Sintesi e commento del libro di Luca De Biase, “Eppur s’innova. Viaggio alla ricerca del modello italiano” (Luiss University Press, 2022), lucida indagine sulle caratteristiche dell’ecosistema innovativo del nostro Paese.
Un Paese che investe poco e non favorisce il collegamento tra la ricerca scientifica e lo sviluppo sociale ed economico, che presenta enormi divari regionali in termini di ricchezza pubblica e privata, poco attraente nei confronti dei lavoratori esteri a causa dei bassi salari, poco incline ad ammettere e tollerare il fallimento imprenditoriale, e che arriva puntualmente agli ultimi posti nelle classifiche internazionali sugli investimenti di capitale di rischio o sul livello di competenze digitali della sua popolazione: “Eppur s’innova“, malgrado le premesse, anche in Italia, come recita il titolo dell’ultimo libro di Luca De Biase pubblicato da Luiss University Press. Un “viaggio“, come ricordato fin dal sottotitolo, alla ricerca del modello di innovazione italiano attraverso il racconto in forma di reportage dei territori, delle imprese e dei protagonisti degli ultimi trent’anni di storia economica del nostro Paese.
Le caratteristiche salienti dell’ecosistema dell’innovazione italiano viste attraverso la storia delle imprese e startup più conosciute
Secondo De Biase, è possibile ricostruire per sommi capi le caratteristiche fondamentali e ricorrenti del modello di innovazione italiano analizzando e mettendo a confronto tra loro storie di successo come quelle di ComoNext, D-Orbit, Depop, Genenta, Roboze, Yoox, Lago, Expert.ai, Zambon, Entopan, Nanabianca, Dallara, Translated, The Net Value, MusixMatch, Lead The Future, solo per citare alcune delle aziende e delle organizzazioni intervistate dall’autore nel corso del suo “viaggio” attraverso il Paese.
Dalla storia di queste imprese emerge un modello di innovazione caratterizzato – in estrema sintesi – dal ruolo predominante delle comunità e degli ecosistemi locali rispetto a quelli internazionali e indifferenziati, dalla predilezione per le nicchie di mercato e per le produzioni artigiane in luogo dell’espansione globale e dei prodotti standardizzati, dal primato della sostenibilità e dell’economia circolare sul cambiamento alta intensità di risorse energetiche, dalla precedenza accordata all’innovazione ottenuta mediante la ricombinazione di conoscenze e processi esistenti rispetto alla rottura radicale con il passato. Un modello fragile, pieno di contraddizioni, non sostenuto adeguatamente dalla politica né dai pochi investitori in capitali di rischio, eppur sempre più diffuso, adottato, in continua evoluzione attraverso gli anni.
La (auspicata) fine del “pensiero unico” di matrice anglosassone fondato sui criteri e i tempi scanditi dalla finanza a breve termine
Uno dei tanti meriti del libro di De Biase è quello di riconoscere, finalmente, la fine del tempo in cui innovazione faceva rima solo e soltanto con tecnologia digitale, e l’unico modello di cambiamento degno di essere imitato e importato in ogni dove era quello concepito nella Silicon Valley di matrice statunitense. “Una sorta di convergenza verso un “pensiero unico” favorevole alle soluzioni elaborate nel mondo anglosassone si è diffuso nei trent’anni precedenti la grande recessione del 2007-2008 – riconosce l’autore fin dai primi capitoli del libro – con risultati di crescita importanti ma anche con conseguenze significative in termini di aumento delle disuguaglianze, perdita della percezione del valore dell’iniziativa pubblica, focalizzazione sul breve termine, cioè sulla dimensione temporale privilegiata dalla finanza“. Persa in partenza la gara con i “colossi” della Silicon Valley, persa la gara degli investimenti con i Paesi europei paragonabili per dimensione al nostro, l’ecosistema italiano sembra infine essersi avviato verso il riconoscimento dell’importanza di sviluppare un proprio percorso di innovazione, autonomo e originale, per poter acquisire valore agli occhi del mondo e attrarre un numero maggiore di talenti professionali.
I primati italiani e la predilezione per le nicchie di mercato e la sostenibilità in luogo dell’espansione globale ad alto consumo di risorse
“Un’ecologia dell’innovazione – afferma l’autore di “Eppur s’innova” – prevede che le nicchie eco-culturali siano molte e che i fenomeni evolutivi si arricchiscano di ogni possibile esplorazione del possibile, consentendo mutazioni anche impreviste, per poi condurre l’insieme a un miglior percorso di adeguamento al contesto“. Pur classificandosi agli ultimi posti di tante classifiche globali sugli investimenti in ricerca, la registrazione di brevetti o i volumi di investimenti del venture capital, l’Italia mantiene tuttora importanti primati in settori quali la bioeconomia, le energie rinnovabili, le tecnologie per lo spazio, le macchine utensili, l’economia circolare, il design, l’arte e la cultura, come sottolineato di recente dalla pubblicazione “L’Italia in 10 selfie” di Symbola. Non vi è dubbio, secondo De Biase, che in questi settori solo apparentemente “di nicchia” siano destinate a nascere nuove imprese di successo da qui ai prossimi anni, favorite da una cultura dell’open innovation sempre più diffusa a tutti i livelli delle filiere in cui operano le aziende italiane più innovative o più inclini, per cultura e ambizione, a innovare.
