Nel corso della loro ininterrotta attività di moderazione di contenuti i social media possono rimuovere anche prove di violenze, delitti e crimini di guerra. L’accusa di Human Rights Watch.
Siamo abituati a pensare che tutto ciò che viene pubblicato in Rete sia destinato a durare per sempre. Basta uno screenshot, in fondo, per conservare sul telefono la copia di un testo o di un’immagine anche dopo che quest’ultima è stata rimossa dal suo autore: eppure, in un futuro neanche troppo lontano potremmo non essere abbastanza veloci neppure per portare a termine questa semplice operazione. Già oggi i sistemi di moderazione automatica dei contenuti rimuovono post e immagini a distanza di pochi minuti dalla loro pubblicazione, rendendoli inaccessibili proprio a coloro che vorrebbero ottenerne una copia per denunciare un insulto o una violenza subita.
Il 90% dei contenuti vengono rimossi dalle piattaforme senza l’intervento dei moderatori
Tra gennaio e marzo 2020 YouTube ha rimosso oltre sei milioni di video dalla sua piattaforma e Facebook oltre 50 milioni di contenuti: nel 90% dei casi la rimozione è avvenuta in automatico, senza l’intervento di un moderatore di contenuti umano, e nel 49,9% prima ancora che qualsiasi utente potesse effettivamente vedere i contenuti oggetto di rimozione. Terrorismo, incitamento alla violenza e dichiarazioni di odio: queste le motivazioni che hanno portato alla maggior parte degli interventi di “censura automatica” secondo i dati resi disponibili dalle piattaforme stesse.
Secondo un’inchiesta di Human Rights Watch, tuttavia, tra i contenuti rimossi quotidianamente sarebbero presenti anche prove di delitti, crimini e orrori di guerra: prove condivise sui social media sia dalle vittime sia dagli autori dei delitti stessi, e che da un giorno all’altro possono diventare del tutto inaccessibili in mancanza di una copia di backup o di uno screenshot tempestivo. Le piattaforme, infatti, consentono alle autorità giudiziarie l’accesso alla copia dei contenuti eliminati solo entro poche settimane dalla rimozione di questi ultimi, negandolo tuttavia a giornalisti, familiari, attivisti e organizzazioni internazionali, anche in seguito a un’esplicita richiesta di accesso.
Le piattaforme impediscono l’accesso alle prove di delitti e crimini di guerra a giornalisti e attivisti
Gli esempi di questa continua attività di eliminazione a posteriori di contenuti politicamente e giuridicamente rilevanti sono in continua crescita: dalla rimozione dei video su YouTube che documentavano le stragi di civili nel corso di bombardamenti aerei nella guerra in Siria e in Iraq, alla rimozione dei post condivisi su Facebook dalle autorità militari birmane che incitavano alla violenza nei confronti della popolazione dei Rohingya, fino ad arrivare alle prove dell’abbattimento del volo MH17 da parte di un lanciarazzi russo scoperte dai giornalisti investigativi del gruppo Bellingcat e rimosse da YouTube e dai social pochi giorni dopo il loro inaspettato ritrovamento.
“Spiacenti, il video è stato rimosso” è il messaggio che compare oggi in 1 caso su 10 documentato da Human Rights Watch su un totale di oltre 5.000 contenuti relativi a episodi di violenza e abusi commessi in tutto il mondo, pubblicati online e in seguito rimossi a causa di un intervento di censura automatica, manuale, o per esplicita volontà del loro autore. Solo in alcuni casi gli attivisti, i magistrati e i giornalisti d’inchiesta sono riusciti a scaricare in tempo una copia dei contenuti rimossi e ripubblicarla altrove: per tutti gli altri l’accesso alla copia originale conservata nei server aziendali è stato negato, spesso senza fornire alcun tipo di motivazione credibile.
Facebook, Twitter, Google a altre piattaforme sono diventate il più grande archivio della storia dell’umanità: non per questo possono decidere autonomamente chi può avere accesso a contenuti che riguardano eventi di importanza globale come guerre, genocidi e attentati terroristici. Nessun moderatore di contenuti umano, nessuna intelligenza artificiale può avere il potere di rimuovere e rendere inaccessibile all’opinione pubblica quello che un domani potrebbe diventare una prova decisiva in sede di giudizio: la memoria storica di intere comunità non può dipendere dalle decisioni di un pugno di aziende private, tantomeno se queste non si fanno alcun tipo di scrupolo nel delegare a sistemi automatici, tuttora palesemente imperfetti, la scelta decisiva tra la verità e l’oblio.