Una panoramica quanto più possibile esaustiva degli strumenti di eredità digitale concessi dalle grandi aziende tecnologiche come Apple, Facebook, Instagram, Google, LinkedIn e Twitter, o non concessi come nel caso di TikTok, nella gestione degli account di persone decedute.
Ci sono volute alcune sentenze di tribunali, tra cui quelli italiani, per “convincere” Apple a includere nell’aggiornamento iOS 15.2 uno strumento per la gestione dell’eredità digitale dei contenuti presenti nell’account iCloud dei suoi clienti, seppur con numerose e non intuitive limitazioni. Nulla, invece, viene previsto al momento per la condivisione dei contenuti con i contatti erede da parte di aziende globali come TikTok o Twitter, mentre Meta adotta tuttora politiche e regole diverse a seconda che l’account della persona scomparsa sia un account Facebook o Instagram. LinkedIn copia male un po’ tutti, mentre Google è ferma da anni agli automatismi previsti per la gestione degli account inattivi, per non parlare di Netflix, Amazon o Spotify che evitano di affrontare il problema fino a quando qualcuno non le obbligherà a farlo. Nel clamoroso vuoto normativo europeo lasciato dal GDPR, solo parzialmente colmato dalle singole legislazioni nazionali, la questione dell’eredità digitale oggi è più importante che mai man mano che aumentano ogni giorno gli account lasciati inattivi in seguito alla scomparsa o alla sopraggiunta inabilità dei loro proprietari, mentre famiglie, amici, conoscenti e follower interessati alla sopravvivenza della memoria del defunto devono iniziare lunghe e spesso debilitanti battaglie legali.
Apple “concede” l’eredità digitale in cambio dell’iscrizione degli eredi del defunto al suo servizio iCloud
Colpita ripetutamente dalle sentenze dei tribunali di Milano e Bologna nel corso del 2021, che hanno ordinato all’azienda di condividere con i rispettivi familiari l’accesso agli account iCloud di due minorenni morti in tragiche circostanze, e da anni nel mirino di tribunali di tutto il mondo per l’altrettanto totale mancanza di qualsiasi forma di supporto ed empatia nei confronti delle richieste di familiari e amici di persone decedute anzitempo, Apple ha deciso infine di cedere alle pressioni e di introdurre con iOS 15.2 la possibilità di nominare fino a cinque contatti “eredi” del proprio account iCloud.
Una nomina che, tuttavia, può avvenire solo quando l’utente è ancora in vita, che non impedisce ad Apple di cancellare tutti i contenuti dopo un periodo di inattività non ancora precisato dall’azienda stessa, e che inoltre limita arbitrariamente le effettive possibilità di accesso ai contenuti stessi da parte degli eredi, imponendo a questi ultimi l’obbligo di aprire a propria volta un account iCloud per ricevere la chiave di autenticazione all’account del defunto tramite iMessage: chi non è cliente di Apple, chi non accetta di diventarlo – talvolta, anche in anticipo di anni rispetto alla morte effettiva dell’intestatario dell’account – non può “ereditare” alcunché.
Facebook usa i profili commemorativi per vincolare gli eredi designati a rimanere attivi sulla piattaforma
Non va meglio agli eredi designati da un utente Facebook quando quest’ultimo è ancora in vita: sebbene l’azienda – oggi conosciuta con il nome di Meta – sia stata tra le prime a concedere agli utenti la possibilità di nominare degli eredi digitali per rendere il proprio profilo “commemorativo” (dopo aver comunque ignorato per i suoi primi dieci anni di attività qualsiasi richiesta in tal senso), la stessa azienda applica regole diverse a seconda che l’account della persona scomparsa sia un account Facebook o un account Instagram.
Nel primo caso, infatti, l’account commemorativo di Facebook può essere gestito da un erede che può modificare le foto profilo, l’immagine di copertina, impostare un messaggio di avviso e cambiare la visibilità dei post della persona scomparsa: un impegno non gravoso ma comunque importante, che vincola l’erede di un utente Facebook a non cancellarsi mai da Facebook, pena la perdita dei poteri di amministratore della memoria del defunto. Nel caso di Instagram, invece, l’account commemorativo non può essere in alcun modo modificato da nessuno: resta, a eterna memoria del defunto, anche quando nessuno potrà più dire di averlo conosciuto in vita.
TikTok conserva all’infinito la memoria degli utenti scomparsi, ma li rende introvabili alle ricerche
La gara a chi fa peggio viene vinta, attualmente, da TikTok: pur avendo ormai superato il miliardo di utenti attivi nel mondo, la app di proprietà di ByteDance non prevede alcuna possibilità per la gestione dell’eredità digitale prima o dopo la morte. Non è prevista la funzione di account commemorativo, non è prevista una pagina dedicata sul sito dell’azienda per chiedere la cancellazione dell’account di una persona morta. Se si cerca nella guida di TikTok, in italiano o in inglese, le parole “morte”, “decesso”, “defunto” rimandano a una pagina vuota, ma l’azienda sembra comunque aver affrontato a suo modo il problema.
Secondo i termini di servizio, infatti, dopo 180 giorni di inattività un account TikTok non viene eliminato ma il suo nome utente “potrebbe” (e sottolineo “potrebbe”) essere rinominato in una stringa di numeri casuali, azzerandone la possibilità di essere individuato mediante ricerca sulla app ma rimanendo comunque visibile e disponibile – con tutti i suoi video, i suoi like, i suoi commenti – nello sterminato archivio di contenuti di TikTok, regalando una immortalità digitale totale che forse ben pochi dei suoi giovani e meno giovani utenti desiderano.
