Secondo il rapporto Auditel-Censis sono ancora centinaia di migliaia i giovani under 35 e le famiglie di livello economico medio-alto che non dispongono di una connessione Internet né di dispositivi adeguati, e non sembrano intenzionati a tornare sui propri passi per adattarsi alla “nuova normalità”.
Due milioni e trecentomila famiglie senza alcun tipo di collegamento a Internet, quattro milioni e novecentomila connesse solo tramite smartphone, quattordici milioni e duecentomila connesse sia tramite rete fissa sia tramite rete mobile: questi i numeri salienti che emergono dal quarto rapporto Auditel-Censis presentato pochi giorni fa e descritto come “una nuda fotografia di quanto sta accadendo nella società e nelle case delle famiglie italiane e di come questo si rifletta su dotazioni di device, connessioni e consumi mediatici“.
Come ogni anno, tuttavia, il rapporto fa discutere più per la parte riguardante la perdurante “disconnessione” di una parte della popolazione che per la crescita di uno o due punti percentuali della maggioranza che ha superato le ultime resistenze: sono milioni gli italiani tagliati fuori dalla cosiddetta “esperienza digitale di massa innescata dalla pandemia“, ed è importante fin da subito sottolineare che non si tratta solo di anziani o persone in estreme condizioni di povertà. Anche i giovani, anche i “ricchi”, anche le famiglie di studenti e di lavoratori possono essere tagliate fuori da servizi e attività online considerate ormai la nuova “norma” sociale.
Sono centinaia di migliaia le famiglie di giovani che non si connettono né da pc, né da tablet
Se si vuole davvero provare a capire il fenomeno senza liquidarlo come un retaggio del passato, che verrà prima o poi riassorbito nella modernità avanzante, è necessario evidenziarne tutte le incongruenze con la narrativa di successo delle nuove tecnologie. Secondo il rapporto Auditel-Censis, infatti, tra coloro che non dispongono né di un pc né di un tablet per connettersi a Internet, lavorare, studiare, informarsi, accedere da casa a servizi sanitari, finanziari, amministrativi (a meno di non pensare che si possano fare tutte queste cose su uno smartphone) vi sarebbero ben 473 mila famiglie composte da soli giovani under 35.
Il 32,5% delle giovani coppie, in sostanza, sarebbe tagliato fuori da gran parte delle esperienze digitali, mentre sarebbero 3,1 milioni i nuclei famigliari con almeno un occupato in famiglia e 1,2 milioni le famiglie con almeno un bambino o uno studente a trovarsi nella stessa condizione di esclusione: abbastanza, forse, per domandarsi se la grande spinta pubblica e privata alla trasformazione digitale di ogni servizio di massa possa oggi realisticamente non tenere conto di questa enorme popolazione di irriducibili “disconnessi”.
Né le differenze di ricchezza né di presenza di banda larga spiegano un divario così ampio
Se l’età avanzata è uno dei motivi del perdurare di una significativa percentuale di popolazione priva di connessione e di strumenti digitali adeguati, ma come appena visto non è l’unico motivo, neppure l’aspetto economico è sufficiente a spiegare un fenomeno che dura da troppi anni per potersi esaurire a breve. Se neppure la pandemia è riuscita a spingere milioni di individui a dotarsi di una connessione e di strumenti adeguati per lavorare, studiare o mantenere un minimo di socialità durante i lockdown, neppure il benessere economico sembra essere in grado di spiegare ogni scelta individuale: se è vero che sette famiglia su dieci che non hanno un pc o un tablet si collocano nella fascia bassa del “livello socioeconomico”, una famiglia su tre della fascia media e ben una su dieci della fascia alta e medio-alta si ritrova nelle stesse condizioni.
Non basta, quindi, essere giovani o avere soldi sufficienti per entrare a far parte della maggioranza di individui connessi: peccato, peccato davvero che il rapporto non indaghi a sufficienza le motivazioni di un fatto così evidente, limitandosi a un riferimento all’assenza di banda larga (che colpirebbe però solo tre famiglie su dieci) e a un invito generico ad “azioni di sensibilizzazione e di diffusione della cultura e abilità digitali che impediscano al digitale di diventare motore di ulteriore distanziamento sociale”.
