Se la disconnessione dalla Rete diventa un diritto previsto dalle leggi e dalla normativa sul lavoro, la connessione può essere ancora considerata una libera scelta?
“The more we connect, the better it gets” recitava uno degli slogan dell’ambizioso progetto internet.org di Facebook, che nel momento in cui scrivo avrebbe contribuito a connettere gratuitamente oltre 100 milioni di persone alla Rete secondo TechCrunch. Si può discutere sulla legittimità dei mezzi e sulla trasparenza dei fini di progetti di questo tipo, come ha fatto il governo indiano che nel 2016 ha vietato internet.org nel Paese per tutelare la competitività delle proprie imprese digitali, ma su una cosa tutti sembrano essere d’accordo: l’accesso alla Rete può avvenire in tempi e modalità diverse per ciascun individuo, ma non può più essere rimandato in eterno.
Diritti momentanei e doveri atemporali
Prima ancora di essere un diritto riconosciuto universalmente dagli Stati e dalle organizzazioni internazionali, la connessione alla Rete è già diventata un dovere per la maggior parte delle persone. Per essere considerato alla pari degli altri e sentirsi parte di una civiltà, una comunità, un gruppo di persone o di un’impresa, l’uomo di oggi deve accettare di essere connesso a un network digitale: sia esso Internet, la blockchain, Facebook, o un gruppo di lavoro su Slack. Al punto che i periodi, temporanei, di “disconnessione” iniziano oggi a essere regolamentati in sede normativa e di contrattazione per le varie categorie di lavoratori (come avverrà per gli insegnanti italiani, secondo l’ultima versione del Contratto di istruzione e ricerca).
Essere disconnessi, oggi, è tutt’al più uno stato momentaneo, un momento di riposo e riflessione, funzionale a recuperare le energie necessarie per riprendere il proprio posto all’interno del network con più dinamismo, idee e contenuti di prima. Che le persone vogliano, per principio, essere connesse a qualcuno o qualcosa è un automatismo che nessuno oggi si sogna di mettere in discussione.
Le premesse storiche della connessione
In quale momento della nostra vita, esattamente, abbiamo sposato l’idea che essere connessi gli uni agli altri avrebbe portato a un miglioramento della nostra condizione sociale, economica, lavorativa? Non lo ricordiamo, perché questo momento è avvenuto molto prima che noi nascessimo. Secondo Grant Bollmer, assistant professor di media studies alla North Carolina University e autore del libro “Inhuman networks. Social media and the archaeology of connection” (Bloomsbury Academic 2016), tutti i discorsi contemporanei sugli effetti positivi della “connessione” e dell’accesso al “flusso” globale di informazioni sono un libero adattamento metaforico, in chiave tecnologica, delle scoperte scientifiche della prima età moderna.
Recuperando alcuni frammenti di un dibattito per lo più dimenticato, che animò il mondo scientifico tra il Seicento e l’Ottocento in seguito alla scoperta della circolazione del sangue da parte del medico inglese William Harvey, Bollmer cerca di ricostruire il momento esatto in cui si diffuse l’idea comune che la salute del corpo umano prima, e della società nel suo insieme poi, fossero entrambi conseguenza del perpetuo fluire di “qualcosa” attraverso un network preesistente. Così come il fluire del sangue attraverso il sistema arterioso e venoso venne comunemente, da un certo momento in avanti, associato alla buona salute del corpo umano, secondo Bollmer si diffuse ugualmente l’idea che il libero fluire di informazioni (attraverso il network rappresentato dal telegrafo prima, dai telefoni e Internet poi) fosse un metro di misurazione del grado di sviluppo di ogni società moderna, e la premessa necessaria a ogni futura crescita economica. I social network, in quest’ottica, non sarebbero altro che l’ultimo e più avanzato modello di “network” connesso, in cui al semplice fluire di informazioni si è aggiunto oggi il “fluire” delle persone sotto forma di dati virtuali.
Dalla biologia alla tecnologia:
dal fluire del sangue a quello delle informazioni
L’uso del termine “flusso”, in associazione a quello di “network”, sarebbe quindi secondo Bollmer una pratica derivata dalla biologia e riutilizzata solo in seguito, e in maniera assolutamente arbitraria, in ambito tecnologico per giustificare la nascita e la diffusione globale di network sempre più pervasivi. In un certo momento della modernità, il grado di “connessione” (attraverso il network) e di regolarità del “flusso” hanno smesso di essere semplici attributi del livello di salute del corpo per diventare i parametri attraverso cui la nostra società e la nostra economia vengono tuttora misurati. Da qui l’origine dell’idea secondo cui l’uguaglianza tra gli uomini derivi innanzitutto dall’uguaglianza nell’accesso alla Rete e al suo flusso ininterrotto di informazioni: come parti di un corpo sociale più grande, il nostro destino in quanto esseri umani è quello di “connetterci” e fluire senza fine nel “network” digitale che è stato costruito per noi.
«La maggior parte delle discussioni sul potere dei social media e dei Big Data – scrive Bollmer – hanno in comune la convinzione che che il primo passo per eliminare la diseguaglianza sociale, economica e culturale sia quello di connettere le persone con la tecnologia». Chi non è connesso al network, chi non vuole connettersi, chi è connesso ma rifiuta di partecipare al movimento del flusso, si troverebbe dunque nelle condizioni di essere automaticamente escluso dal resto della società. “Nel momento in cui pensiamo che la tecnologia ci connetta superando i limiti naturali della comunicazione umana – prosegue lo studioso – allora la tecnologia diventa la norma a cui adeguarsi, mentre l’umanità esiste per essere corretta, se non eliminata, come qualcosa che non può garantire il funzionamento ottimale del social», o di qualunque altro network preso in esame.
L’uomo come problema da correggere
In quest’ottica, essere “disconnessi” dal network non sarebbe solo un momentaneo gap tecnologico, ma una mancata integrazione dell’individuo, o di un gruppo di individui, alla comunità nel suo insieme: «se si accetta il network come un fatto naturale, dato per scontato, come l’unica struttura della realtà, quelli che non vogliono o non possono connettersi e fluire liberamente diventano aberrazioni della natura». “Inumani”, per l’appunto. La circolazione del flusso è un segno del buon funzionamento del network, mentre ogni ostacolo è un segnale che resta ancora qualcosa da correggere. Un “problema” da rimuovere.
Nel momento in cui l’uomo viene considerato come una parte intercambiabile – un “nodo” direbbero i tecnici – del network globale su cui si appoggia l’umanità, si apre la strada all’idea che per assicurare il corretto fluire del flusso di informazioni sia necessario, talvolta, eliminare coloro che fungono da ostacolo. Escludendoli per principio, o integrandoli a forza nel network per metterli nelle condizioni di contribuire a loro volta al continuo scambio di informazioni. Essere perpetuamente connessi, in quest’ottica, diventa un dovere irrinunciabile da parte di chiunque voglia entrare a far parte di un qualsiasi gruppo sociale, prima ancora che un diritto di cui scegliere se avvalersi o meno. “The more we connect, the better it gets”, a condizione di mettersi d’accordo su chi sia quello che ne riceverà i maggiori vantaggi.