“Grazie, non le faremo sapere”
Quanti sono i curriculum che non ottengono alcuna risposta da parte delle aziende? Eppure, non mancano oggi gli strumenti per rendere più trasparente il processo di selezione e aiutare le persone a non scoraggiarsi troppo presto.
LinkedIn, Indeed, Monster, Infojobs, Jooble: per chi si è trovato nelle condizioni di cercare un nuovo lavoro negli ultimi dieci anni i nomi di queste piattaforme suonano per lo più familiari. Milioni di candidati registrati, milioni di offerte di lavoro pubblicate ogni anno che ricevono migliaia di curriculum nell’arco di pochissime ore dalla loro pubblicazione: a chi giova, tutto questo?
Non certo ai lavoratori, né alle aziende stesse che fanno uso di questi strumenti per avere qualche possibilità in più di trovare il candidato “ideale”. Nel corso degli anni, infatti, innumerevoli articoli hanno sottolineato più e più volte le straordinarie performance del LinkedIn o Indeed di turno in termini di iscritti, di offerte di lavoro pubblicate e di candidature inviate, salvo poi rinunciare in anticipo ad approfondire la reale efficacia di questi strumenti per coloro che ne fanno uso.
Più diventa facile inviare il curriculum, più diventa difficile essere “notati”
La digitalizzazione dei processi di ricerca e selezione del personale, finora, ha seguito una strada a senso unico: moltiplicare il numero di offerte di lavoro a disposizione di ciascun candidato e la velocità del processo di invio dei curriculum, lasciando ai (pochi) responsabili della selezione l’improbo compito di individuare tra centinaia – quando non migliaia – di “cv” ricevuti il lavoratore più idoneo alle richieste dell’azienda.
LinkedIn, Indeed, Infojobs e altri non hanno reso il lavoro più accessibile: sono le singole persone a essere diventate più “accessibili” a un numero maggiore di offerte di lavoro, grazie alla presenza di algoritmi in grado di selezionare tutte le offerte per le quali si dispone di un numero minimo di competenze ed esperienze adeguate, e di segnalarle via mail in tempo reale a ciascun utente iscritto al servizio.
Lo stesso processo di candidatura è diventato oggi pressoché istantaneo: bastano pochi secondi per modificare, adattare e inviare il proprio curriculum e la propria lettera di presentazione già pre-caricata sulla piattaforma. Le modalità di candidatura “One click” di LinkedIn e Indeed incentivano questo processo, in cui è possibile perfino perdere il conto del numero delle aziende per cui ci si è candidati.
In questo senso, non sorprende oggi che il numero di curriculum che i responsabili della selezione del personale devono valutare per una medesima offerta di lavoro vada aumentando giorno dopo giorno. Non sorprende che sempre più spesso si senta parlare di “intelligenze artificiali” in grado di sostituirsi al selezionatore di turno per ridurre ai minimi termini la prima fase di selezione, quella più difficile: scegliere, tra migliaia di candidati idonei, quelli da chiamare per il primo colloquio.
Qual è il valore assegnato alle competenze, e quale il valore assegnato a tutto il resto?
Che cosa succede nei giorni immediatamente successivi all’invio del curriculum? Nessuno lo sa: non lo sanno i candidati, non lo dicono le aziende, né tantomeno le piattaforme che hanno oggi preso il posto degli intermediari tradizionali tra datori di lavoro e lavoratori. Eppure, nel momento in cui il processo di selezione iniziale avviene tramite strumenti digitali, non dovrebbe essere poi così difficile fornire dei feedback automatici che rendano trasparente il processo stesso nei confronti dei candidati.
Se oggi è possibile conoscere in ogni momento la posizione esatta di un prodotto ordinato su un sito di eCommerce (da quando viene acquistato a quando esce dal magazzino e arriva nelle mani del corriere), per quale motivo non è ancora possibile conoscere la “posizione esatta” del proprio curriculum all’interno di un processo di selezione che, almeno nelle sue prime fasi, è ormai interamente digitalizzato? Forse, perché le motivazioni che stanno alla base di questa selezione non sono condivisibili all’esterno.
