Sta facendo discutere la scelta di alcune grandi aziende tecnologiche come Facebook, Google e Twitter, di lasciare i propri dipendenti in smart working anche dopo la fine della pandemia: scelta illuminata e rivoluzionaria, o tentativo di limitare l’altissimo turnover?
Vista dall’esterno, sembra quasi una gara a chi offre di più. Dopo l’annuncio secondo cui Twitter avrebbe concesso ai propri dipendenti di poter scegliere liberamente se continuare o meno a lavorare in smart working a tempo indeterminato, anche dopo la fine della pandemia di Coronavirus, Facebook e Google hanno dichiarato a loro volta la propria disponibilità a lasciare ai dipendenti la libera scelta in fatto di luoghi e orari di lavoro.
Facebook, in particolare, ha dichiarato esplicitamente di voler puntare al 50% della forza lavoro in smart working entro il 2030: sia per dare a tutti i dipendenti la possibilità di scegliere la modalità di lavoro più consona alle proprie esigenze, sia per sfruttare questi ultimi come “cavie” dei propri servizi pensati per la digitalizzazione dei flussi di lavoro nelle imprese clienti (dall’eterna promessa “Workplace” alle nuovissime “Stanze” per le videoconference).
https://youtu.be/iNsc5rK3V6Y
Presentazione di Workplace di Facebook (agg.: video rimosso per oscuri motivi)
Anche i giganti perdono “pezzi” per strada
In un mondo in cui la maggior parte delle aziende esprime ancora forti perplessità sull’opportunità o meno di concedere ai propri dipendenti la possibilità di lavorare da casa per qualche giorno a settimana, le grandi imprese tecnologiche sembrano essere ancora una volta le principali protagoniste del cambiamento. Tuttavia, agli osservatori più attenti non sfugge come la decisione di Twitter, Google e Facebook sia giunta in un contesto estremamente incerto come quello della pandemia di Coronavirus, tuttora in corso.
I giganti dell’hi-tech temono forse di perdere i propri dipendenti? Sembrerebbe di sì, almeno secondo quanto raccontano i dati: secondo Business Insider, infatti, le persone che lavorano per Facebook, Alphabet/Google, ma anche Twitter, Amazon , Microsoft o AirBnb non resistono più di due anni dentro alle rispettive aziende. Anche il mondo hi-tech soffre quindi dello stesso, annoso problema delle imprese di tutto il mondo: trovare i talenti e convincerli a rimanere in azienda, tramite una serie di incentivi di natura non solamente monetaria (tra cui lo stesso smart working).
Lo smart working come antidoto al turnover
Questo continuo ricambio di risorse interne, infatti, ha un costo non indifferente sui bilanci aziendali: di formazione, di assunzione, di reclutamento di nuove figure. Per non parlare delle conseguenze indirette del turnover di figure specialistiche, come la perdita di informazioni sensibili a beneficio dei concorrenti e il danno d’immagine derivante dalla presenza di un numero crescente di ex-dipendenti autorevoli e “insoddisfatti” in tutto il mondo (un tipico caso studio di questo fenomeno sono le testimonianze degli ex-dipendenti di Uber).
La scelta di Facebook e Google di concedere più ampi margini di manovra ai propri dipendenti, prima che questi maturino la scelta di licenziarsi e passare a miglior vita (professionale), appare quindi una scelta prevalentemente difensiva: allargare – anche se solo illusoriamente, grazie alla tecnologia – le maglie della sorveglianza anziché restringerle ancora di più, concedere al dipendente che si ritrova a lavorare in un ambiente di lavoro ormai irreversibilmente “tossico” la possibilità di definire una minima distanza di sicurezza tra sé e i propri colleghi o supervisori. Secondo quello che è ormai diventato un detto comune, almeno nel mondo delle risorse umane, le persone non abbandonano il lavoro ma i propri capi (o, più probabilmente, i propri supervisori diretti o i colleghi con cui condividono uffici claustrofobici).
I dipendenti prima e dopo lo smart working
Non tutte le imprese possono, dall’oggi al domani, adottare lo smart working con la stessa velocità di Google e Facebook. Non lo possono fare sia per mancanza di tecnologie adeguate, sia per mancanza di una cultura aziendale disposta a rinnovarsi profondamente nei processi interni come nei ruoli di ciascuna “risorsa umana” dell’azienda. Paradossalmente, anche le aziende più tradizionali e che richiedono la presenza in un luogo specifico potrebbero adottare forme di smart working, lasciando ai lavoratori la possibilità di decidere collettivamente ruoli, turni e orari di presenza, se questi comunque assicurano il raggiungimento degli “obiettivi” concordati.
Se lo smart working fosse una scelta puramente vantaggiosa per le imprese e gli imprenditori, esso non andrebbe incontro a così tante resistenze culturali nelle PMI e non sarebbe adottato in massa dalle grandi aziende tecnologiche solo nei momenti di emergenza globale. Se neppure Facebook è disposta a concedere a più di metà della forza lavoro il diritto di lavorare da casa, vuol dire che neppure Zuckerberg può stimare con esattezza le conseguenze di questa innovazione all’interno della propria azienda: e se un giorno agli uffici di Menlo Park non si presentasse più nessuno, perché tutti sono raggiungibili via “Workplace”?
Dalle imprese competitive alle imprese inclusive
Che dipendente è quello che riacquista la libertà di decidere del proprio tempo e della propria collocazione fisica? Un dipendente diverso: con più energie e tempo a disposizione, con più consapevolezza delle proprie capacità organizzative e professionali. Un dipendente che lavora di più, che raggiunge più velocemente gli obiettivi, ma che al tempo stesso matura dentro di sé la consapevolezza di quanto sia controproducente limitare la propria vita professionale all’interno di quattro mura per 40 ore al mese, soggetto ai ritmi, agli umori e alla discrezionalità organizzativa di capi e sotto-capi spesso privi di maggiori esperienze professionali. Soprattutto in un settore relativamente recente come quello delle tecnologie digitali.
Lo “smart working” porta le imprese che ancora oggi ragionano come enclavi autocratiche impegnate in una furibonda guerra per non essere sopraffatte dai “concorrenti”, di dimensioni spesso altrettanto insignificanti, all’implosione definitiva. Adottare lo smart working, adottarlo veramente, significa oggi esporre l’impresa a un rischio fin troppo concreto: quello di vederla dissolversi, a beneficio di imprese più inclini a favorire la libera iniziativa dei singoli membri del team e lo spirito di collaborazione con altre imprese simili per valori e obiettivi sociali. Di vedere i dipendenti dimettersi in massa, perché finalmente “liberi” di cercarsi attivamente una nuova azienda durante gli orari di lavoro.
In un mondo che sta passando dall’economia lineare a quella circolare, in cui ogni impresa deve necessariamente collaborare con le altre, mentre gli strumenti digitali sono pensati più per favorire la condivisione di conoscenze ed esperienze che non la realizzazione di progetti a compartimenti stagni, le persone stesse cercano luoghi di lavoro orientati all’inclusività piuttosto che alla competizione, alla condivisione di responsabilità e meriti piuttosto che alla specializzazione e sopraffazione reciproca. Luoghi in cui poter collaborare – serenamente e attivamente – con i colleghi, i partner, i “competitor” in nome di un obiettivo comune, e dove l’imprenditore agisce più nelle vesti di “primus inter pares” che non come un monarca assoluto e pressoché irremovibile. O, meglio, come uno Zuckerberg qualsiasi.
Extra
Per chi volesse approfondire l’argomento consiglio il bel video di Raffaele Gaito: