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Le vite digitali degli altri

“The Next Billion Users” di Payal Arora, antropologa digitale e professoressa alla Erasmus University di Rotterdam, è un’indagine ricca di spunti sulle usanze e abitudini digitali degli utenti di Paesi lontani.

Ogni libro ha un suo pubblico di riferimento: “The Next Billion Users” di Payal Arora non fa eccezione ed è forse per questo che in Italia non ha ancora trovato un editore interessato a tradurlo dall’edizione originale in lingua inglese di Harvard University Press. Il saggio dell’antropologa digitale, professoressa alla Erasmus University di Rotterdam, non è infatti un libro con pretese di divulgazione universale: il suo principale destinatario sono le istituzioni profit e no-profit che sviluppano o finanziano progetti di digitalizzazione nelle aree più povere del mondo, per smentire i numerosi luoghi comuni all’origine di questi stessi progetti.

Contro la visione “ingenua” della povertà

Malgrado il titolo, il saggio di Payal Arora non è tanto un’indagine sul “miliardo di utenti” non ancora connessi alla Rete quanto una riflessione – mediata da esperienze sul campo, che ne fanno una fonte di conoscenze in parte inedite – sull’utilizzo che “l’altro miliardo” (se non più) di utenti fa del web a dispetto delle previsioni più ottimistiche e superficiali: un utilizzo per lo più di intrattenimento, dai videogame alla pornografia, dal dating alle webserie, che contrasta con la visione “romantica e ingenua” delle popolazioni svantaggiate che si servono del web unicamente per migliorare la propria condizione economica e sociale.

Secondo Payal Arora, al contrario, le testimonianze raccolte sul campo raccontano una realtà ben diversa rispetto a quella raccontata dalle più autorevoli organizzazioni profit e no-profit internazionali: l’accesso alla Rete non porta automaticamente a un miglioramento delle opportunità da parte di persone in condizioni di disagio economico e sociale, la disponibilità gratuita di smartphone e pc donati da organizzazioni no-profit non porta automaticamente a un utilizzo virtuoso di questi ultimi, i programmi software non sono in grado di sostituire la mancanza di insegnanti, giornalisti, medici nelle aree più povere e depresse del mondo. “Si pensa che i bambini poveri siano diversi dai figli dei ricchi. Più volonterosi, motivati – scrive l’autrice – ma non è così. Anche i bambini poveri usano la tecnologia prevalentemente per giocare, anziché studiare”.

Il nuovo “digital divide” tra uso ricreativo e uso produttivo della Rete

Fin qui nulla di particolarmente nuovo, almeno per me: l’insistenza di Payal Arora su questi temi, tuttavia, è un segno che molte delle iniziative di digitalizzazione dell’Occidente verso i paesi più poveri del mondo sembrano fondarsi proprio su simili presupposti errati. Secondo l’antropologa digitale, al contrario, le evidenze empiriche raccolte in anni di osservazione sul campo negli “slums” indiani e nelle favelas brasiliane dimostrano come tra l’Occidente ricco e il resto del mondo sta emergendo una nuova tipologia di “digital divide”: le popolazioni povere, emarginate, svantaggiate utilizzano il web per lo più come strumento di intrattenimento, senza avere i mezzi, il tempo e le opportunità per servirsene come strumento lavorativo o di apprendimento come i loro “benefattori” (più o meno disinteressati) si aspetterebbero.

Dai contadini poveri che si servono degli smartphone ricevuti in dono dalle ONG per guardare video porno anziché ottenere previsioni sull’andamento delle colture, agli studenti che si servono dei computer del progetto “School in the Cloud” per giocare ai videogame anziché studiare con l’aiuto di programmi di auto-apprendimento, il libro di Payal Arora ci mostra quello che i report trionfalistici e autoreferenziali di organizzazioni no-profit e benefattori di fama internazionale omettono volutamente, dopo aver raccolto e investito somme ingenti in progetti di “digitalizzazione” che avrebbero dovuto – ormai da tempo – azzerare la fame, la povertà e l’analfabetismo nel resto del mondo. Una dimostrazione di come la tecnologia, di per sé, non possa sopperire alla mancanza di altre infrastrutture – sociali, economiche e politiche – di base.

La povertà come “laboratorio” prescelto per le tecnologie digitali del futuro

Non è tutto: per quanto l’indagine di Payal Arora non possa di certo dirsi esaustiva, vista la numerosità dei contesti affrontati, dal libro emerge come le persone più svantaggiate paghino oggi la disponibilità di dispositivi e accesso gratuito alla Rete (si pensi alle iniziative come “One Laptop Per Child” di Nicholas Negroponte, o alla stessa Internet.org di Facebook) con il fatto di essere continuamente soggette a esperimenti su tecnologie pionieristiche destinate al consumo di massa. Nel capitolo “The Poverty Laboratory”, infatti, Payal Arora dimostra come numerose tecnologie siano testate su intere popolazioni nelle aree più povere del mondo senza alcun riguardo per le conseguenze di un possibile fallimento sul benessere degli utilizzatori. “La povertà è il laboratorio della Silicon Valley – scrive Payal Arora – in base al principio errato che i poveri non abbiano nulla da perdere a provare qualcosa di nuovo”.

Un monito che riguarda tuttavia non solo i programmi di digitalizzazione dei Paesi più ricchi nei confronti del Sud del mondo povero e sottosviluppato, ma che può essere utile anche a leggere in chiave critica numerosi programmi “testati” su individui e classi di popolazione svantaggiate e sottorappresentate nell’Occidente più ricco. Basti pensare alla facilità con cui ancora oggi, a dodici mesi dall’inizio della pandemia, si faccia ricorso in Italia alla didattica digitale a distanza: come se bastasse un computer e una connessione alla Rete per assicurare il diritto all’istruzione di studenti che vivono in condizioni difficili, come se i minorenni privi di rappresentanza politica e tutele di classe non avessero alcun diritto a opporsi all’utilizzo di tecnologie di lavoro e comunicazione “a distanza” mai testate prima d’ora. L’altro “miliardo di utenti”, contrariamente alle aspettative, è molto più vicino a noi di quanto siamo abituati a pensare.

L’intervento al TedX Erasmus University di Payal Arora (sottotitolato), autrice di “The Next Billion Users”
jacopo franchi

Autore

Jacopo Franchi

Mi chiamo Jacopo Franchi, sono nato nel 1987, vivo a Milano, lavoro come social media manager, sono autore del sito che state visitando in questo momento e di tre libri sui social media, la moderazione di contenuti online e gli oggetti digitali.

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