa e in altre notizie simili, non è solo l’ennesimo pericolo per la nostra privacy, quanto il fatto che la scoperta della “presenza umana” dietro dispositivi dotati di apparente vita autonoma sia diventata qualcosa di inatteso. L’uomo lavoratore, relegato ai margini o escluso a priori in quanto essere imperfetto, viene oggi richiamato in servizio per rimediare agli errori di funzionamento delle macchine che si supponeva fossero in grado di sostituirlo definitivamente. Errori, dal punto di vista di chi progetta queste macchine, provocati da consumatori altrettanto imperfetti e “irrazionali”.

 

L’eclissi del lavoratore, l’assolutismo del consumatore

Anziché perdere il nostro tempo in complesse e spesso fuorvianti previsioni su quali lavori verranno distrutti dall’intelligenza artificiale, dovremmo forse dedicare la nostra attenzione sul distacco crescente tra la rilevanza dell’uomo in quanto consumatore e la sua eclissi in quanto lavoratore. La stessa Amazon, non a caso, ha costruito il suo successo sulla predominanza del cliente rispetto al venditore, di colui che riceve rispetto a colui che produce, ignorando le possibili conseguenze economiche e sociali quando le due figure sono interpretate dalle stesse persone.

L’automazione, oggi, non si limita a liberare l’uomo dalla fatica fisica: la promessa fondamentale della tecnologia digitale è quella di liberare l’uomo dalla fatica del pensare, dal rischio di assumersi la piena responsabilità delle proprie riflessioni e decisioni. Algoritmi, intelligenze artificiali, assistenti virtuali: tocca oggi ai lavoratori della conoscenza trovare un modo per resistere o convivere con le macchine. Gli operai, invece, sono gli unici esseri umani che le macchine digitali non hanno alcuna possibilità di rimpiazzare definitivamente. Al massimo, possono solo essere nascosti fino alla prossima inchiesta giornalistica.

In uffici anonimi, posti ai quattro angoli del globo, dietro file di computer tutti uguali che aumentano mese dopo mese, siedono fianco a fianco moderatori dei social network, “addestratori” di intelligenze artificiali, “quality raters” dei motori di ricerca, e da ultimo gli “ascoltatori” delle nostre conversazioni con gli assistenti vocali. Il loro è un lavoro ripetitivo, simile in questo all’operaio di una catena di montaggio, che non conosce tuttavia noia o possibilità di distrazione in quanto l’oggetto stesso del loro intervento è la materia multiforme, imprevedibile e spesso problematica generata dall’enorme quantità di interazioni tra esseri umani e dispositivi digitali.

Un esempio di quanto i contorni di questo lavoro possano essere indefiniti, e le problematiche da affrontare complesse, è dato dalla stessa inchiesta giornalistica sugli ascoltatori di Amazon Alexa, che si sono ritrovati di fronte alla probabile registrazione audio di una violenza sessuale consumata a pochi metri di distanza dal dispositivo. Più difficile da interpretare di un video, e forse proprio per questo più difficile da ignorare o dimenticare per coloro che l’hanno ascoltata, tra una richiesta ad Alexa di “mettere una canzone romantica” o di “abbassare le luci” di casa (anche se gli “ascoltatori” in questione sono stati invitati dai propri responsabili a non sporgere denuncia, in quanto essa esulava dal loro iniziale ambito di competenza).

Sono operai che non producono, che non lavorano insieme alle macchine e che non possono essere ritenuti responsabili direttamente dei “difetti di fabbrica” di queste ultime: intervengono solo dopo che la macchina è entrata in azione, per intepretarne i dati raccolti e suggerire possibili variazioni al modo in cui il dispositivo reagisce al comportamento degli utenti. Rimanendo sempre, tuttavia, lontani dal contesto in cui l’interazione tra consumatore e macchina si svolge, e per questo impossibilitati a distinguere con precisione tra un “errore” dell’utente e un “errore” della macchina. Così come è impossibile per noi entrare in contatto con coloro che moderano i nostri post su Facebook, allo stesso modo non abbiamo alcuna possibilità di spiegare il senso delle nostre “conversazioni” con Alexa a coloro che per mestiere le devono ascoltare.

In questo senso è importante sottolineare come le piattaforme su cui stiamo costruendo la futura società digitale si basino oggi su fondamenta altrettanto “imperfette” di qualsiasi società o costruzione propriamente umana, ben lontane dalla presunta razionalità e imperturbabilità delle intelligenze artificiali. Entrambi “imperfetti”, consumatori e lavoratori, possiamo agire di concerto per migliorare il funzionamento delle macchine e rendere queste ultime un assistente prezioso per l’umanità nel suo insieme: per poterlo fare, tuttavia, è necessario che entrambi possiamo essere messi nelle condizioni di riconoscere l’esistenza dell’altro dietro lo schermo.

jacopo franchi

Autore

Jacopo Franchi

Mi chiamo Jacopo Franchi, sono nato nel 1987, vivo a Milano, lavoro come social media manager, sono autore del sito che state visitando in questo momento e di due saggi sull’impatto del digitale nelle relazioni tra persone (“Solitudini connesse. Sprofondare nei social media“) e nelle nuove forme di lavoro e di accesso alla conoscenza (“Gli obsoleti. Il lavoro impossibile dei moderatori di contenuti“).

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