Sintesi e commento del primo “Global Cryptocurrency Benchmarking Study”, il primo studio globale dedicato al settore delle criptovalute, realizzato dal Cambridge Center For Alternative Finance.
Un settore professionale in pieno fermento, dove lavorano poche migliaia di addetti e qualche centinaio di aziende in perenne competizione tra loro, proliferato sulla fama globale di bitcoin e delle altre criptovalute, e che sta a poco a poco venendo a patti con i governi e le autorità finanziarie pur di continuare a operare per servire qualche milione di utenti in tutto il mondo.
Non è un’analisi che lascia grande spazio all’immaginazione e all’idealismo quella realizzata dal Cambridge Center For Alternative Finance e Visa. Il primo “Global Cryptocurrency Benchmarking Study” è stato condotto dal Senior Research Associate Garrick Hileman e dal research assistant Michel Rauchs su un totale di oltre 150 tra aziende e privati professionisti operanti nel settore delle criptovalute, tra settembre 2016 e gennaio 2017, suddivisi tra “Exchange” (le piattaforme dedicate all’acquisto, alla vendita e al trading delle criptovalute), “Wallets” (dove le criptovalute vengono conservate), “Miners” (coloro che assicurano la correttezza delle transazioni registrate sulla Blockchain) e “Payments” (le aziende che facilitano l’uso delle criptovalute quale mezzo di acquisto e transazione).
Una nuova industry, dunque, nata dall’esigenza di affiancare gli utenti meno esperti nella gestione dei propri wallet e delle transazioni, ma anche per favorire la convertibilità di bitcoin e delle altre criptovalute in valuta nazionale corrente, prevalentemente per fini speculativi. Un’industria che ha saputo sviluppare una serie di servizi accessori e personalizzati, laddove il singolo utente potrebbe in linea di principio operare in autonomia (nei pagamenti, nello storage, nella gestione del wallet), e dove solo le aziende europee e nordamericane hanno saputo conquistarsi una clientela globale, mentre la Cina resta la patria d’elezione dei mining pool (ma non per forza dei miner, che possono vendere la propria potenza computazionale da qualunque parte del mondo).
Se non puoi batterli, unisciti a loro
Quella delle criptovalute è una industry che, a differenza di quanto recita la narrativa tradizionale di Bitcoin, non si pone quasi mai in aperta opposizione e contrasto ai gruppi di potere e alle istituzioni finanziarie nazionali, ma che cerca continuamente un confronto e una pacifica convivenza con queste ultime. Oltre la metà degli Exchange nord-americani ed europei e un quarto dei Wallet provider vanta infatti una licenza rilasciata da un ente regolatore, mentre l’80% circa delle aziende che effettuano servizi di Payments dichiara di aver stipulato accordi con banche e network di pagamenti.
Più complicato appare invece il rapporto con le normative vigenti, nazionali, comunitarie o federali: il 40% dei wallet e payments provider dichiara di considerarsi libero dal rispettare specifiche leggi o regolamenti, e solo il 12% considera l’assenza di questi ultimi come problematica. In linea generale, gli operatori nordamericani dichiarano una maggiore insoddisfazione nei confronti delle norme, mentre quelli europei e asiatici dimostrano più apprezzamento (o accondiscendenza?).
Tutti fanno tutto, contemporaneamente
Il settore delle criptovalute deve gran parte della sua crescita agli Exchange, attivi fin dal 2010, premessa indispensabile a ogni successiva speculazione. Le piattaforme di Exchange conservano da tempo il primato sia come numero di aziende sul totale del settore, sia come personale impiegato, e investono un quinto del budget per prevenire possibili attacchi informatici, soprattutto nel caso in cui l’echange funga anche da wallet per i suoi utenti. Se la blockchain conserva meritamente la sua fama di invulnerabilità, non accade infatti sempre lo stesso per le aziende che fanno della gestione e del trasferimento dei bitcoin il loro core business (mai sentito parlare di Mt. Gox?).
La competizione nel mondo delle criptovalute è da sempre altissima, ma dal punto di vista degli operatori il report del Cambridge Center sottolinea come siano sempre di più le aziende che offrono una molteplicità di servizi ai loro utenti, a partire proprio dagli Exchange che offrono anche servizi di storage come i Wallets, e viceversa. Il 19% delle 150 aziende esaminate offre almeno due servizi, tra Exchange, Payments, Wallets e Mining, l’11% ne offre tre, e alcune tutti e quattro. Tutti fanno tutto, insomma, per dividersi il ricavato di una torta il cui valore non smette di aumentare, ma evidentemente non alla velocità di crescita desiderata o sufficiente a rendere sostenibile il business sul lungo periodo.