“Quella italiana è una naturale predisposizione all’open innovation
che funziona tanto meglio negli ecosistemi ricchi di relazione e varietà di competenze”
Luca De Biase
La centralità dell’open innovation e del binomio “connessione e sviluppo” nel modello di innovazione italiano
“Non potendo attingere a un pozzo di investimenti di ricerca infinto, gli italiani possono tentare di innovare seguendo con curiosità le ricerche prodotte da altri, acquisendo tecnologie invece di produrle, stringendo alleanze e relazioni con fonti esterne di sapere. E’ una naturale predisposizione all’open innovation – scrive De Biase in una delle pagine più ispirate del libro – che funziona tanto meglio quanto più esistono ecosistemi ricchi di relazione e varietà di competenze. I distretti industriali del passato, con alti tassi di specializzazione e numerose imprese dotate di competenze simili, tendono a essere superati dagli ecosistemi odierni, nei quali si incontrano facilmente competenze diverse e complementari che sviluppano format di collaborazione, scambiando servizi e conoscenze capaci di attivare l’innovazione“.
Rispetto al più diffuso e tradizionale modello basato sulla “ricerca e sviluppo”, quindi, il modello italiano si distinguerebbe dagli altri modelli di innovazione per la sua – al tempo stesso inevitabile e naturale – predisposizione al binomio “connessione e sviluppo”: anziché trarre la sua forza dalla continua distruzione e sostituzione delle aziende vecchie con quelle nuove tipica degli ecosistemi “anglossassoni”, dove abbondano le risorse finanziarie, gli investimenti in ricerca e la “materia prima” imprenditoriale, l’ecosistema italiano visto da De Biase tenderebbe a privilegiare la collaborazione e integrazione tra realtà consolidate e nuove imprese e startup in fase di crescita, in un contesto dove l’importanza delle relazioni e dell’appartenenza a specifiche comunità (di matrice storica, ancor prima che geografica) non è mai venuto meno e probabilmente non si estinguerà mai del tutto.
L’esempio di ComoNext quale meta-organizzatore di una comunità locale di imprese accumunate dalla voglia di innovare
Il paradigma dell’open innovation, in conclusione, sembra rappresentare il punto di arrivo e di partenza di ogni innovazione propriamente “italiana”, grazie alla possibilità di mettere insieme le risorse e le idee in un contesto finanziario asfittico come quello che caratterizza il nostro Paese. Tra le tante storie di aziende raccolte dall’autore che hanno collaborato con successo con realtà più piccole e innovative, e di organizzazioni che hanno favorito questa collaborazione, spicca ai miei occhi quella di ComoNext e del suo amministratore delegato Stefano Soliano, che non si è mai rassegnato alle inevitabili difficoltà generate dal voler mettere attorno allo stesso tavolo realtà imprenditoriali tanto diverse per dimensioni, processi, capitale umano. Soliano, infatti, ha creato un “vero e proprio format per la crescita di comunità di imprese orientate all’innovazione” che a partire da Lomazzo – in provincia di Como – ha connesso tra loro più di 150 aziende disposte a pagare per partecipare alle opportunità che possono essere sviluppate solo congiuntamente, e che sta per essere replicato anche in altre regioni del Paese.
“In un contesto come quello italiano dove il retaggio dei campanili è tanto importante, le cabine di regia tendono spesso a fallire – spiega Soliano, intervistato da De Biase – Il nostro è un Paese splendido dal punto di vista della capacità dei singoli e crolla quando queste vanno messe a fattore comune. Nessuno rinuncia al proprio vantaggio in nome dell’idea di fare qualcosa di vantaggioso per gli altri. Nessuno riesce a vedere quanti passi avanti si fanno insieme se ciascuno fa un passo indietro al fine di alimentare la collaborazione. Una cabina di regia può funzionare solo se, a sua volta, fa un passo indietro. Quest’idea di un luogo utile a tutti decolla solo se tutti si sentono importanti, valorizzando la forza di ciascuno. Noi non abbiamo iniziato a lavorare sull’innovazione, sulle tecnologie, sulla vendita di consulenza, ma abbiamo lavorato essenzialmente sulla psicologia di un sistema, sui punti forti e deboli di tutti gli stakeholder, puntando a far capire a tutti quanto erano bravi nei loro punti di forza […] Il punto di partenza è proprio questo: decidere tutti insieme che ci si fida gli uni degli altri”. Collaborazione, fiducia, condivisione: tre parole che da qui ai prossimi decenni potrebbero fungere da incipit di una nuova fase della storia della penisola, o risolversi nell’ennesimo elenco di opportunità non sfruttate.