Qual è oggi il “valore” delle competenze, e qual è il “valore” assegnato a una bella foto profilo, a un profilo social curato, alle risposte fornite a un questionario di valutazione delle soft skill? Non lo sappiamo: nessuno, oggi, può dire con certezza di essere stato rifiutato per via di competenze insufficienti o per una foto venuta male, per un post su Facebook che ha suscitato il fastidio del datore di lavoro, oppure per via delle proprie risposte non soddisfacenti a un questionario attitudinale basato su metodi “scientifici”.
Non si discute, qui, la validità dei singoli strumenti di selezione: per chi lavora a contatto col pubblico una presenza curata può essere ritenuta ancora necessaria in certi contesti, così come le “soft skill” rimangono centrali in un capitalismo clientelare che si basa ancora oggi più sulla capacità di curare le relazioni che non sull’effettiva conoscenza degli strumenti di lavoro… Eppure, non è ben chiaro il motivo per cui a fronte di una tale numerosità di “dati” generati durante il processo di selezione del candidato non sia possibile conoscere quello che ha determinato il fallimento della candidatura stessa. “Grazie – è la risposta implicita – non le faremo sapere”.
Dati che mancano e “best practices” da incentivare
Ogni candidato, oggi, potrebbe essere messo nella condizione di conoscere in tempo reale non solo la presenza di nuove offerte di lavoro, ma anche se il proprio curriculum è stato scaricato, per quanti secondi è stato letto, da quanti selezionatori, se i link interni al curriculum che rimandano al proprio portfolio o sito web personale sono stati cliccati, e soprattutto in quale momento esatto del processo di selezione esso è stato definitivamente scartato in favore di candidati ritenuti più idonei o semplicemente più “interessanti”.
La mancanza di dati disponibili sulle diverse fasi del processo di selezione dei candidati rende nulle, o quasi, le giustificazioni addotte dalle aziende circa le inefficienze del processo stesso: se è così ampio il “gap” tra competenze richieste e competenze effettivamente possedute dai candidati, come mai questi non vengono messi a conoscenza proprio di quelle competenze mancanti per cui sono stati rifiutati? Se sono così tanti i curriculum ricevuti e che non corrispondono all’offerta di lavoro, come mai questo dato non viene comunicato ai singoli candidati affinché essi non commettano lo stesso “errore” una seconda volta?
Sono proprio questi “feedback” – oggettivi, impersonali, automatici – che potrebbero consentire alle persone di migliorarsi e di migliorare la propria candidatura: sapere per quali motivi si è stati scartati, sapere quali competenze si potrebbero migliorare, sapere per quali offerte di lavoro non si è (o non si è ancora) adatti potrebbe portare molte persone a investire sulla propria formazione, e alle aziende a ricevere sempre meno curriculum “fuori target” e ridurre così il tempo e gli sforzi dedicati alla prima fase di selezione. Eppure, sono proprio questi riscontri così banali, così facili da ottenere, quelli che mancano di più.
Qualcosa, tuttavia, sembra muoversi. Di fronte all’inerzia delle aziende, e al timore dei candidati a far sentire la propria voce, sono oggi le stesse piattaforme digitali a incaricarsi di fornire un feedback agli utenti: Indeed comunica (talvolta) se il proprio curriculum è stato respinto, LinkedIn sollecita i datori di lavoro a fornire risposte scritte via messaggio. Forse, perché la crescita del numero di candidati “scoraggiati” per non essere stati “estratti a sorte” sta portando a una impercettibile ma continua contrazione delle performance delle piattaforme stesse, la cui innovazione si riduce ormai a una sempre più controproducente accelerazione dei singoli processi, o poco più.
Gli esempi positivi non mancano: quelli di chi risponde a tutti i candidati, di chi crea siti ad hoc dove i diversi processi vengono resi trasparenti e comunicati in tempo reale. Ma fino a quando queste “best practices” saranno lasciate alla buona volontà dei singoli datori di lavoro, fino a quando le piattaforme non obbligheranno gli autori delle nuove offerte di lavoro a rendere tracciabile e trasparente l’intero processo, le promesse della tecnologia rimarranno per sempre disattese: quella di dare a tutte le persone maggiori possibilità di successo, in virtù di una maggiore capacità di conoscere se stessi e imparare ogni volta dai propri piccoli o grandi “fallimenti”.
Foto di copertina: Jacob Lee (Unsplash)
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