L’impiegato è mobile

In un contesto di generale ripensamento dei luoghi di lavoro e della figura stessa degli impiegati, l’hot desking si sta affermando come la nuova ideologia di riferimento dell’organizzazione aziendale seppur in mancanza di dati ed esperienze sufficienti a valutarne le conseguenze sul benessere dei dipendenti, l’organizzazione del lavoro e dei lavoratori stessi.

Dalla fine del “posto fisso” in quanto tale alla fine del “posto fisso” in quanto luogo di lavoro: è il cambiamento più volte promesso e ora sul punto di realizzarsi legato alla diffusione dell’hot desking nelle aziende di tutto il mondo. L’espressione, che secondo un articolo di Quartz deriva dall’abitudine dei soldati imbarcati sulle navi e i sottomarini di dormire nel letto lasciato in “caldo” da qualcun altro per risparmiare spazio a bordo (“hot bedding”), sta diventando realtà per migliaia di lavoratori dal momento in cui le aziende hanno iniziato, imitandosi a vicenda, a ragionare su come risparmiare spazi, scrivanie e costi di manutenzione degli uffici in seguito allo sdoganamento generale dello smart working innescato dalla pandemia. L’impiegato è “mobile“, e come la donna del Rigoletto di Giuseppe Verdi è tuttora “muto” quando si tratta di sapere quali siano i suoi reali pensieri in merito a questo radicale cambiamento in atto.

Un’inedita esperienza di nomadismo aziendale, con conseguenze mai indagate prima sul benessere delle persone e la qualità stessa del lavoro

Non erano questi gli accordi, infatti: la quasi totalità dei dipendenti attuali hanno accettato di diventare tali con un contratto che prevedeva una serie di benefit materiali e immateriali in cambio della cessione di una parte del proprio tempo al datore di lavoro. Tra questi “benefit” è sempre stato implicito, se non apertamente dichiarato, la disponibilità di una scrivania personale, di un telefono e di un computer fisso o comunque già presente in loco, di una sedia e di un mobiletto per custodire i propri documenti, quando non di un vero e proprio ufficio per sé e pochi altri colleghi, senza limiti predefiniti di tempo. Ora che l’hot desking prevede che uffici e postazioni di lavoro debbano essere prenotati tramite app con un certo margine di anticipo, per un tempo definito e occupando il posto lasciato “caldo” da qualcun altro, gli impiegati sembrano destinati a un’inedita esperienza di nomadismo aziendale da una postazione all’altra, da un ufficio all’altro, con conseguenze mai indagate prima sul benessere personale e la qualità stessa del lavoro.

Non è solo una questione di abitudini, di tradizioni consolidate, di resistenza all’innovazione: in gioco c’è il ruolo stesso del singolo individuo all’interno di una organizzazione più grande di lui, che non è più disposta a riconoscergli neppure il diritto ad avere un proprio spazio definito all’interno di un ambiente conosciuto. La fine del posto fisso in ufficio viene fatta passare come l’esito di uno scambio alla pari tra aziende e impiegati, con questi ultimi che avrebbero ottenuto il “diritto” a lavorare da casa per alcuni giorni alla settimana (smart working) in cambio del venir meno del “diritto” di non dover di volta in volta chiedere il permesso per sedersi alla scrivania dell’azienda che li ha assunti (hot desking). Una compensazione lacunosa, mi par di capire, con i dipendenti costretti oggi a una intensa attività di riadattamento a una situazione mutevole che li avvicina più alla condizione di un freelance, un consulente esterno, un fornitore che giunge in visita in azienda, che non a quella di un dipendente vero e proprio così come questo è stato inquadrato fino ad oggi.

L’hot desking sta diventando una ideologia diffusa prima ancora che sia stata dimostrata la sua utilità e sostenibilità

Come molte innovazioni anche l’”hot desking” viene trattato alla stregua di una ideologia, ricevendo in differente misura elogi e critiche, senza che siano disponibili dati ed esperienze sufficienti per emettere un giudizio ragionato. Eppure, è proprio questa mancanza totale di dati ed esperienze pregresse che dovrebbe spingere più di una persona dotata dal potere di governare il cambiamento a mettere in discussione una tendenza che si sta affermando nell’assenza di qualsiasi riflessione critica a riguardo: perché i dipendenti che non vogliono fare smart working non potrebbero mantenere la propria postazione di lavoro fissa in ufficio? Che cosa succede se le postazioni di lavoro disponibili superano le richieste di prenotazione in un dato momento? Quali sono le compensazioni previste a livello contrattuale date dal venir meno di telefoni, scrivanie, postazioni fisse e senza scadenza? Il dipendente che deve spostare continuamente documenti di lavoro, computer e altri dispositivi da una postazione all’altra è altrettanto responsabile della loro sicurezza? Non sono poche le aziende che hanno riprogettato i propri uffici in funzione dell’hot desking ancor prima che sia stata dimostrata l’efficacia e la necessità di quest’ultimo, mettendo sullo stesso piano le esigenze del lavoro “silenzioso” di uno sviluppatore con il lavoro “rumoroso” di un call center.

La velocità di adozione lascia, infine, sospettare che vi sia ben altro rispetto all’obiettivo dichiarato di risparmiare sui costi di manutenzione degli uffici. Con il venir meno di postazioni fisse all’interno di luoghi predefiniti, è plausibile oggi che il management delle aziende che hanno implementato pratiche di hot desking stia perseguendo l’obiettivo di ridurre al minimo quelle forme di aggregazione e resistenza interna tra lavoratori che spesso derivano o sono agevolate dall’appartenenza a una stessa postazione, a uno stesso ufficio, a uno stesso ambiente di lavoro. C’è chi nell’hot desking vede uno strumento per eliminare i “compartimenti stagni” che spesso rallentano i flussi di lavoro tra specializzazioni diverse all’interno della stessa azienda, e chi potrebbe vederci uno strumento per ridurre al minimo la capacità degli impiegati di organizzarsi tra loro per resistere o quantomeno aiutarsi tra colleghi “di scrivania” di fronte a ritmi di lavoro insostenibili e ingerenze di varia natura. Come tutti i nomadi, anche gli impiegati “mobili” devono oggi fare i conti con il rischio di perdere di vista il proprio gruppo di riferimento quando la app dirà loro che quella postazione accanto a uno o più colleghi oggi no, non è proprio disponibile, domani forse, dopodomani chissà.

Ma, d’altronde, vuoi mettere il “panorama” che si osserva da questa finestra?

jacopo franchi

Autore

Jacopo Franchi

Mi chiamo Jacopo Franchi, sono nato nel 1987, vivo a Milano, lavoro come social media manager, sono autore del sito che state visitando in questo momento e di tre libri sui social media, la moderazione di contenuti online e gli oggetti digitali.

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