I tribunali di Bologna, L’Aquila e Pordenone obbligano i social a riattivare account e pagine cancellate agli utenti senza preavviso e senza motivazione, imponendo alle aziende di pagare migliaia di euro a titolo di risarcimento.
Quattordicimila euro di risarcimento per la cancellazione immotivata e improvvisa del profilo e di due pagine Facebook richiesti dal Tribunale di Bologna con la sentenza del 10 marzo 2021, tremila euro di risarcimento per la sospensione di quattro mesi del profilo Facebook di un altro utente comminati dalla sentenza del 9 novembre 2021 della Corte d’Appello dell’Aquila, centocinquanta euro di risarcimento per ogni giorno di sospensione immotivata del profilo Facebook stabiliti dalla causa civile del dicembre 2018 del Tribunale di Pordenone: sono queste le ultime e più significative sentenze dei tribunali italiani contro le decisioni unilaterali di cancellazione e sospensione (in una parola: censura) imposte dai social media ai propri utenti.
Ogni giorno sono innumerevoli gli account e le pagine social censurati in Italia e in tutto il mondo
Se in tutti e tre i casi, che esaminerò nel dettaglio tra poco, il social ritenuto colpevole della censura è sempre Facebook, non vi è dubbio che le sentenze future potrebbero riguardare anche altri social come YouTube, LinkedIn, TikTok , Twitter o lo stesso Instagram controllato da Facebook: basta infatti leggersi le recensioni pubblicate sulla app ufficiale di Instagram per scoprire come il numero di utenti a cui è stato bloccato il profilo in seguito a una decisione unilaterale, improvvisa e senza motivazione, sia sempre più numeroso, così come non si contano i commenti degli utenti che accompagnano ogni tweet del capo di Instagram, Adam Mosseri, e che tentano disperatamente di segnalare a quest’ultimo di essere stati vittime di censura immotivata.
Privi di assistenza, gli utenti di Instagram censurati si sfogano nelle recensioni sullo Store della App
Il fenomeno è ben lungi dall’essere pienamente quantificato, ma non vi è dubbio che nei prossimi anni il numero di cause intentate dagli utenti e dagli amministratori di pagine e gruppi social che si sono visti rimuovere i propri contenuti e i propri profili, o inibire l’attività delle proprie pagine in maniera improvvisa, senza comunicazione preventiva e senza possibilità di ricevere assistenza o di far valere le proprie ragioni, potrebbe aumentare a dismisura. Per azzardare una previsione, comunque, è sufficiente leggersi i numeri dei report sulla trasparenza della moderazione di contenuti pubblicati a cadenza regolare e redatti dagli stessi social, che riportano migliaia e migliaia di account “riabilitati” dopo un intervento errato di censura.
Un profilo social cancellato vale 10.000 euro di risarcimento secondo i giudici del Tribunale di Bologna
La sentenza del tribunale di Bologna, delle tre, è a mio giudizio quella più significativa: risalente al marzo 2021, è destinata a diventare un caso studio a sé in quanto riconosce forse per la prima volta che “l’esclusione dal social, con la distruzione della rete di relazioni frutto di un lavoro durato 10 anni, sia suscettibile di cagionare un danno grave, anche irreparabile, alla vita di relazione, alla possibilità di manifestare il proprio pensiero utilizzando la rete di contatti costruita sulla piattaforma e alla stessa identità personale dell’utente, che viene oggi costruita e rinforzata anche sulle reti sociali” come riportato in un articolo del Sole 24 Ore che ha dato ampio risalto alla vicenda, trascurata da altri media nazionali.
Nel caso specifico, i giudici del tribunale di Bologna hanno contestato a Facebook la decisione di rimuovere l’account di un utente – e di conseguenza impedire a quest’ultimo l’accesso a due pagine collegate (a tema collezionismo e storia militare) – senza motivare in alcun modo la decisione, senza fornire alcun tipo di preavviso, e senza conservare in archivio alcun documento in grado di ricostruire il processo decisionale interno che avrebbe portato alla scelta di rimozione. In questo contesto, il social è stato condannato a riabilitare l’utenza online della vittima e a risarcire quest’ultima con 10.000 euro per il profilo e 2.000 euro per ciascuna delle pagine collegate, ufficialmente per “condotta contrattuale scorretta”.