Ancora oggi la digitalizzazione di ogni persona (e di ogni cosa) viene descritta come un evento irreversibile
Fanno sorridere, pertanto, tutte quelle riflessioni pubblicate sui giornali e in certi libri che individuano nell’utilizzo sregolato delle piattaforme digitali la causa di innumerevoli problemi della società in generale. Mai, in questi libri e articoli, viene sollevato il grande interrogativo posto da coloro che sulle piattaforme digitali non sono presenti, non sono attivi, non sono raggiungibili: tanti, troppi, per essere ignorati ancora a lungo o essere descritti come un fenomeno marginale o passeggero. L’assenza di una consapevolezza diffusa circa le reali cause e i motivi che portano un nucleo famigliare su tre di giovani a non dotarsi né di un computer né di un tablet per connettersi a Internet, e una famiglia su dieci nella fascia più benestante della popolazione a fare altrettanto, non promette bene per il futuro: la digitalizzazione di ogni cosa, oggetto o uomo che sia, viene ancora oggi descritta come un fenomeno inevitabile e irreversibile (secondo gli autori del rapporto Censis-Auditel si tratterebbe addirittura di un “ingresso in una normalità digitale da cui non si tornerà indietro“).
Non viene neppure per un istante presa in considerazione la possibilità di trovarsi di fronte a un gesto consapevole. Non ci si interroga a fondo sui motivi che portano delle persone dotate di libero arbitrio di scegliere, volontariamente, di limitare del tutto o in parte la propria possibilità di accesso alla nuova “normalità”. Più che il rischio di un “distanziamento sociale”, la mancata connessione amplifica il rischio di incomprensione reciproca tra due parti della società che ignorano l’una le esperienze dell’altra.
Quelli che fanno resistenza, per i quali la Rete potrebbe offrire più svantaggi che vantaggi
Se poco tempo fa mi ero interrogato sul fatto che il “diritto” alla connessione avrebbe potuto prima o poi trasformarsi in un “dovere” a essere connessi sempre e comunque (per non perdere il posto di lavoro, per non perdere l’accesso al conto in banca, eccetera), ora non posso non domandarmi se non esista – in sottotraccia, non avvertito né dai media né dalla maggioranza dei ricercatori – un vero e proprio movimento in fase di coagulazione di persone che rifiutano del tutto o in parte le offerte di servizi, esperienze e oggetti connessi. Se alla periferia di questo movimento ancora informe si collocano coloro che praticano forme di “disconnessione” temporanea per ragioni di benessere fisico o mentale, al centro della massa potrebbero trovarsi persone che stanno maturando o hanno maturato un profondo e duraturo sentimento di ribellione a quello che oggi rappresenta per loro la Rete: un’esperienza carente, incompleta, insufficiente, inadeguata quando non apertamente tossica (si pensi, banalmente, a chi è stato vittima di forme estreme di odio o revenge porn online, a chi appartiene a minoranze fortemente a rischio di discriminazione, a chi è stato truffato da un servizio online, a chi ha rischiato la propria incolumità a causa di oggetti connessi).
Se questa ipotesi dovesse trovare conferma, nei prossimi anni, saremmo di fronte a qualcosa che non è mai stato neppure lontanamente preso in considerazione da coloro che stanno riprogettando tutta l’esistenza umana a partire dalla connessione di ogni cosa o individuo esistente: l’esistenza di milioni di persone che non solo non sono connesse, ma che potrebbero apertamente boicottare i servizi digitali.
Studiare coloro che rifiutano di connettersi per progettare tecnologie migliori per tutti
Questa ipotesi potrebbe, alla prova dei fatti, non reggere il confronto con la realtà. È preoccupante, tuttavia, la scarsità quando non l’assenza di studi che trattino il problema di coloro che non “connessi” alla luce di una scelta consapevole e meditata, in seguito a esperienze traumatiche o a una concezione delle nuove tecnologie non poi così ottimistica come vorrebbero i produttori e gli utilizzatori abituali di tecnologie stesse. Sembra quasi che di fronte a un fenomeno di proporzioni così vaste e, come abbiamo visto, non limitato solo a chi materialmente non ha i mezzi per tenere il passo con il cambiamento in corso, ci si dimentichi d’un tratto di tutte le innumerevoli grandi e piccole criticità cui i servizi digitali di massa sono stati protagonisti negli ultimi anni.
Così come oggi non ci si stupisce più di tanto del fatto che siano milioni e milioni le persone che non hanno alcun tipo di profilo social, un domani potrebbe essere sempre più chiaro il fatto che ci sono milioni e milioni di persone che preferiscono guidare auto non connesse, studiare senza la mediazione di uno schermo, lavorare in ufficio a diretto contatto con clienti e colleghi, e una volta giunti a casa rinunciare volontariamente a quei dispositivi che altrove sono obbligati a utilizzare contro la propria volontà. Interrogarsi sulle motivazioni di queste scelte potrebbe condurre a progettare servizi digitali migliori, alternativi o semplicemente meno invasivi di quelli attuali: non tanto per fare opera di proselitismo verso i disconnessi, quanto per non perdere quelli che hanno scelto di far parte della nuova normalità ma che potrebbero in ogni momento tornare indietro. A ragion veduta.