Google Tag Manager e l’altro lato del “capitalismo della sorveglianza”

La diffusione di strumenti gratuiti come “Google Tag Manager” offre alle grandi corporation tecnologiche, come Alphabet/Google, la possibilità di analizzare le strategie commerciali e di marketing di aziende che un domani potrebbero diventare competitor dirette.

Uno strumento gratuito, comprensibile con qualche piccolo sforzo, che consente ai responsabili del marketing online delle aziende di tutto il mondo di risparmiare sui costi e i tempi del lavoro degli sviluppatori: è “Google Tag Manager”, un sistema di gestione di tag gratuito che gode oggi di una crescente popolarità. Grazie a Tag Manager, infatti, è possibile aggiungere al proprio sito web diversi strumenti di marketing come Google Analytics, Facebook e LinkedIn Pixel, Hotjar, chatbot, etc. da un unico “pannello di controllo”, senza necessità di aggiungere ulteriore codice al sito stesso. “Awesome”, vero?

Una panoramica “ufficiale” di Google Tag Manager

Comprendere Google Tag Manager alla luce del “capitalismo della sorveglianza” di Zuboff

Eppure, la gratuità non è di questo mondo: non di quello del business, perlomeno. A fronte di un piccolo risparmio dal punto di vista del lavoro di sviluppo, infatti, le aziende rischiano in questo modo di condividere una serie di dati sensibili circa il proprio sito web con una delle più grandi aziende hi-tech globali: grazie a Tag Manager, infatti, Google è in grado di sapere quante e quali aziende utilizzano LinkedIn o Facebook Pixel, quante e quali aziende fanno uso di chatbot o altri strumenti di monitoraggio, con quale frequenza e in quali modalità questi ultimi vengono attivati all’interno del “percorso” di conversione dell’utente in cliente.

Non sono dati di poco conto, soprattutto se questi vanno ad aggiungersi a una serie di altri dati che le aziende condividono già con Google senza neppure porsi il problema delle conseguenze future: dai dati sul pubblico del proprio sito web attraverso Google Analytics ai dati di coloro che visitano o chiamano in sede tramite la scheda di Google My Business. Benvenuti nell’altro lato, quello meno indagato, del “capitalismo della sorveglianza”, quello che vede i vari Google, Facebook e Amazon acquisire informazioni sensibili dalle aziende “tradizionali” attraverso la messa a disposizione di servizi apparentemente gratuiti per queste ultime.

“Non c’è budget”: il miraggio della gratuità si trasforma in una vulnerabilità commerciale

Secondo Shoshana Zuboff, autrice del libro “Il capitalismo della sorveglianza”, le grandi aziende hi-tech si servirebbero di una serie di servizi gratuiti per estrarre continuamente dati di natura privata dagli utenti a fini pubblicitari e di creazione di nuovi servizi “su misura”. In questo senso, servizi come Google Tag Manager sono forse l’esempio più evidente di come la stessa strategia venga perseguita anche nei confronti di aziende di ogni tipologia e dimensione: grazie a Tag Manager, Google è oggi in grado di conoscere numero, tipologie e modalità di attivazione degli strumenti di monitoraggio e acquisizione clienti di migliaia di banche presenti sul web con un proprio sito commerciale. Un vantaggio non di poco conto, per un’azienda come Alphabet/Google che da anni prova a colonizzare con alterne fortune il mercato dei servizi finanziari.

Come è possibile, tutto questo? La prima causa è da ricercarsi nella vulnerabilità endemica cui sono soggette da anni innumerevoli aziende “tradizionali”: quella dei budget risicati destinati alle attività online, allo sviluppo di tecnologie proprietarie, all’ingresso di nuove professionalità in aziende solitamente restie a qualunque contaminazione tecnologica. La verità è che nessun settore, oggi, può ritenersi immune dalla concorrenza di piattaforme in grado di potersi espandere in settori tra loro diversissimi come il commercio (Google Shopping), i pagamenti (Google Pay), l’assistenza alla guida (Android Auto), in virtù di una disponibilità in continua crescita di dati sensibili riguardanti i punti di forza e di debolezza dei fornitori di servizi tradizionali. Fino a che punto questi ultimi diventeranno sempre più trasparenti agli occhi delle Big Tech – oggi alleate, un domani invincibili concorrenti – in cambio di un piccolo risparmio sugli stipendi e gli investimenti di oggi? La domanda, in fondo, non è poi così diversa da quella con cui si confrontano da anni miliardi di clienti “non paganti” di social, servizi di messaggistica, motori di ricerca e insospettabili assistenti virtuali.

jacopo franchi

Autore

Jacopo Franchi

Mi chiamo Jacopo Franchi, sono nato nel 1987, vivo a Milano, lavoro come social media manager, sono autore del sito che state visitando in questo momento e di tre libri sui social media, la moderazione di contenuti online e gli oggetti digitali.

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