I social non possono intervenire in maniera “sproporzionata” nei confronti dei propri stessi utenti
Altre sentenze, meno note ma altrettanto utili da conoscere, sono quelle del dicembre 2018 con cui Facebook è stata condannata dal Tribunale di Pordenone a risarcire 150 euro per ogni giorno di sospensione immotivata dell’account di un utente, ritenuto dall’azienda “colpevole” di aver pubblicato sul proprio profilo un video tratto dalla pagina del Torneo di Wimbledon protetto da copyright. In questo caso, il Tribunale non aveva riscontrato né “chiare e reiterate violazioni”, poiché il video era stato ripreso da una pagina pubblica, mentre era apparso evidente ai giudici come Facebook avesse violato le sue stesse “regole contrattuali” di comportamento degli utenti, intervenendo in maniera “del tutto sproporzionata” con il blocco del profilo.
Sproporzionata è stata ritenuta da altri giudici anche la decisione di Facebook di bloccare per quattro mesi il profilo di una persona dopo che quest’ultima aveva dato dello “stupido” a un altro utente del social e aveva pubblicato foto di Mussolini sul proprio profilo. La sentenza, emessa dalla Corte d’Appello dell’Aquila a novembre 2021, ha portato al risarcimento di tremila euro per l’utente e alla riabilitazione dell’account, dopo che il Tribunale di primo grado aveva inizialmente condannato il social a risarcire l’utente con 15 mila euro a titolo di danno morale. In appello, i giudici hanno riconosciuto come “lecite” le sospensioni legate agli insulti ma illegittima quella relativa alla pubblicazione delle foto, a loro giudizio limitata “all’espressione del pensiero”.
Facebook si rifiuta tuttora di svelare ai tribunali come funziona il processo interno di moderazione dei contenuti
A sorprendere, in negativo, nelle sentenze dei tribunali qui riportate e nelle loro comunicazioni pubbliche è l’assenza totale di riferimenti a coloro che sono stati gli esecutori della censura dei profili degli utenti: i moderatori di contenuti, coloro che sono incaricati dai social media e dalle piattaforme digitali di valutare le segnalazioni provenienti dai propri utenti o da soggetti terzi come le aziende o i governi e di decidere di volta in volta come e in che misura applicare le regole di censura stabilite in maniera arbitraria e unilaterale dalle piattaforme digitali. Non è un caso, in questo contesto, che il tribunale di Bologna abbia contestato a Facebook l’assenza di qualsiasi documento interno utile a ricostruire in che modo è stata presa la decisione di cancellare il profilo dell’utente poi risarcito. In assenza di questi documenti, è impossibile individuare dall’esterno gli esecutori materiali dell’attività di censura online, e ricostruire le motivazioni esatte che hanno portato questi ultimi in errore.
Purtroppo non è la prima né l’ultima volta che Facebook, oggi rinominata “Meta”, si oppone al tentativo di giudici, magistrati, giornalisti, organizzazioni della società civile, aziende e utenti privati di rendere trasparenti i processi interni di moderazione di contenuti. Solo dopo anni e grazie alle testimonianze rese da alcuni ex moderatori è stato possibile, in parte, ricostruire gli aspetti fondamentali di questo processo di sorveglianza e censura globale, e scoprire come esso sia in massima parte esternalizzato verso società esterne e gestito da operatori umani. La speranza, mia e di tutte le vittime degli interventi di censura arbitrari e “sproporzionati“, è che in futuro giudici e inquirenti non si accontentino più di constatare l’assenza di documenti interni, consapevoli che dietro ogni azione di rimozione c’è sempre qualcuno – o più di uno – che ha deciso di fare “clic”, cancellando in un colpo solo reti di relazioni, archivi di contenuti e identità digitali “frutto del lavoro di anni“.