Numeri scarsi, e imprecisi, per quanto riguarda gli utenti
La platea di destinatari di questo nuovo settore dei servizi resta infatti estremamente limitata, se paragonata al numero di articoli e pubblicazioni dedicate alle criptovalute. In totale, il numero degli addetti in tutto il mondo non dovrebbe superare le duemila unità (per fare un paragone, meno dell’1% degli addetti dell’intero settore bancario italiano), mentre il numero di wallet attivi oscilla tra 5,8 e 11,5 milioni (a seconda che si consideri attivo un wallet in cui è stato effettuato almeno un login nell’ultima settimana, o che ha effettuato almeno una transazione), suddivisi inegualmente tra 2,9 e 5,8 milioni di utilizzatori unici in tutto il mondo. A conti fatti, come l’intera popolazione della Finlandia. Numeri ben scarsi, se rapportati al valore di mercato raggiunto dalle criptovalute (27 miliardi di dollari ad aprile 2017, comunque inferiore a quello di un’azienda come AirBnB).
I volumi di transazioni registrate non registrano performance significativamente diverse rispetto a una qualsiasi valuta nazionale dal punto di vista degli acquisti da parte dei consumatori nei merchant che accettano criptovalute e nei micropagamenti, che dovrebbero costituire una delle principali innovazioni di bitcoin. Il 35% delle transazioni internazionali ha un valore superiore ai mille dollari, il 46% è compreso tra i 100 e i mille dollari, e a livello nazionale il 44% delle transazioni è inferiore al corrispondente di 99 dollari. Le criptovalute non sembrano aver riscosso particolare successo nemmeno per quanto riguarda i micropagamenti: a livello di transazioni, solo il 3% di quelle internazionali e il 6% di quelle nazionali è inferiore a 1 dollaro. Gli acquisti C2B presso i merchant non superano i 210 dollari di media, mentre le transazioni B2B raggiungono a stento i duemila.
Bitcoin è ancora la stella polare, ma per quanto?
Nel decimo anniversario della pubblicazione del paper di Satoshi Nakamoto, Bitcoin resta la criptovaluta più usata e supportata in tutti i provider, con un numero di transazioni quotidiane che all’inizio del 2017 ha superato quota 286 mila, rispetto ai 47 mila di Ethereum, ai 3.200 di Litecoin e ai 2.600 di Monero. Tuttavia, il valore delle criptovalute non-bitcoin è cresciuto negli anni, passando dal 14% del marzo 2015 al 28% del valore di mercato totale due anni dopo. Una crescita lenta ma costante che ha interessato anche gli operatori di settore: il 36% degli Exchange ormai supporta più di due criptovalute contemporaneamente (di cui una, quasi sempre, è Bitcoin), il 31% delle aziende specializzate in criptovalute dichiara di star sviluppando progetti su più criptovalute contemporaneamente, mentre i Wallets supportano nel 23% dei casi anche Litecoin, Ether e Dogecoin, seguiti da Ripple e Dash all’8% e Monero al 4%.
I miners e la crescita delle commissioni
Da attività quasi hobbystica e alla portata di chiunque disponesse di un personal computer, il mining è diventato nel tempo una vera e propria industria professionistica e capital-intensive. Rispetto alla distribuzione globale degli operatori Exchange, Payments e Wallets, il 58% dei maggiori mining pools sono concentrati in Cina e il 16% negli Stati Uniti. La loro attività, essenziale per la sicurezza e l’esistenza stessa della blockchain, presenta tuttavia una serie di effetti indesiderati, innanzitutto per quanto riguarda l’ambiente: il consumo di energia elettrica per il solo Bitcoin è pari a 10.41 terawattora annui, pari al consumo di energia di un Paese di soli 3,3 milioni di abitanti come l’Uruguay.
Minacciati dagli effetti perversi della speculazione, dal dimezzamento del premio previsto dal protocollo, dalla crescita del costo dell’energia, da una competizione sempre più sofisticata e dalla necessità di un continuo afflusso di capitali per poter mantenere l’apparecchiatura all’altezza del fabbisogno, i miners stanno incrementando la loro dipendenza dai costi di commissione – per agevolare certe transazioni a vantaggio di altre – passati da un totale di 2,2-2,4 milioni di dollari totali nel periodo 2013-2015, a oltre 13,5 milioni nel 2016. Questo, nonostante i guadagni dei soli miners di Bitcoin siano passati da 19 milioni di dollari nel 2011 ad oltre 1,1 miliardi tre anni dopo, per arrivare a superare i 2 miliardi di dollari nel 2016, al netto della vendita di hardware, della fornitura di servizi di cloud mining e remote hosting e dell’apprezzamento di Bitcoin dell’ultimo anno.
Alla luce di questi dati, se appare comunque riduttivo paragonare Bitcoin alla “bolla dei tulipani” (come ha dichiarato recentemente il CEO di JP Morgan Jamie Dimon) nondimeno molte delle premesse che hanno accompagnato il successo mediatico delle criptovalute in questi anni – la disintermediazione delle istituzioni finanziarie, l’azzeramento dei costi, il sostegno all’ecommerce e al commercio globale, il ritorno del controllo dell’individuo sulle proprie finanze – sembrano essere ben lontane dal realizzarsi.