L’anno del “churn rate”

Secondo Deloitte il tasso di abbandono negli abbonamenti ai servizi di video streaming on demand dovrebbe raggiungere percentuali mai viste prime nel corso del 2022: flessione fisiologica o segnale di raggiunti limiti di diffusione del modello di consumo basato sull’accesso?

La proprietà è morta. L’accesso è il nuovo imperativo” scriveva nel 2018 l’ex CMO di Salesforce Tien Tzuo nel suo libro “Subscribed. Why The Subscription Model Will Be Your Company’s Future – and What To Do About IT” in cui pronosticava un avvenire di sicuro successo a quegli imprenditori capaci di costruire il proprio modello di business su un flusso di ricavi costante, prevedibile, flessibile e personalizzabile a piacere: quello, secondo lui, basato sugli abbonamenti ricorrenti, diventati fin dal principio la norma per aziende come Spotify e Netflix e di recente sempre più spesso adottati anche in altri settori come quello della mobilità, del gaming, del commercio e del giornalismo.

Oltre 150 milioni di persone potrebbero disdire un abbonamento digitale nel 2022 secondo Deloitte

Meno di cinque anni dopo dalla pubblicazione del libro, tuttavia, un report di Deloitte sembra confermare i timori già da tempo diffusi sui limiti strutturali della “subscription economy”, a partire proprio dal settore in cui opera Netflix: nel 2022 il numero di persone che potrebbero annullare un abbonamento di video streaming on demand (SVOD) potrebbe raggiungere il record di 150 milioni di utenti a livello globale, oscillando dal 35% per gli abbonati statunitensi al 25% per quelli europei, rispetto a valori medi molto più contenuti negli anni passati.

Se è vero che non esiste servizio in abbonamento privo di un tasso minimo di abbandono (“churn rate”), è altrettanto vero che i segnali dell’attuale esodo di massa sono andati più volte accumulandosi nel corso degli ultimi mesi: dalla perdita di 200 mila abbonati comunicata da Netflix nel corso del primo trimestre 2022 alla ormai manifesta incapacità dei più grandi giornali al mondo di aumentare significativamente il numero di lettori disposti ad acquistare un abbonamento digitale (se non ricorrendo a espedienti che lasciano il tempo che trovano, come nel caso dell‘acquisizione di Wordle che ha portato, momentaneamente, migliaia di nuovi abbonati al New York Times).

La “subscription economy”, più volte identificata in passato come la soluzione all’eterno problema della sostenibilità economica dei servizi digitali, è entrata ormai da tempo nella fase della “subscription fatigue” senza che fino ad oggi siano state elaborate convincenti spiegazioni del perché le persone decidano di annullare abbonamenti solo apparentemente vantaggiosi in termini di rapporto tra spesa e benefici. Non convincono del tutto, infatti, le spiegazioni di chi chiama in causa la concorrenza sempre più elevata, o l’onnipresente pirateria, e nemmeno di chi ricorda che il tempo a disposizione per consumare contenuti è di per sé limitato.

Le differenze del modello di consumo ad accesso rispetto a quello basato sul possesso

Più raramente, per non dire quasi mai, viene fatta un’analisi comparativa degli svantaggi che il modello di consumo ad accesso presenta rispetto a quello basato sul possesso: l’impossibilità di regalare, prestare o condividere alcunché al di fuori dei termini di servizio delle piattaforme, i contenuti dei cataloghi che cambiano continuamente a parità di costo di abbonamento (i film su Netflix possono “scomparire” da un giorno all’altro, così come le canzoni e i podcast su Spotify), la mancanza di una selezione editoriale adeguata che costringe alcuni utenti a lunghe ricerche prima di trovare qualcosa di interessante, la sproporzione tra la convenienza dei costi mensili e i non proprio convenienti costi a fine anno (per alcuni abbonamenti il conto può superare tranquillamente i 200-300 euro) e, non da ultimo, l’impossibilità di conservare alcunché dopo la fine dell’abbonamento.

Già, il diritto alla conservazione: a differenza di ciò che avveniva in passato con gli abbonamenti “offline” a giornali o prodotti che rimanevano nella disponibilità dell’abbonato a vita, anche in seguito al venir meno dell’iscrizione, gli abbonamenti digitali a piattaforme come Netflix e Spotify – o agli stessi giornali online – non prevedono la possibilità di conservare nulla di ciò che è stato visto, ascoltato o letto, neppure come ricordo o per necessità di lavoro. L’abbonato digitale è un cliente riverito, stimato e apprezzato solo finché continua a pagare senza soluzione di continuità: se salta una sola rata torna a essere un perfetto sconosciuto a cui – scusate la rima – nulla è dovuto, neppure dopo anni di pagamenti puntuali e altrettante manifestazioni di “fedeltà” a questa o quell’azienda.

La mancanza di trasparenza sui ricavi agli artisti e produttori di contenuti rispetto all’importo totale pagato

Vale la pena, infine, ricordare come da diversi anni a questa parte siano ricorrenti le inchieste e le domande rivolte a piattaforme come Spotify sui presunti compensi da fame ricevuti dagli artisti meno conosciuti e quotati: una mancanza abissale di trasparenza da parte di un’azienda che si è sempre posizionata “al fianco” dei musicisti – e soprattutto delle case discografiche – nella lotta contro la pirateria. Quale percentuale di un abbonamento a Spotify va agli artisti effettivamente ascoltati dall’utente? Quale percentuale dei costi di abbonamento a un quotidiano vanno a sostenere il lavoro dei giornalisti di una specifica inchiesta? Più che “fatigue”, la “subscription economy” sta scontando le conseguenze delle previsioni senza fondamento scientifico dei suoi ispiratori, della sua storica mancanza di trasparenza e della variabile natura dei prolissi “contratti” siglati con i suoi stessi utenti.

In maniera abbastanza superficiale, sulla falsariga della citazione con cui ho cominciato questo articolo, la maggior parte di coloro che si interessano del futuro di questo settore recita ancora oggi il ritornello della morte definitiva della proprietà: morte più volte annunciata e finora mai realizzata nel concreto, ma che potrebbe sopravvenire per sopraggiunta scomparsa dei modelli di consumo “proprietari” sostituiti senza colpo ferire da quelli ad accesso, nell’inerzia di consumatori, giornalisti e legislatori. La soluzione al problema del “churn” rate, in altre parole, potrebbe arrivare in futuro proprio dalla manifesta impossibilità di consumare prodotti culturali e servizi di largo consumo se non aprendo un “account” presso pochi fornitori oligopolisti: una storia che abbiamo già visto realizzarsi nel mondo dei social media, e che spero non si ripeta anche per tutto ciò che ne è rimasto al di fuori.

Immagine di copertina: Jonas Leupe/Unsplash

jacopo franchi

Autore

Jacopo Franchi

Mi chiamo Jacopo Franchi, sono nato nel 1987, vivo a Milano, lavoro come social media manager, sono autore del sito che state visitando in questo momento e di tre libri sui social media, la moderazione di contenuti online e gli oggetti digitali.

Continua a leggere…

Lascia un commento