Compirà dieci anni nel 2022 la pagina Facebook “Chi ha paura del buio?” specializzata nella divulgazione scientifica e in particolar modo astronomica: Filippo Bonaventura, ultimo entrato nel team, racconta il difficile rapporto di un divulgatore di professione alle prese con le piattaforme digitali e con i loro algoritmi.
Una pagina Facebook da oltre 300 mila fan, un account Instagram da 60 mila follower, due gruppi Telegram, un gruppo pubblico Facebook da 24 mila membri, un canale YouTube da 11 mila iscritti, due libri pubblicati nel giro di un anno e mezzo – “Se tutte le stelle venissero giù” e “L’universo su misura” entrambi editi da Rizzoli – e un tour di eventi attraverso l’Italia che sta per entrare nel vivo della stagione estiva con la doppia tappa romana, del 9 e 10 luglio, di presentazione del libro e dello spettacolo sulle sonde Voyager al Nuovo Teatro Orione: la community che ruota intorno a “Chi ha paura del buio?” rappresenta oggi uno degli esempi meglio riusciti di divulgazione scientifica in Italia attraverso i social media (e non solo), anche se non mancano le criticità nel rapporto con le piattaforme digitali e con i loro imprevedibili e imprescindibili algoritmi.
Al divulgatore oggi è richiesta una serie di competenze che spaziano dalla conoscenza tecnica degli strumenti digitali alla sensibilità necessaria a interagire 24 ore al giorno con una community
Un’attività costante che richiede visione strategica, sensibilità editoriale, capacità di esprimersi attraverso mezzi e stili differenti, competenze tecniche di utilizzo delle piattaforme digitali, aggiornamento costante sia sui propri argomenti di studi sia sul mutevole scenario dei media (da Facebook a TikTok, dalle newsletter ai podcast), per arrivare infine a sviluppare una profonda dose di empatia nella gestione di più community composte da decine di migliaia di persone, di provenienza e competenze tra loro diversissime: queste sono le caratteristiche che accumunano Matteo Miluzio, Lorenzo Colombo e Filippo Bonaventura, i tre astrofisici e divulgatori che gestiscono “Chi ha paura del buio?” dopo essere subentrati al fondatore della pagina da cui tutto è cominciato ormai dieci anni fa, Massimiliano Bellisario, autore del libro omonimo. “Su Facebook non è scontato durare così a lungo – racconta Filippo, all’inizio della nostra lunga intervista – In questi dieci anni abbiamo visto tanti progetti di divulgazione, nati prima e dopo di noi, cessare le proprie pubblicazioni”.
Gli algoritmi sono troppo imprevedibili, i sistemi di donazione dei social non sono sufficienti: per durare altri dieci anni, l’obiettivo deve essere quello di spostare contenuti e fan sul proprio sito web
Proprio per evitare di dipendere unicamente da un solo canale, e per provare a raggiungere pubblici diversi con abitudini digitali diverse, il team di “Chi ha paura del buio?” nel corso del tempo ha diversificato la propria presenza social ottenendo un ottimo riscontro anche su canali come Instagram e YouTube, in attesa di dotarsi di un proprio sito web e di altri strumenti digitali proprietari su cui poter avere maggiore controllo in termini di contenuti da pubblicare, visibilità e monetizzazione. “Stiamo lavorando al nostro sito web – racconta Filippo – per renderci quanto più possibile autonomi dalle piattaforme social: a causa degli algoritmi, noi non abbiamo mai il pieno controllo su chi vedrà i nostri post tra i nostri fan, né tantomeno possiamo pensare di sostenere economicamente il progetto attraverso le donazioni di Facebook o di YouTube. Nel lungo periodo, il nostro obiettivo è quello di far diventare il nostro sito il baricentro di tutta l’attività, con un sistema di donazioni e abbonamenti in cambio di contenuti extra e per gestire la vendita diretta dei biglietti per i nostri eventi dal vivo. I social, in questa prospettiva, resteranno i canali attraverso cui farci pubblicità”.
Il tradeoff tra visibilità e qualità: il social media costringe a un ritmo di pubblicazione quasi impossibile da sostenere per chi è da solo, comunque difficile per chi può contare su più risorse
Sembra un paradosso, ma è così: le stesse piattaforme che fino ad oggi hanno permesso al progetto di “Chi ha paura del buio?” di acquisire visibilità e portare decine di migliaia di persone ad appassionarsi alla scienza e all’astronomia sotto uno sguardo e una prospettiva diversa dal solito, sono le stesse che mettono da sempre in difficoltà i divulgatori quando si tratta di far fronte agli aggiornamenti degli algoritmi che rendono tuttora impossibile prevedere quali post verranno visti, da chi e da quante persone che seguono la pagina o che potrebbero visualizzarne gli aggiornamenti nel proprio newsfeed. “Dopo anni che siamo su Facebook non abbiamo ancora capito quali siano i criteri che muovono i suoi algoritmi, e l’impossibilità di sapere in anticipo quali saranno i nuovi aggiornamenti della piattaforma così da potersi preparare per tempo complica enormemente il nostro lavoro – spiega Filippo – Quello che è certo è che non tutto dipende solo e unicamente da noi, dalla qualità intrinseca dei contenuti. Noi cerchiamo di adattarci a questa grande imprevedibilità, variando le tipologie di post, avvantaggiati dal fatto di essere in tre persone a gestire il piano editoriale, e pubblicando molto più spesso di quanto facevamo un tempo: ci siamo resi conto, infatti, che pubblicando un solo post al giorno la crescita organica dei fan era ormai pari a zero”. Per chi fa divulgazione social, oggi, il “tradeoff” tra visibilità e qualità resta un tema all’ordine del giorno.
