Una riflessione sul bel saggio di Peppino Ortoleva “Miti a bassa intensità. Racconti, media, vita quotidiana” (Einaudi, 2019) nel contesto delle nuove narrative a combinazione algoritmica.
A che serve studiare i riferimenti storici dei personaggi, le ricorrenze narrative tra una storia e l’altra, distinguere la trama originale dalle stratificazioni successive di un mito, se non si è in grado di riconoscere il vero motivo del perdurare di quest’ultimo nei secoli e tra culture e civiltà diverse? A che serve demistificare il mito, ricondurlo all’interno di un genere definito, se non si è disposti a riconoscere la sua pervasività nella cultura odierna sotto forme ora simili, ora del tutto diverse rispetto a quelle del passato?
I miti a bassa intensità…
Privato della sua aurea sacrale e del suo confinamento a periodi dell’anno e rituali definiti, il mito è stato indagato negli ultimi due secoli quale testimonianza e relitto di civiltà più antiche. Con curiosità talvolta, con erudizione spesso, ma venendo confinato dagli studiosi a un periodo della storia ormai tramontato per sempre o come segno distintivo dei popoli primitivi. Al più, come espressione ingenua di una religiosità popolare ormai in via di estinzione o sottogenere delle favole infantili.
I miti, invece, sono sopravvissuti, e sono ovunque tra noi, anche se il nostro approccio nei loro confronti non è più lo stesso dei nostri predecessori. Sono miti desacralizzati, fruiti liberamente e in momenti diversi della giornata (leggendo, ascoltando canzoni, guardando film), la cui trama si svolge nel tempo presente della storia e non nel tempo mitico della creazione. Per usare la definizione riuscitissima di Peppino Ortoleva, che dà il titolo al suo ultimo libro, sono “Miti a bassa intensità” (Einaudi, 2019): indispensabili a dare senso alla nostra esistenza, anche se “non servono a niente” di concreto (come il gioco).
Il mito contemporaneo non è una risposta istintiva e collettiva alle lacune del sapere, né uno strumento di pura consolazione. “Nei momenti di crisi, personale e a maggior ragione collettiva – spiega Ortoleva – si manifesta una vera e propria domanda di racconti carichi non tanto di verità, quanto di segnali; non tanto di notizie, quanto di profezie”. È il caso, ad esempio, dei miti catastrofici, ambientati nel presente o nel prossimo futuro, dove un’umanità che ha raggiunto un potere tale da distruggere il pianeta viene sterminata (o quasi) da una natura impersonale ma altrettanto violenta e vendicativa.
Non sono semplici “storie” favolose, nel senso proprio del termine: ambientati nella contemporaneità, sono ricchi di riferimenti a situazioni e cose reali, a cui si sovrappongono senza soluzione di continuità eventi ed elementi misteriosi, enigmatici, meravigliosi o semplicemente irreali. Interiorizzati dalle persone attraverso la ripetizione continua di atti del consumo (guardare una serie tv, ascoltare una canzone mentre si è impegnati a fare altro) arrivano a “intensificare l’esperienza ordinaria del vivere” lasciando piena libertà all’individuo di lasciarsi coinvolgere o di dissociarsi.
I miti contemporanei si formano, infatti, in quell’area grigia che precede e supera ogni nuova scoperta, scientifica, culturale o tecnologica che sia. Tanto più aggiungiamo nuove conoscenze a quelle già esistenti, tanto più siamo alla ricerca di storie che diano un senso a:
- ciò che rimane inspiegabile per noi (come le storie di alieni, sempre più popolari man mano che l’universo attorno a noi si svela per quello che è: un cosmo deserto e ostile alla sopravvivenza);
- ciò che ha perso, del tutto o in parte, il suo mistero (si pensi alle storie di zombie e vampiri, popolarissime nell’era in cui i confini della morte vengono spinti ogni giorno più in là dal progredire della medicina);
- ciò che ha perso la sua sacralità e predeterminazione, ed è diventato l’esito di una libera scelta compiuta dagli individui (si pensi al mito dell’amore romantico, a cui si ispira un numero incalcolabile di canzoni e film, nell’epoca della massima liberazione sessuale e affettiva)
I miti a bassa intensità non presuppongono un atto di fede: non spiegano nulla, ma “interpellano e interrogano”. Sono pieni di lacune, omissioni narrative, ma solo in questo modo innescano un ininterrotto processo di ricezione, assimilazione, integrazione e condivisione delle storie. “Chi ascolta un racconto – conclude Ortoleva – se ne è veramente catturato sente l’esigenza di ri-raccontarlo. La ri-narrazione è parte del necessario ciclo di vita delle narrazioni: la presenza sociale di ogni storia continua oltre il singolo atto narrativo, è fatta in larga parte di elaborazioni e riprese, vive nella memoria dei singoli e della collettività”.
… nell’era digitale
Che cosa succede, quindi, quando il “mito a bassa intensità” viene tramesso non più per il tramite di un supporto fisico e indivisibile, ma attraverso quel mezzo ibrido e partecipativo che è la Rete? Credo che i “miti a bassa intensità” di cui parla Ortoleva stiano infatti andando incontro a una nuova e più complessa evoluzione. Un segnale di questo può infatti essere ricercato nel consumo “compulsivo di storie e, soprattutto, frammenti di storie: dalle “maratone” di serie tv su Netflix al continuo “scroll” del flusso di notizie dei social media, dai video “consigliati” di Youtube che spesso non sono altro che spezzoni di film, alle playlist create dagli algoritmi di Spotify.
La diffusione dei “miti a bassa intensità”, abbiamo visto, è tanto più pervasiva quanto più il bisogno di senso diventa sempre più difficile da colmare. Soprattutto in un mondo – quello virtuale – dove ogni lontanza sembra venir meno, ogni cosa o persona sembra diventata d’un tratto “accessibile” (anche se sappiamo che non è così). Il “mito a bassa intensità“, oggi, viene scomposto dagli uomini e ricomposto dagli algoritmi in un numero illimitato di sequenze di micro-narrazioni: sequenze diverse per ciascun utente, costruite in base agli “interessi” e ai comportamenti passati dell’utente stesso e tracciati dalla piattaforma digitale su cui l’algoritmo opera. Con il risultato che ognuno di noi si ritrova a guardare gli stessi “miti” che vedono altri, ma in un ordine narrativo che non è più lo stesso per ciascuno.
Le “sequenze di storie” mitiche create per noi dagli algoritmi, mettendo insieme frammenti o versioni complete di singole storie, acquisiscono senso solo per un individuo alla volta. Solo noi, infatti, possiamo individuare nei “suggerimenti” dell’algoritmo un legame semantico – o, al più, emotivo – con altri video visti o canzoni ascoltate nel passato. Come se cercassimo nella fruizione di tanti piccoli “frammenti” del “mito”, scelti per noi dall’algoritmo, un senso superiore e più profondo, che le narrazioni (cinematografiche, musicali, letterarie) non riescono più a fornire con la stessa intensità di quando il mondo appariva più vasto, le persone meno accessibili, l’informazione meno pervasiva di oggi. Un’intensità e un coinvolgimento emotivo che solo l’algoritmo sembra in grado di suscitare, oggi, perché solo lui sembra conoscere veramente (misurando ogni nostro comportamento in Rete) quegli aspetti della nostra quotidianità – così simile a quella degli altri, così irremediabilmente diversa per tutti – per cui siamo alla ricerca di un “senso ulteriore”, fornito da un “mito” costruito su misura per ciasscuno di noi. Simile a quello altrui, ma intelleggibile da una persona per volta: noi.