In che modo la pagina Facebook di un quotidiano locale può diventare una fonte di testimonianze utile ad approfondire il retroterra culturale di una notizia di cronaca nera. Il caso di Manduria.
Quello che è successo a Manduria in questi giorni mi ha colpito profondamente, seppure non abbia avuto il coraggio di vedere in prima persona i video delle violenze ai danni della vittima 65enne. Video diffusi in Rete, tra l’altro, dagli account social ufficiali della Polizia di Stato. Una scelta infelice, non solo a mio parere, che ha avuto come prima conseguenza quella di scatenare una rabbia diffusa non solo nei confronti degli assalitori ma anche nei confronti della popolazione della città. Popolazione definita dalle stesse autorità incaricate di indagare sull’omicidio come irrimediabilmente “omertosa”, senza se e senza ma, a conoscenza delle sevizie a cui era stato sottoposto l’anziano eppure del tutto indifferente alla sorte di quest’ultimo.
Una comunità che si interroga sulla pagina Facebook del quotidiano locale
Forse, è stata propria questo rapido propagarsi della rabbia collettiva dai “bulli” agli abitanti “omertosi” – rabbia sollecitata, lo sottolineo, da coloro che dovrebbero fare di tutto per garantire l’ordine pubblico e il rispetto dei tempi della giustizia – che mi ha portato a cercare pagine e gruppi Facebook legati a Manduria stessa. Mi sarei infatti aspettato di vedere questa rabbia sfogarsi principalmente sui luoghi “virtuali” frequentati dagli abitanti “omertosi”, così come durante una crisi aziendale i commenti infuriati dei consumatori si spostano in massa dalle pagine dei media che pubblicano un’inchiesta a quelle dell’azienda oggetto dell’inchiesta stessa. Tuttavia, la realtà è stata ben diversa…
Nel caso specifico mi sono concentrato sui commenti pubblicati sotto ai post del giornale “La Voce di Manduria”. Molti di questi commenti sono ancora visibili, in chiaro. Altri probabilmente saranno cancellati dai loro autori in un prossimo futuro.
Quello che è importante sottolineare qui è come la pagina Facebook di un giornale locale possa diventare da un giorno all’altro, in presenza di eventi di questa portata e gravità, il collettore spontaneo di una città che si mette a nudo, e lo fa con la ingenua sicurezza di non essere osservata dall’esterno. Chiacchiere da bar, per l’appunto, che tuttavia al contrario delle testimonianze orali possono essere lette da chiunque – anche da chi non è del posto – e che possono aiutare a farsi un’idea più precisa se non della dinamica del delitto quantomeno di quello che è successo nei giorni e nei mesi precedenti allo stesso.
Il bisogno di giustificarsi vince la prudenza
Sono informazioni credibili? Sì, se si riesce ad avere il tempo e la pazienza di consultare uno per uno i commenti, soprattutto quando questi vengono pubblicati in risposta ad altre domande poste dai propri concittadini o da chi è di Manduria ma vive in un’altra città. Domande provocatorie, che chiamano in causa i presunti concittadini “omertosi” con toni volutamente aggressivi: “Sei anni… segnalazioni.. una comunità iper attiva come quella del Villaggio, e non è stata presente?”, “si parla di persona con problemi psichici, i servizi sociali ne erano al corrente?”, “come è possibile che i sacerdoti e la parrocchia tutta non lo abbiano notato?”, “loro sapevano tutto, da anni, gli educatori, il don., e nessuno lo ha protetto!”, “le punizioni anche ai vicini di casa, che guardavano a ridevano da dietro le persiane!”.
È qui che l’impulsività prende il sopravvento, il bisogno di giustificarsi di fronte ai propri compaesani si fa più forte, il desiderio di partecipare alla “chiacchiera” vince il timore di essere letti (o “ascoltati”) da orecchie indiscrete: “sia il parroco come la comunità e i vicini siamo intervenuti non una volta sola.. abbiamo chiamato e chiamiamo tuttora i genitori di questi ragazzi che purtroppo hanno queste idee, ma nessuna risposta”; “i vicini compreso il sacerdote hanno chiamato più volte le forze dell’ordine!”, “ve la prendete con i vicini di casa quando di fronte all’abitazione c’è una comunità religiosa che è stata la prima a rimanere indifferente!”, “personalmente ho ripreso tante volte i ragazzi che bullizzavano il signore, chiamando le forze dell’ordine e i genitori ma senza ottenere risultati”, “è da anni che i vicini segnalano, ma finché non c’è il morto le autorità non si muovono”.
