Programmazione, automazione, simulazione: sono queste le dimensioni entro cui si muove, da anni, la ricerca del filosofo Cosimo Accoto e che ha trovato un primo, temporaneo punto di arrivo nella trilogia composta dai saggi “Il Mondo Dato”, “Il Mondo Ex Machina” e “Il Mondo in Sintesi”, pubblicati tutti da Egea Editore.
- Il mondo dato, Il mondo ex machina, il mondo in sintesi: qual è, a distanza di anni, il filo rosso conduttore trilogia”?
Credo sia la necessità di scavare culturalmente e filosoficamente dentro le tecnologie digitali, in senso lato, per cogliere in profondità la morfosi del mondo che si sta producendo. Programmazione, automazione, simulazione sono, per me, le dimensioni chiave di questa nuova ‘terraformazione’ (per usare un’espressione del filosofo Bratton) che ho cercato di ricostruire e di evocare nella trilogia. Sono le dimensioni di un nuovo modo di essere del mondo e, per noi, di essere al mondo. Per usare un’immagine, siamo come astronauti che atterrano per la prima volta su un pianeta nuovo caratterizzato da condizioni di abitabilità strane, per non dire estreme, tanto sono diverse da quelle a cui eravamo abituati: ci sembra che il mondo nella sua costituzione sia rimasto lo stesso, molte delle sue fenomenologie e fattezze ci appaiono ancora immutate (un’auto è un’auto, una casa una casa e così via), ma, tuttavia, sotto queste apparenze antiche la natura delle cose del mondo, degli eventi e dei comportamenti che lo animano sta mutando radicalmente.
Non riusciamo a vedere queste mutate condizioni di esistenza del mondo e di noi che lo abitiamo se non applichiamo lo sguardo analitico ed ermeneutico della filosofia la quale, per l’appunto, ha tra i suoi compiti quello di esplorare i fondamenti dell’essere, le sue condizioni di conoscenza, le sue etiche di conduzione e di convivenza. Tornare a fare esercizio ed esperienza del pensiero filosofico al presente, è questo quello che dovremmo fare. Studiare filosoficamente il codice software e le sue concretizzazioni e assettizzazioni varie. E poi ancora studiare i dati, gli algoritmi, i dispositivi, i protocolli. L’economia, la società, la politica ne sono impattati profondamente in forme e dinamiche che attendono di essere positivamente – ma anche criticamente – investigate. La trilogia è animata da questo spirito e a questo spirito sollecita tutte e tutti. Come scriveva Hegel, la filosofia è il proprio tempo appreso col pensiero. Lasciandosi meravigliare e inquietare anche laddove necessario. E facendosi carico di questa inquietudine e di nuove ferite narcisistiche che si produrranno. Ne usciremo cambiati e diversi. E, se sapremo orientare consapevolmente questa tecnomorfosi, allora forse anche un po’ migliori.
“Programmazione, automazione e simulazione sono le dimensioni chiave di una nuova terraformazione che ho cercato di ricostruire ed evocare nella trilogia”
Cosimo Accoto
- In che misura, invece, il tuo pensiero è mutato in base agli eventi e ai cambiamenti che hanno segnato la storia delle tecnologie digitali nel corso degli ultimi anni dalla pubblicazione del primo libro (dal metaverso alle nuove leggi e regolamenti , passando per le criptovalute.)?
Direi che non mi sembra cambiato nelle sue radici interpretative. La saga è un trittico prefigurativo che guarda al presente ma non con gli occhi della cronaca, piuttosto con quelli della filosofia. Dunque, non con quelli della contingenza, ma con quelli dell’immanenza. E questa, per dirla con una battuta, deve essere indagata primariamente nei suoi fondamenti, non nei suoi regolamenti. Questi ultimi saranno il frutto della negoziazione della contingenza così come lo saranno le fluttuazioni speculative della cryptofinanza o le alienazioni psicologiche immaginabili per i futuri mondi virtuali. Intendiamoci: leggi e regole sono importanti e istituzioni, associazioni e organismi nazionali e internazionali ci stanno lavorando e dovremo progettare e costruire al meglio crypto-sistemi e meta-mondi. Ma il filosofo guarda soprattutto all’immanenza e ai fondamenti. Primariamente alla “condizione” umana (cosa stiamo divenendo) e poi anche, certamente, alla “conduzione” umana (come dovremmo comportarci).
