La scelta di Twitter di subordinare la condivisione degli articoli alla lettura di questi ultimi è indicativa di un approccio paternalistico, tanto più ipocrita quanto più esso viene adottato in maniera indiscriminata verso tutti gli utenti.
Esattamente un mese fa Twitter annunciava sul suo canale “@TwitterComms” una misura “temporanea” volta a ridurre la diffusione di fake news in vista delle elezioni presidenziali americane: da allora, noi utenti non possiamo più “retwittare” con un solo clic i tweet pubblicati da altri account che contengono il link a un articolo, ma siamo costretti ogni volta a visualizzare un messaggio che ci ricorda di leggere con attenzione l’articolo prima di condividere quest’ultimo. A distanza di un mese dall’annuncio, tuttavia, la misura temporanea sembra essere ormai sul punto di diventare qualcosa di ben più definitivo.
Twitter ora ci insegna che i titoli “non raccontano le storie (sic) per intero”
“I titoli non raccontano le storie per intero”, “stai per condividere un articolo senza averlo letto”: sono questi i messaggi che appaiono ancora oggi ogni volta che si prova a “retwittare” un articolo su Twitter. Quando non sono presenti link esterni, inoltre, la piattaforma non consente di retwittare con un solo “clic” ma invita ad aggiungere un proprio commento prima della condivisione: come scolaretti che devono essere educati a rielaborare con parole proprie i concetti espressi da altri, così gli utenti di Twitter vengono ora educati a un uso della piattaforma radicalmente differente rispetto a quello degli anni precedenti.
Quello di Twitter è solo un esempio, forse il più visibile, del nuovo approccio paternalistico che le piattaforme hanno assunto nei confronti dei loro utenti: dopo gli anni ruggenti del “laissez-faire”, i maggiori social media al mondo non perdono oggi occasione di scaricare la colpa della diffusione di fake news sugli utilizzatori finali, senza tuttavia fare alcuna distinzione tra di essi. Da Twitter che invita a leggere prima di condividere, a Facebook che ha abbandonato la tradizionale “neutralità” per mostrarci solo le “fonti autorevoli” di notizie sul Coronavirus in un feed separato, a LinkedIn che pochi mesi fa ha inviato a tutti gli iscritti un link contenente un invito a rispettare le regole di ingaggio della piattaforma, ricordando di adottare un comportamento civile nei confronti degli altri utilizzatori.
Il paternalismo digitale non prevede che un utente possa un giorno diventare “adulto”
È un curioso contrappasso quello che stiamo vivendo oggi: se per anni siamo stati stimolati a servirci dei social assecondando il nostro bisogno e la nostra ispirazione del momento (a partire dal celeberrimo “che cosa stai pensando?” che invita ogni utente Facebook a lasciar cadere gli ultimi freni inibitori), siamo oggi richiamati all’ordine da una serie di avvisi che colpiscono in maniera indiscriminata chiunque abbia a che fare con le piattaforme più popolari. Che una persona sia iscritto da dieci anni o da una settimana, che abbia cinquanta o venti anni, che abbia ricevuto venti segnalazioni di violazione delle “regole” di comportamento o nessuna, nel giro di pochi mesi tutti sono diventati pericolosi potenziali propagatori di fake news, facilmente manipolabili da queste ultime, incapaci di convivere civilmente senza essere richiamati di continuo al rispetto delle regole.
Senza entrare nel merito dell’utilità o meno di queste misure, su cui mancano come sempre ricerche esaustive e indipendenti che possano confermare o smentire la loro efficacia, è importante qui sottolineare come non sia prevista alcuna possibilità di redenzione: non basta leggere tutti gli articoli per non vedere più il messaggio di Twitter che invita a leggere questi ultimi prima di condividerli, non è sufficiente dimostrare con i fatti di essere un utente “responsabile” per non essere più oggetto di inviti a non danneggiare il prossimo. Non è prevista una distinzione dei messaggi tra fasce d’età, esperienza dello strumento, assenza di segnalazioni a proprio carico, malgrado questi dati siano abitualmente utilizzati dalle piattaforme stesse per i propri obiettivi di business.
Dopotutto, per trattare i propri utenti da adulti bisognerebbe accettare la sfida di condividere con questi ultimi informazioni rese volutamente impossibili da decodificare con esattezza: come vengono aggiornati gli algoritmi, quali criteri guidano le scelte dei moderatori di contenuti, che impatto hanno le diverse forme di interazione sulla visibilità di questo o quel contenuto, di questa o quella “fake news”. Di fronte a questo limite invalicabile, per scelta strategica, non resta ai social media e alle altre piattaforme digitali che trattare tutti gli utenti alla stregua di bambini incapaci di intendere e di volere: deprivati degli strumenti di comprensione essi possono solo essere redarguiti, indiscriminatamente, senza alcun reale interesse per la loro effettiva “maturazione” digitale.
Aggiornamento: due settimane dopo la pubblicazione di questo articolo, YouTube ha annunciato il rilascio di un aggiornamento che avrà come scopo quello di avvisare gli utenti che intendono pubblicare commenti potenzialmente offensivi o contenenti frasi e parole ingiuriose, nell’atto stesso di scrivere questi ultimi. Un avviso che, tuttavia, non impedirà all’utente stesso di pubblicare il commento anche in assenza di ulteriori modifiche. Un ulteriore esempio, quest’ultimo, di paternalismo digitale applicato in maniera indiscriminata.
Altri problemi derivanti dal “parternalismo digitale” evidenziati in un approfondimento di Euronews.