Gli eventi che hanno portato al blocco e alla successiva sospensione di Donald Trump da Twitter sono un ulteriore indizio di come la censura sui social sia strettamente legata alla tutela della reputazione delle piattaforme.
Alla fine di una lunga ed estenuante settimana è successo quello che tanti si auguravano da tempo: Twitter ha sospeso, non si sa ancora se per sempre, l’account personale del presidente degli Stati Uniti Donald Trump (@realDonaldTrump) con la motivazione di aver ripetutamente violato le policy della piattaforma relative all’incitamento alla violenza, in diretta connessione con i fatti di Capitol Hill del 6 gennaio 2021.
Twitter non aveva sospeso Trump quando dal suo account minacciava la guerra nucleare contro la Corea del Nord, non lo aveva sospeso quando incitava alla repressione violenta delle manifestazioni del “Black Lives Matter” (con la celebre espressione “when the looting starts, the shooting start”). Se due indizi non fanno una prova, la sospensione dell’account di Trump avvenuta solo oggi fornisce un ulteriore sospetto a quanti da tempo sostengono che la moderazione di contenuti da parte dei social sia strettamente legata alla tutela della reputazione aziendale.
“Cancellalo tu”, “no, prego, prima tu”
Nel giorno dell’assalto al Congresso compiuto da un manipolo di fanatici sostenitori di Trump, aizzati da quest’ultimo nel corso delle settimane precedenti sugli stessi canali social che ora lo hanno rispettivamente “sospeso” e “bannato”, Twitter e Facebook hanno dimostrato una volta di più di non seguire alcuna coerenza logica quando si tratta di moderare contenuti “sensibili” di interesse pubblico e di rilevanza globale.
Nel corso del 6 gennaio, infatti, le due piattaforme hanno preso decisioni contradditorie e copiandosi ripetutamente a vicenda: dapprima lasciando online per ore i post e tweet “violenti” di Trump, poi rimuovendo uno dopo l’altro il video in cui dichiarava il suo appoggio morale ai manifestanti (“I love you, you are special…”), e solo infine impedendogli di pubblicare nuovi contenuti, temporaneamente e sotto minaccia di un blocco “definitivo”.
La minaccia, infine, è diventata realtà: l’account Twitter @realDonaldTrump è diventato oggi, 9 gennaio, un contenitore vuoto, addirittura senza più nemmeno la foto profilo e la descrizione che ancora fino a qualche ora fa erano ancora ben visibili da tutti. Azzerato l’archivio dei tweet, azzerato il conteggio dei follower che era arrivato negli ultimi giorni a sfiorare le 90 milioni di persone: di certo non tutti reali, non tutti sostenitori.
Una censura tardiva, quindi, giustificata da Twitter con il pericolo che i tweet di Trump potessero generare altre violenze: se non potremo mai avere la prova del contrario, nondimeno è lecito domandarsi per quale motivo il divieto di incitare alla violenza non sia stato fatto rispettare nel corso degli anni precedenti, quando i tweet del presidente in carica erano altrettanto se non più forieri di violenze e destabilizzazioni nel mondo “offline”.
Mentre il video di Trump veniva rimosso, quello della donna uccisa al Congresso diventava virale
Per anni l’account di Trump ha rappresentato una fonte considerevole di traffico per Twitter, talmente proficuo da essere reso immune a qualsiasi segnalazione degli utenti: Twitter non ha mai sospeso Trump, finché l’incitamento alla violenza dei suoi tweet non ha provocato una violenza “reale” e manifesta sulla stessa piattaforma social. Nelle stesse ore in cui Trump veniva bloccato, infatti, il video dell’uccisione in diretta di una sua follower veniva condiviso più e più volte su Twitter senza alcuna possibilità di censura preventiva da parte della piattaforma.
La donna uccisa, si è scoperto poi, aveva un account Twitter pubblico (@Ashli_Babbitt) e aveva condiviso i tweet di Trump fino a pochi minuti prima della propria morte: sospendendo Trump, Twitter ha eliminato anche i tweet condivisi sul profilo della donna uccisa e il cui video è diventato improvvisamente virale. Non potendo rimuovere con la stessa efficacia il video della sua uccisione, Twitter ha optato per rimuovere quei tweet di Trump che avevano con ogni probabilità spinto una dei suoi follower a correre un rischio mortale partecipando all’assalto al Congresso.
Twitter avrebbe sospeso l’account di Trump qualora la donna uccisa non avesse ricondiviso i tweet del presidente sul proprio profilo? Lo avrebbe fatto qualora il video della sua uccisione non fosse diventato immediatamente virale? Impossibile dirlo con certezza: l’unica cosa certa di questa vicenda è che le piattaforme social hanno fatto valere la policy sui contenuti d’incitamento alla violenza solo nel momento in cui è diventato evidente il collegamento tra l’incitamento, l’invasione violenta del Congresso e la successiva morte di un utente, che aveva condiviso pubblicamente quell’incitamento sul proprio profilo.
Primum non nocere: la lezione da trarre è che è possibile per chiunque violare le policy dei social, per anni e anni, fino a quando questa violazione non arreca evidenti danni reputazionali per le piattaforme stesse. Detta altrimenti, finché il potere di amplificare un messaggio (tramite algoritmi) e il potere di rimuovere quello stesso messaggio (tramite moderatori di contenuti) saranno concentrati nella stessa azienda, nelle mani delle stesse persone, l’unica speranza di vedere applicare le policy esistenti contro l’incitamento alla violenza dipenderanno dal verificarsi di eventi brutali in seguito alla loro manifesta violazione: una prospettiva che ha ben poco di rassicurante.