Gli account inattivi di Google, i profili congelati di LinkedIn e l’incertezza di tutti gli altri
Se Twitter è come suo solito in ritardo su tutti i concorrenti e si limita a una scarna pagina di contatto da cui gli eredi possono chiedere la cancellazione di un account, impedendo quindi ai propri stessi utenti di decidere del destino dei propri tweet, video, immagini e contenuti digitali quando essi sono ancora in vita, LinkedIn copia un po’ da tutti riuscendo a scontentare chiunque con la creazione di un account “commemorativo” che tuttavia non prevede alcuna forma di gestione attiva da parte degli eredi, neppure per cancellare o rispondere a commenti malevoli lasciati sui precedenti post.
Google, su tutti, è quello più insidioso: gli account dei morti sono trattati alla stessa stregua dei ben più frequenti account inattivi, e solo chi è a conoscenza dello strumento di gestione degli account Inattivi può decidere se nominare un contatto erede dandogli la possibilità di scaricare i propri contenuti una volta trascorsi alcuni mesi di inattività, a partire da un minimo di tre fino a un massimo di diciotto mesi, o cancellare automaticamente tutti i contenuti legati al proprio account. In questo senso, è importante sottolineare come le stesse regole per la trasmissione dell’eredità digitale impongano alle persone di continuare ad accedere regolarmente ai servizi di Google per non incorrere nel rischio di essere catalogati in automatico come utenti inattivi.
Il vuoto normativo del GDPR e la mancanza di qualsiasi standard di gestione dell’eredità digitale imposto alle aziende private
La stessa indifferenza per i diritti e le necessità di trasmissione dei contenuti e delle memorie digitali degli utenti si registra sul fronte di tanti altri servizi digitali oggi diventati di massa come Alexa di Amazon, Netflix, Spotify, e tantissime altre piattaforme che approfittano del vuoto normativo lasciato dal GDPR europeo: vuoto normativo solo in parte colmato dalle legislazioni nazionali, come quella italiana, dove tuttavia permane il dilemma posto dall’impossibilità di condividere in maniera del tutto sicura e con il dovuto anticipo i dati di accesso ai propri account con i propri, legittimi eredi, se non assumendosi dei rischi assolutamente non necessari.
In questo contesto, non sono infatti mai state imposte alle aziende soluzioni tecniche standardizzate per l’accesso agli account dei defunti o il download sicuro dei loro contenuti, e in un mondo dominato dal proliferare di password e metodi di autenticazione a due fattori i singoli utenti sono per lo più costretti a condividere anzitempo con gli eredi designati le chiavi di accesso dei propri account per avere una minima possibilità di preservare il proprio archivio di memorie e contenuti digitali, sostenendo individualmente tutti i pericoli del caso (un amico che tradisce la fiducia, un partner che subisce a sua volta un furto di credenziali, un testamento contenente le password e reso pubblico dopo la morte), o affidandosi a servizi di eredità digitale di aziende private che tuttavia – come tutte le aziende private – possono fallire anzitempo, determinando la perdita delle password loro affidate.
Al ritardo legislativo si somma la volontà delle aziende di contenere i costi e conservare contenuti di maggior valore prodotti dagli utenti deceduti
In linea generale, appare evidente oggi come al ritardo del legislatore europeo (ancor prima che italiano) vada a sommarsi anche la manifesta volontà da parte delle aziende private di affrontare la questione dell’eredità digitale così come hanno affrontato altrettante questioni fondamentali, come la tutela della privacy o la moderazione di contenuti: con un occhio di riguardo ai costi (avere del personale dedicato alla verifica e alla gestione degli account inattivi comporta un costo non indifferente, come dichiara tra le righe Instagram quando mette le mani avanti sul ritardo dei tempi di chiusura degli account di persone decedute dovuto alla scarsità di personale in tempi di pandemia) e un occhio di riguardo ai profitti, sfruttando oltre ogni limite accettabile la possibilità di conservare i contenuti prodotti dai propri utenti scomparsi per incentivare altri utenti a rimanere collegati alla piattaforma, o iscriversi al servizio per poter semplicemente gestire l’eredità dei defunti nel lungo periodo.
In questo senso, non è del tutto escluso che la maggior parte delle aziende private che forniscono servizi digitali possa continuare ancora per molto tempo ad approfittarsi della umanissima tendenza a voler salvaguardare quanto più possibile la memoria di sé presso i propri cari e posteri, per mantenere sotto il proprio controllo l’immenso archivio di contenuti prodotto dai propri utenti e l‘attrattività che questo archivio possiede nei confronti di eredi, amici, fan, lettori, seguaci delle persone defunte, anche a distanza di tempo dall’avvenuto decesso. L’eredità digitale di miliardi di persone, che si tratti di beni patrimoniali o di “semplici” ricordi comunque dotati di un valore intrinseco potenzialmente inestimabile (per non parlare dei film noleggiati, delle playlist organizzate con cura, delle registrazioni delle conversazioni con gli assistenti vocali, delle conversazioni private e pubbliche) è un tema all’ordine del giorno da anni, ma che non sembra mai diventare tra le priorità di nessuno che non abbia appena sperimentato la morte di una persona particolarmente cara.
Tutti gli screenshot contenuti in questo articolo sono stati realizzati dall’autore in data 2 aprile 2022.
Immagine di copertina: Wesson Wang/Unsplash
Grazie per questa interessante e direi drammatica riflessione