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A quando una via italiana all’innovazione?

Vanta già oltre 500 “mi piace” eppure è nata solo l’altro ieri la pagina “KeFuturo?”, parodia in stile “Lercio” della ben più nota rivista online “CheFuturo!” fondata da Riccardo Luna con il sostegno di CheBanca!.

KeFuturo?”, ultima arrivata di una serie di pagine a sfondo satirico (“La Startup di Merda”, e prima ancora “CheFurto!”) ha iniziato le pubblicazioni negli stessi giorni delle celebrazioni per l’Internet Day italiano facendosi beffe di un modello universalmente riconosciuto come il “siliconese”. Vale a dire quell’insieme di espressioni in gergo, toni trionfalistici e codici che dalla Silicon Valley sono stati universalmente replicati in quasi tutti gli ecosistemi innovativi hi-tech, come una sorta di segno di riconoscimento universale tra imprenditori e investitori accomunati dalla passione per l’innovazione.

 

Il tempismo e il modo in cui la pagina “KeFuturo?” è stata accolta sembra tradire una sorta di sollievo liberatorio prima di tutto da parte di quegli stessi imprenditori, founder e innovatori italiani che da diversi anni si dibattono e sopravvivono in un ecosistema innovativo nazionale ancora ampiamente sottocapitalizzato rispetto agli omologhi europei. Questo, fino a quando non trovano una via di fuga verso l’estero, dove il modello del “siliconese” ha trovato un terreno più fertile per crescere.

Il Paese dove le startup non falliscono

Come sottolineato da Marco Biccocchi Pichi in un articolo per EconomyUp le startup italiane non falliscono nemmeno più: semplicemente, non hanno le risorse neppure per fallire.

In Italia, infatti, il ruolo di business angel e investitori non istituzionali per il sostegno agli imprenditori innovativi è di gran lunga ancora maggioritario rispetto a quello dei Venture Capital (dati Osservatorio hi-tech 2015 e Aifi 2015), per non dire delle aziende maggiori e dei gruppi industriali, ancora ben lontane dal diventare una prospettiva di exit concreta e percorribile da parte della maggior parte delle startup nostrane.

Lo stato dell’arte evidenzia un ecosistema lontano anni luce da quello degli altri Paesi europei, per non dire della Silicon Valley stessa, seppur calato in un mercato di sessanta milioni di persone (con una componente di immigrati dall’Africa e dall’Asia in costante crescita, non dimentichiamolo) e a conti fatti ancora tra le prime dieci economie al mondo. Lo scrivevo un paio di anni fa, e le condizioni sono rimaste più o meno le stesse.

È possibile anche solo immaginare un modello alternativo alla Silicon Valley?

Ma è possibile, al giorno d’oggi, ipotizzare un modello di innovazione alternativo a quello della Silicon Valley? Citando Evgeny Morozovil fatto che la Silicon Valley si definisca il più grande portatore di uguaglianza al mondo la rende un settore industriale impermeabile alla critica sociale” (Silicon Valley: i signori del silicio, Codice Edizioni). Al di fuori di iniziative satiriche un tanto al chilo, sembra che al giorno d’oggi non resti altra alternativa che mettersi contro, o a favore, della Silicon Valley e di un modello di innovazione “disruptive che in un Paese come il nostro potrebbe aver bisogno ancora di una o due generazioni per svilupparsi completamente. A quale prezzo, non lo sappiamo.

L’Italia, e con essa i suoi imprenditori più evoluti, non può ragionevolmente pensare di competere né su scala globale né su quella nazionale con Paesi dotati di risorse economiche, culturali e tecnologiche di gran lunga superiori e perfezionate nel corso di anni.

Come la Silicon Valley è diventata un modello per il resto del mondo progredito, l’Italia nella sua condizione di Paese da sempre semi-industrializzato, semi-alfabetizzato, semi-europeo, storicamente punto d’approdo e di partenza verso l’Africa e l’Asia, potrebbe aspirare quantomeno a essere un modello di innovazione e sviluppo per quei Paesi e continenti dove il tessuto sociale e produttivo deve confrontarsi con difficoltà simili alle nostre. E dove le nostre startup “innovative” possono diventare un modello non solo industriale, ma anche culturale e politico, esattamente come i più riusciti ex-unicorni statunitensi.

Se esiste un movimento startup italiano, come esist(eva)no i sindacati di metalmeccanici e le confindustrie, esso potrebbe smetterla una volta tanto di disperarsi di fronte all’abisso che lo separa dall’America, e iniziare a ragionare su quali potrebbero essere le modalità e i processi con cui portare l’innovazione verso quei Paesi a noi più vicini e similari, utilizzando il nostro come un primo terreno di prova.

Un’innovazione, quella italiana, che dovrebbe partire dall’analisi di condizioni sociali, economiche e politiche oggettivamente deficitarie, da cui progettare software, applicazioni, modelli e piattaforme in grado di contribuire all’evoluzione collettiva di Paesi e continenti ancora prevalentemente disconessi e analfabetizzati. Proprio come eravamo noi, fino a pochi anni fa.

Dal fintech all’healthcare, dal cleantech al foodtech, il nostro Paese potrebbe essere rapidamente messo nelle condizioni di sfornare imprenditori – dotati di una mentalità umanistica ancor prima che commerciale, inclusiva anziché esclusiva – da inviare alla conquista di quella parte del mondo in cui il modello Silicon Valley non ha ancora un “futuro” assicurato.

Non è da visionari pensare che un giorno sulle coste dell’Africa o nelle strade di una Siria di nuovo pacificata si possa sentire qualche giovane imprenditore esprimersi in “italiese“?

Jacopo Franchi

 

 

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