Ad esempio, ne “Il mondo dato” parlavo di ‘trasduzione’ dello spazio da parte del codice: era vero prima del metaverso ed è parimenti e maggiormente vero nel metaverso. Ne “Il mondo ex machina”, avevo argomentato su robotica e ‘algomazione’, l’automazione algoritmica: era vero prima della pandemia, sarà più vero passata la virulenza che ha accentuato digitalizzazione e automazione. Ne “Il mondo in sintesi” ho discusso di ‘assettizzazione’ del codice software: era vero per i Bitcoin ed è vero per i token infungibili al di là delle manipolazioni e fluttuazioni odierne. Dunque, trasduzione dello spazio, assettizzazione del codice, algomazione della società sono fondamenti. Per mettere in crisi questi fondamenti non basta la contingenza (regolamenti e andamenti), ma semmai un’altra e differente immanenza. Che, ad oggi, non vedo.
Poi ovviamente noi viviamo nella contingenza, l’immanenza la si coglie solo col pensiero. Ed è dentro questa contingenza che dovremo fare del nostro meglio per costruire un mondo che sia (stante i fondamenti, ma senza peccare di determinismo) più equo, più inclusivo, più prospero per tutta l’umanità, ma anche per l’intera planetarietà.
“Il filosofo guarda soprattutto all’immanenza e ai fondamenti. Primariamente alla “condizione” umana e poi anche, certamente, alla “conduzione” umana”
Cosimo Accoto
- Qual è il tuo pensiero, ora, sulla “datificazione” del mondo nel momento in cui essa deve confrontarsi con i crescenti timori e le resistenze riguardanti la tutela della privacy di individui e organizzazioni, il furto di dati sensibili, le spinte alla sovranità e isolazionismo digitale, i crescenti costi energetici posti alla digitalizzazione di ogni cosa?
Quello che chiamiamo datificazione (e che sovente viene declinato sotto il paradigma facile della sorveglianza) è il modo d’essere della civiltà digitale. Senza dati non c’è intelligenza artificiale, di dati non può fare a meno l’automazione, dati sintetici produce la simulazione computazionale che andranno a superare quelli reali e ancora, i metadati sono al centro delle tecnologie di tokenizzazione anche di quella ultima infungibile mentre in cybersicurezza si parla sempre più di militarizzazione del dato a proposito di attacchi criminali e di cyberguerra. Infine, la misurazione è l’operazione chiave della computazione quantistica che ci porterà dai bit ai qubit. E così via. Come ho sostenuto altrove, il dato è un nuovo “sensorium”, un nuovo modo di sentire (e abitare e rischiosamente disabitare) il pianeta.
Posta questa premessa, è chiaro che questa datificazione e metadatificazione ci pone una serie di questioni critiche che vanno dalla scala micro e antropica a quella macro ed ecologica. E, tuttavia, mi sembra che ancora non abbiamo compreso a fondo questo passaggio di civiltà che sarà traumatico (lo dico sia in senso positivo sia con un’accezione critica). Biologicamente non siamo una specie che fa uso di molti dati per sopravvivere. E finora abbiamo sempre usato pochi dati, un po’ d’esperienza storica, qualche modello sociologico per costruire organizzazioni, imprese, stati. Stiamo cercando di familiarizzare con questa nuova condizione inflattiva, ma ho la sensazione che facciamo fatica a guardare con occhio e spirito nuovi questo momento. Impiegare, ad esempio, il paradigma della sorveglianza come unica lente per leggere questo nostro presente credo sia quanto meno limitante. E soprattutto fa trasparire anche una nostra ignoranza e incapacità di leggere criticamente il passato.
Ti faccio un esempio: sono in molti oggi ad essere giustamente preoccupati dell’impiego dei gemelli digitali (fatti di dati, algoritmi e modelli), ad esempio, nel caso dei pazienti. Ma poche voci si sono sollevate in passato quando abbiamo cominciato a usare i manichini anti-crash come nostri doppioni, avatar, analogici. Eppure, questi manichini discriminavano per sesso perché erano tarati su corpi maschili. Per anni li abbiamo usati prima che si sollevassero voci femminili critiche e inclusive. O pensa anche al voto elettronico. Correttamente si mettono in luce oggi i limiti delle tecnologie digitali come sostitute accettabili delle pratiche di voto analogiche, ma questo dovrebbe essere un incentivo a sperimentare e trovare soluzioni piuttosto che a rinunciare. Perché è così che ha funzionato anche per il voto analogico. Nessuno lo ricorda, ma storicamente le pratiche attuali sono il frutto perfezionato nel tempo di sistemi e pratiche insoddisfacenti. Il voto cartaceo ai suoi inizi non era così protetto: ad esempio, non c’erano le buste d’involucro del voto e neppure le cabine elettorali singole che ne preservavano la segretezza. Dunque, non abbiamo abitato e non abitiamo il migliore dei mondi possibili (a cui siamo arrivati peraltro correggendo in corso d’opera).