Pagare i social per avere visibilità? Meglio di no: piuttosto, cercare finché possibile di coltivare la relazione con le persone, facendosi anche aiutare su tutto ciò che riguarda la moderazione di contenuti
Pur a fronte di difficoltà così evidenti, che confermano la tendenza dei social a ridurre la visibilità delle pagine e degli account più seguiti per costringere questi ultimi a pagare per mantenere visibili i propri contenuti, “Chi ha paura del buio?” non ha mai investito un euro nella promozione a pagamento e non intende farlo ora che l’enorme lavoro di divulgazione gratuita inizia a dare i primi significativi ritorni economici al di fuori dei social media. “Tutte le persone che hanno deciso di seguirci e tutte le visualizzazioni dei nostri contenuti provengono unicamente da attività organica, non a pagamento – conferma Filippo – in prospettiva, preferiamo avere meno persone che ci seguono, ma più coinvolte. Se è vero che tanto più sono aumentati i fan tanto più la nostra visibilità è stata limitata dall’algoritmo, è altrettanto vero che siamo sempre riusciti a trovare un punto di equilibrio, anche grazie all’aiuto delle persone che ci hanno seguito fin qui, una parte delle quali oggi ci dà un grande aiuto nella moderazione dei commenti e delle discussioni più accese, sulle pagine e sul gruppo Facebook dove sono per lo più gli utenti ad avviare conversazioni e stimolare all’approfondimento”. Anche da queste riflessioni nasce il bisogno di emanciparsi dai social, di non usare la visibilità raggiunta su questi canali per approdare a nuove piattaforme e ambienti più “disintermediati”.
La figura dell’influencer-divulgatore e l’avviso ai naviganti giovanissimi: non cercate in noi delle figure di riferimento, il divulgatore non è un “maestro di vita” ma una persona a cui chiedere chiarezza
Infine, dal punto di osservazione di chi fa divulgazione sui social da diversi anni a questa parte non può sfuggire la nascita di una nuova figura “ibrida” di divulgatori e “influencer”. “Ci siamo resi conto, soprattutto durante le dirette streaming – commenta Filippo, quando ormai la nostra intervista telefonica sta giungendo al termine – che alcuni tra i più giovani che seguono i nostri contenuti lo fanno anche perché trovano in noi delle figure di riferimento che non riescono a individuare altrove. Ma è da anni che assistiamo al fenomeno per cui dei giovani e giovanissimi genericamente identificati come ‘influencer’ per via dell’elevato seguito che hanno sui social hanno cominciato anche a condividere contenuti scientifici, con il rischio di non rendersi conto dei rischi di associare la promozione di sé alla divulgazione scientifica, o la divulgazione scientifica con contenuti pubblicitari a pagamento. Dal punto di vista dei ‘fan, il rischio è se possibile ancora maggiore, ovvero quello di essere manipolati da persone che sfruttano la propria visibilità per sostenere una tesi priva di fondamento scientifico”. La figura dell’influencer e quella del divulgatore, secondo Filippo, dovrebbero rimanere ben distinte agli occhi delle persone come degli algoritmi, cosa che i social non hanno alcuna intenzione di sostenere per ragioni di puro tornaconto economico.
La TV è ancora oggi ritenuta da molte persone il punto di arrivo della carriera di un divulgatore, sebbene la TV stessa sia vista come molto meno coinvolgente dei social dal punto di vista della divulgazione
Se i lockdown dell’ultimo anno e mezzo hanno contribuito ad aumentare la visibilità del progetto, grazie alla capacità del team di “Chi ha paura del buio?” di sapersi reinventare e di organizzare dall’oggi al domani un seguitissimo ciclo di approfondimenti in diretta streaming su Facebook e su YouTube, nondimeno si è fatta sempre più forte l’esigenza di sviluppare altri canali di contatto con il pubblico. Dal vivo, nei teatri, ma anche nelle librerie con la pubblicazione del libro “Se tutte le stelle venissero giù” (“caratterizzato da uno stile non troppo diverso da quello del piano editoriale dei social, con tanti capitoli autonomi nei contenuti, pur guidati da un unico filo conduttore” ammette Filippo) e dell’ultimo arrivato in libreria, “L’universo su misura”, dove per la prima volta i tre divulgatori hanno potuto esprimere compiutamente il desiderio di emanciparsi dall’immediatezza dei social e dalla necessità di catturare a ogni riga l’attenzione frammentaria degli utenti digitali. “Con il libro abbiamo dimostrato di essere in grado non solo di scrivere post da 3.000 battute per Facebook – sottolinea Filippo – ma anche di creare un’opera di divulgazione a se stante, di ampio respiro e che ti lascia qualcosa alla fine”. Infine, resta da notare come il team di “Chi ha paura del buio?” abbia all’attivo solo poche apparizioni in televisione: “la tv è il mezzo che il pubblico tende a considerare come punto di arrivo nella carriera di un divulgatore, sebbene spesso e volentieri ritenga la TV meno coinvolgente dei social. Nonostante la divulgazione su questi canali sia ormai completamente sdoganata – conclude l’astrofisico – la consacrazione di un divulgatore agli occhi di molte persone passa ancora oggi attraverso i media tradizionali”
In quest’ultimo caso, tuttavia, trecentomila fan, sessantamila follower, undicimila iscritti e qualche altro migliaio di persone in tutta Italia sembra pensarla molto diversamente da Filippo.