È una comunità di qualche migliaia di abitanti che si raccoglie nella pagina Facebook del quotidiano locale per interrogarsi a vicenda, individuare i colpevoli, reagire all’accusa di “omertà”, ignorando o non prendendo in considerazione l’eventualità di poter essere osservata da qualcuno di esterno alla comunità stessa. Facebook ci consente, in questo caso, di osservare a distanza di giorni un dibattito che altrimenti sarebbe sorto e subito dimenticato tra le vie di Manduria. Un dibattito che ci racconta una realtà diversa rispetto a quella di una “omertà” diffusa e indistinta: vicini che segnalano alle forze dell’ordine, preti che chiamano i genitori, educatori che provano a trattenere i ragazzi, forze dell’ordine che fanno un giro di controllo a casa della vittima ancora in vita (ma “solo 2 minuti, prima di andare a prendere il caffè” commenta chi li ha visti). Chi poteva ha fatto qualcosa, nessuno è rimasto completamente indifferente di fronte alle violenze.
Tutti fanno qualcosa, ma nessuno osa avvicinarsi
“Sapevano il parroco.. sapevano le autorità.. sapevano i vicini”: dalla lettura di centinaia di commenti si deduce che nei mesi precedenti la morte del “signor Antonio” la sua agonia era ormai diventata un fatto di dominio pubblico, un evento ricorrente e risaputo (anche se nessuno dichiara pubblicamente di aver visto i video delle violenze che secondo le autorità sarebbero stati diffusi via chat), e che tutti coloro che ne sono venuti a conoscenza hanno fatto “qualcosa” per reagire, chiamando i genitori o allertando le forze dell’ordine che arrivano immancabilmente quando le aggressioni sono già terminate.
Nessuno, tuttavia, compie forse l’unico gesto, quello più umano: avvicinarsi al “signor Antonio”, parlargli, offrirgli compagnia o ospitalità. Ancor prima di essere messo all’angolo dagli aguzzini, legato e torturato in casa, Antonio è un uomo sempre più solo (anche se abita “in pieno centro” del paese, a “due passi” dal complesso ricreativo del “villaggio del Fanciullo” e la sua via è “trafficata” anche di sera), a cui nessuno tende una mano in segno di comprensione. Fino ad arrivare alle figure forse più ripugnanti di tutta questa vicenda: quei passanti che, viene osservato da molti, appaiono di sfuggita nel video delle violenze – sono loro, forse, i veri “omertosi” di Manduria, a prescindere dal fatto di esserne abitanti o meno – e che passano oltre senza fermarsi.
Sono testimonianze che forse non avranno mai un valore di prova, ma che servono per non lasciarsi sopraffare dall’indignazione del momento e capire in che modo le tragedie di questo tipo si portino con sé una lunga premessa fatta di silenzi, paure, rinunce. Di come, in definitiva, una vittima di violenza possa diventare “sacrificabile” dai suoi persecutori nel momento in cui lo stigma che l’ha colpita – aver attirato l’interesse di un gruppo di “bulli” – viene percepito come qualcosa di contagioso, da cui tenersi alla larga fisicamente: “il pover’uomo che nel quartiere veniva indicato come ‘il pazzo’ – si legge in un altro commento – viveva da anni in una situazione di disagio e di abbandono sociale e umano”.
È un racconto incompleto, ridondante, di cui è difficile ricomporre i particolari, ma che tuttavia è vivo e presente sulla pagina Facebook di un quotidiano locale: è il racconto di una disfatta collettiva, forse tanto più difficile da descrivere nel momento in cui tutti accusano tutti di esserne i veri responsabili (i cittadini contro le autorità, le autorità contro i vicini, i vicini contro i genitori, i genitori contro gli educatori). Forse perché non si tratta di una storia che qualcuno ha interesse a raccontare agli inquirenti o a un giornalista armato di videocamera appostato “da giorni” davanti “alla casa del signor Antonio”: sono solo chiacchiere da bar, di cui tutti conoscono la trama ma di cui nessuno vuole esserne ricordato come l’autore.