Se quello dell’imprenditore rimane l’unico ruolo professionale cui vale la pena dedicare le proprie competenze e ambizioni, quale destino attende le imprese così come le abbiamo conosciute fino ad oggi?
Essere padroni di se stessi, creare un nuovo prodotto o un nuovo servizio, pagarsi, pagare gli altri, comandare, pretendere: tutti vogliono essere imprenditori, nessuno vuole più essere sottomesso a qualcun altro, tutti lavorano per segare il ramo su cui è seduto quello che si trova appena sopra di loro. Sono tutti “founder”, creatori, innovatori. Quando non lo sono, si atteggiano come tali, lavorano per diventarlo, dedicano ai progetti personali il tempo e le risorse mentali che dovrebbero essere dedicate all’azienda che li ha assunti. Senza incontrare per forza di cose il biasimo dei colleghi, o ostacoli che non siano quelli derivanti dalla loro stessa, sconfinata ambizione.
Nessuno, oggi, vuole essere dipendente a vita di qualcun altro. Nessuno vuole lavorare “solo” per far diventare ricco qualcun altro. Si è sempre alla ricerca di un’esperienza aggiuntiva, di un’opportunità migliore sulla strada verso la liberazione dal lavoro dipendente. Si lavora per sé, per il proprio curriculum, per conoscere i segreti del mestiere, per conquistare il controllo dell’impresa. Anche i più ricchi sentono il bisogno di diventare imprenditori, perché il denaro e il benessere da soli non bastano a dare prestigio, a giustificare il senso di una vita vissuta nell’agio ma senza “creare” nulla di significativo, o memorabile.
Non è il posto fisso da dipendenti, ma il posto fisso da imprenditori quello a cui anelano oggi i giovani e le persone più istruite. Anche senza avere alcuna conoscenza dei rischi, dei capitali necessari, del contesto economico, dei tempi di realizzazione di un’idea in prodotto, delle opportunità di business e dei bisogni reali dei consumatori. Ancor prima che per rispondere ai bisogni del mercato, ormai, si diventa imprenditori per soddisfare il proprio bisogno di successo e riconoscimento sociale che un buono stipendio e una carriera lineare non sembrano essere più in grado di assicurare.
La democratizzazione dell’imprenditorialità, di cui le startup sono solo l’esempio più evidente, ha come conseguenza la disgregazione dall’interno delle imprese stesse, dove ognuno dei lavoratori persegue fini e obiettivi che coincidono sempre meno con quelli dell’azienda per cui sono stati assunti. Lavorando per sé, per arricchire il cv di una nuova esperienza, per sviluppare un network di contatti che tornerà utile prima o poi, per delegittimare i quadri intermedi e far fuori prima o poi l’imprenditore stesso attraverso la continua presa d’iniziativa, si finisce tuttavia per sottrarre energia e direzione all’azienda, ai progetti comuni e condivisi con gli altri colleghi.
Sempre più spesso le imprese del terziario devono oggi fare oggi i conti con una forza lavoro istruita (spesso più della stessa classe dirigente), priva di garanzie contrattuali sul proprio futuro, continuamente stimolata ad aggiornarsi e a farsi carico della sopravvivenza stessa dell’azienda, in un mercato che né il top management né gli imprenditori stessi sembrano ormai più in grado di interpretare da soli senza il coinvolgimento nei processi decisionali delle risorse operative, le uniche a rimanere a contatto diretto col cliente e con i processi produttivi in continuo mutamento.
Irreale, in queste condizioni, aspettarsi che una forza lavoro siffatta possa rimanere a lungo tempo in condizioni di quasi immobilità sulla scala gerarchica, o accontentarsi di scalare le posizioni in maniera lineare, o che possa “pensare e agire” da imprenditore all’interno dell’azienda senza provare a rivendicarne il pieno possesso, sovvertendo le gerarchie o cercando opportunità migliori al di fuori di essa quando appare chiaro che la mobilità interna non corrisponde alle proprie aspettative.
La crisi economica, la precarizzazione contrattuale del lavoro dipendente, anche per le professioni più specializzate, e la senescenza prolungata degli imprenditori storici hanno fatto il resto, lasciando in balia del mercato nuove e vecchie imprese dove il turnover tra i lavoratori più qualificati raggiunge livelli mai sperimentati prima d’ora. E dove pure i dipendenti meno qualificati ambiscono a ritagliarsi il proprio spazio di libertà e di iniziativa, al di fuori dei rigidi obiettivi e incarichi aziendali.
Di fronte a questo scenario, alcune imprese hanno tuttavia saputo sfruttare gli “istinti imprenditoriali” dei loro dipendenti migliori, attraverso due strategie tra loro simili ma opposte: dando ai dipendenti la massima libertà operativa (di mezzi, di strategie) ma vincolata al raggiungimento di un unico obiettivo comune, oppure al contrario vincolando il dipendente al raggiungimento di performance al limite delle sue capacità, ma giustificando queste ultime nel perseguimento di un obiettivo generico e ambiziosissimo (il “negozio globale” di Amazon, costruito su una rigida e performante organizzazione del lavoro, è il massimo esempio di questa strategia).
Le imprese disruptive hanno successo, almeno in una prima fase, perché si propongono come imprese di imprenditori, dove l’unico legame che tiene assieme le diverse anime dell’azienda è l’ambizione di creare qualcosa di assolutamente nuovo, per il quale c’è bisogno delle energie e delle idee di tutti, e di cui ciascuno potrà in seguito legittimamente rivendicarne il pieno merito. Senza rispetto alcuno per il passato, per gerarchie e ruoli esterni predefiniti, e dove l’imprenditore agisce all’interno dell’azienda più come un “primus inter pares” che non come un uomo solo al comando.
In questo contesto, il primo problema del lavoro nel XXI secolo sarà quello di conciliare competenze individuali sempre più avanzate e professionalità ibride, ambizioni imprenditoriali diffuse e difficilmente controllabili, con l’arretratezza culturale, l’organizzazione gerarchica, familistica, l’ambizione e le capacità finanziarie limitate delle imprese odierne. Dove i lavoratori più capaci non lotteranno più per difendersi dal potere illimitato dell’imprenditore, come avveniva nell’epoca industriale, ma per prenderne il posto o avvicinarsi quanto più vicino possibile ai posti di comando “de facto” dell’impresa. In una società dove tutti si sentono chiamati a diventare imprenditori, o a sviluppare competenze imprenditoriali, diventa difficile assicurare la sopravvivenza e continuità delle imprese così come le abbiamo conosciute fino ad ora.
(continua…)