Cerchiamo, allora, di costruire al meglio quelli digitali futuri perché siano equi, aperti e prosperi. Come ha scritto qualcuno, dobbiamo fare non solo critique, ma anche hacking su queste frontiere. Essere cioè capaci di criticare, ma anche costruire sul nuovo.
“Biologicamente non siamo una specie che fa uso di molti dati per sopravvivere. Stiamo cercando di familiarizzare con questa nuova condizione inflattiva, ma ho la sensazione che facciamo fatica a guardare con occhio e spirito nuovi questo momento”
Cosimo Accoto
- In che misura l’automazione di processi industriali, legali, creativi etc. prospettata nel “Mondo ex machina” si potrebbe integrare con la tendenza diffusa a voler porre nuovamente l’uomo “al centro” di ogni tecnologia, creando dei limiti artificiali alla sostituzione del lavoro (intellettuale e manuale) da parte delle macchine?
La questione della “antropocentricità” – nelle sue varie espressioni (rimaniamo umani, l’uomo al comando e così via) – è una visione tanto comune quanto ingenua. Viene ribadita diffusamente nei convegni e sui giornali senza tener conto della complessità storica e filosofica (ma ovviamente anche sociologica, antropologica e politica) occidentale dell’umanesimo e dell’idea di umano. Tra me e me, mi chiedo sempre, quando sento citare questa espressione a quale tipo, modello, forma, storia, esperienza, classe di “uomo” (e, perché no, di donna?) stiamo facendo riferimento. Qual è l’archetipo ideale di umano a cui pensiamo quando diciamo che deve essere riportato al centro. E sono le stesse domande che si farebbe un neuro-scienziato, un antropologo, un ecologo, un sociologo, un filosofo della politica, un artista … per dire i primi che mi vengono in mente. Non c’è alcuna critica e problematizzazione dell’umano, dei suoi modi di esistenza e di produzione quando si fanno affermazioni facili di umanocentrismo. Eppure, dovremmo essere abituati alle ferite e alle cicatrici narcisistiche che la storia del pensiero ha inciso sulla nostra carne. Dunque, nulla ci hanno insegnato i maestri del sospetto: da Marx a Nietzsche, da Freud a Copernico, da Darwin a Foucault fino ad arrivare a Turing?
L’automazione, per venire alla tua domanda, è un fenomeno più complesso e multidimensionale di quanto non si possa pensare e di quanto solitamente si riesca a ricostruire. Quella contemporanea e futura ha almeno tre dimensioni tra loro incrociate: automazione meccanica, automazione cognitiva, automazione protocologica. Riguarda le macchine e i robot che crescono in autonomia decisionale e d’azione, ma concerne anche l’apprendimento automatico e profondo delle reti neurali artificiali, infine sostanzia anche i protocolli di comunicazione e transazione come quelli istanziati dalla blockchain. Certamente possiamo ragionare intorno a dei ‘limiti’, ma a partire da una preventiva domanda e riflessione critica, come dicevo, sul genere di umano che vorremmo salvaguardare.
Sciolto questo nodo, poi dovremo ragionare più complessivamente sul tema del trust nella tecnologia che sta diventando anch’esso urgente. Dalla costruzione di una “trustworthy AI” anche robotica all’implementazione del “trustless protol” della blockchain, dalla pratica della “zero trust security” in cybersicurezza al monito del “trust-no-one” per media sintetici, deep fake e infowar, la civiltà digitale è chiamata con urgenza a immaginare filosoficamente e a costruire ingegneristicamente nuovi contratti, sistemi e network sociotecnici fiduciari, affidabili e sostenibili. La fiducia computazionale, infatti, sarà uno dei pilastri rilevanti della nuova terraformazione digitale del nostro presente/futuro e del nostro pianeta. Potremmo anche azzardare che, per la società, sarà il tema chiave. Al di là delle specifiche questioni (esplicabilità dell’intelligenza artificiale, immutabilità della blockchain, vulnerabilità nella sicurezza informatica, virtualità degli umani digitali e delle esperienze estese dentro i metaversi, novità paradossali dei simulatori quantistici) c’è la questione primaria e fondativa della fiducia nella computazione (trusted computing). Fiducia, cioè, che i sistemi (programmi, algoritmi, protocolli, dispositivi) si comportino in accordo con le nostre aspettative e per come dovrebbero comportarsi in una relazione fiduciaria tra parti, vale a dire con correttezza ed equità, in sicurezza e genuinità, tempestivamente, efficacemente e così via.
“Qual è l’archetipo ideale di umano a cui pensiamo quando diciamo che deve essere riportato al centro?”
Cosimo Accoto
- Se dal “mondo dato” si ricavava l’immagine di un mondo “fisico” sempre più digitalizzato, conoscibile e prevedibile, dal “Mondo in sintesi” sembra emergere la constatazione che a essere conosciuto e prevedibile rischia di essere solo la copia “simulata” del mondo: qual è il punto di incontro tra filosofia del “mondo” e filosofia “della simulazione”, secondo te?
Nel caso di specie, stiamo parlando di simulazioni computazionali. E queste hanno una paradossale dimensione. Per un verso tendono ad approssimare il reale in una maniera epistemologicamente più sofisticata. Qualcuno anzi dice che ci consentono di conoscere il mondo e i suoi fenomeni addirittura meglio dell’esperimento. Una sorta di rivoluzione nel pensiero scientifico (metodo simulazionale) d’impatto pari, se non superiore, alla rivoluzione che suscitò ai suoi tempi il metodo sperimentale. Pensa anche solo, in passato, alle simulazioni delle dinamiche metereologiche o ai nostri giorni, con la potenza dell’AI, alle simulazioni delle forme tridimensionali delle proteine. Questo loro avvicinarsi al mondo non è però solo emulativo, ma proprio rigenerativo. Dall’altra parte, infatti, le simulazioni tendono anche a ricreare artificialmente il mondo come fa, ad esempio, la biologia digitale e sintetica. Il caso degli xenobot, i robot biotech viventi, è emblematico. Non si osserva semplicemente un organismo per capire come funziona, ma lo si modella (simula) computazionalmente per poi assemblarlo con materiale biologico. Non si fa solo reverse engineering, ma forward engineering. Così, per dirla con una battuta, il modello del mondo diviene il mondo del modello.
Nuove, strane nature, ha titolato qualcuno, sono così chiamate all’esistenza come nel caso del design biosintetico. Così se l’intelligenza artificiale ha inteso simulare la mente, quella sintetica (da quella biologica delle vite artificiali a quella volumetrica dei metaversi virtuali) intende simulare computazionalmente il mondo. Non si tratta, tuttavia, di semplici copie come l’uso del sostantivo simulazione lascerebbe pensare, ma per l’appunto di nuove nature. Dove il sostantivo “natura” è quello più spaesante e problematico per il nostro senso comune e non solo. Così come per l’umano, le tecnologie ci sollecitano, dunque, ad un ripensamento di categorie e modelli mentali e operativi, da quello di natura a quello di mondo. Forse allora l’uomo (o, meglio, l’umano) che nascerà dall’impiego dei nostri gemelli digitali sarà nuovo tanto quanto lo fu l’uomo nato dall’impiego delle dissezioni cadaveriche di Leonardo da Vinci. Mutatis mutandis, anche in quel caso ci fu un approssimarsi ai corpi che venivano incisi per capire meglio il loro funzionamento (e anche quella era una pratica all’epoca considerata illegittima, sozza, immorale, a rischio di eresia e perciò fatta di notte e in solitaria).
Sensori, dati, algoritmi e simulazioni sono, oggi, le nostre nuove approssimazioni ai corpi. E anche oggi con pratiche anch’esse al limite del lecito (se non proprio illecite in molti casi) tra estrazione, fraudolenza, sorveglianza, coercizione e violenza. Abbiamo saputo col tempo regolamentare poi la pratica della dissezione anatomica divenuta risorsa e non solo rischio. ‘Remedio’ e non solo ‘ruina’, per dirla con Machiavelli. Programmazione, automazione e simulazione sono, in ultima istanza, (economia) politica. La vera domanda è: se e come sapremo negoziare e regolamentare la pratica della simulazione computazionale volendo farne una risorsa per tutte e tutti e non solo un rischio?
“Così come per l’umano, le tecnologie ci sollecitano, dunque, ad un ripensamento di categorie e modelli mentali e operativi, da quello di natura a quello di mondo”
Cosimo Accoto