Bambini e smartphone: quali rischi si corrono, cosa è giusto fare

Non esiste un’età giusta per dare il primo smartphone ai nostri bambini. Ecco quali rischi si corrono, e come comportarsi quando i più piccoli chiedono il cellulare.

Si sono presi i nostri bambini, e noi li abbiamo ringraziati per questo. Youtube, Facebook, i produttori di videogiochi, e ora anche Snapchat, Instagram e Musical.ly. Sono le prime app che i bambini scaricano e utilizzano quando viene loro dato in mano uno smartphone, sia che si tratti della versione adattata alla loro età (come avviene per Youtube Kids), sia che si tratti di app pensate apposta per i minorenni, come Snapchat e Musical.ly.

In entrambi i casi, quello che abbiamo fatto è stato credere che degli strumenti rivelatisi incapaci di censurare preventivamente i video delle decapitazioni dell’Isis, le fake news, i video ricattatori a sfondo sessuale e le esecuzioni dei narcos messicani, fossero in grado di selezionare contenuti sicuri e protetti per i nostri figli. Più che dare la colpa agli algoritmi, e alle aziende che li hanno messi a guardia dell’infanzia, forse sarebbe il caso di chiederci se siamo in grado come genitori di occuparci dei nostri figli senza la supervisione di un tutore.

Perché diamo lo smartphone in mano ai bambini

Internet non è mai stato un luogo sicuro per gli adulti, figuriamoci per i bambini. E lo scandalo che di recente ha convolto Youtube Kids, la app di Youtube pensata per i più piccoli dove sono stati scoperti cartoni animati contenenti richiami espliciti al sesso e alla violenza, è solo la punta dell’iceberg di un mondo sommerso in cui i genitori per primi hanno scelto deliberatamente di abbandonare i loro figli a se stessi. Senza essere accusati, per questo, di averli lasciati in mezzo a una strada.

Dare uno smartphone in mano a un bambino, oggi, è il modo più veloce e sicuro per toglierselo di torno: tenerlo buono, in silenzio, mentre mamma e papà vogliono dedicarsi ad altro. Ed è un fenomeno così diffuso da essere ormai tacitamente approvato da tutti: i bambini sullo smartphone non urlano al ristorante, non piangono a teatro o al cinema, non disturbano le altre persone in sala d’attesa. Rimangono dove sono, composti sulla sedia e a portata di sguardo, mentre la loro mente si perde in un mondo costruito su misura per loro e per sfruttare le loro debolezze psicologiche per generare profitto (dalle inserzioni pubblicitarie dei video su Youtube, ai videogiochi come Clash Royale dove ogni utente, solitamente giovanissimo, può spendere da qualche decine a centinaia di euro all’anno per scalare più rapidamente posizioni in classifica).

Un mondo dove gli adulti non hanno alcun interesse, e probabilmente nemmeno le capacità, di entrare davvero. Quando non sono loro stessi, i genitori, i primi a incitare i figli ad aprire il proprio account su Instagram e iniziare fin dalla tenera età ad accumulare cento, mille o diecimila follower, nella speranza di vederli un giorno recitare in uno spot come Thylane Blondeau.

Che cosa guardano i bambini sullo smartphone

Lo schermo è troppo piccolo, i video sono spesso in inglese, o sono comunque noiosi, ripetitivi, l’applicazione è difficile da utilizzare, e i bambini ci passano così tanto tempo che l’attenzione di mamma o papà viene continuamente distolta da altro: i motivi per cui un genitore può lasciare suo figlio da solo, con in mano lo smartphone, sono innumerevoli. Rassicurati dal fatto che la maggior parte dei dispositivi moderni offre la possibilità di navigare in modalità “sicura”, impedendo ai bambini di connettersi a siti osceni o scaricare app senza il consenso dei genitori, è quasi inevitabile cedere alla tentazione di lasciare loro in mano lo smartphone, o di regalargliene uno in tenera età. Ma cosa succede quando il “nemico” è già entrato in casa?

YouTube Kids, dicevamo, con i suoi cartoni animati inquietanti, o tutt’al più nonsense, è solo ciò che alcuni giornalisti e genitori più attenti hanno potuto vedere e denunciare pubblicamente. Ma che cosa vedono, di preciso, i nostri bambini quando trascorrono ore a guardare video su Snapchat, su Musical.ly, sulle stories di Instagram, app dove la maggior parte dei contenuti sono destinati a essere cancellati nello spazio di poche ore, se non minuti? Che messaggi ricevono, da parte di altri utenti? E chi sono, realmente, quelli che chattano con loro, che inviano loro denaro per premiarli e incentivarli ad esibirsi (è il caso di Musical.ly)? Non c’è modo di saperlo, se non rimanendo incollati allo smartphone per ore, insieme ai nostri figli, senza lasciarli soli un minuto: proprio quello che avremmo voluto evitare.

A che età è giusto dare lo smartphone ai bambini

Non esiste un’età minima per la quale è giusto dare lo smartphone in mano ai bambini, se teniamo conto del fatto che nemmeno gli adulti sono in grado di usare consapevolmente il web e proteggere se stessi dalle insidie di quest’ultimo. La stessa Youtube, dopo lo scandalo legato a Youtube Kids, ha dichiarato di aver rimosso nel giro di due settimane oltre 2 milioni di video e 50 mila canali a rischio: non male, per una app che si dichiara tutt’ora “made just for kids”. I contenuti a rischio sono semplicemente troppi, prodotti in ogni dove e per i motivi più disparati, per poter avere la certezza che bambini non ne vedano uno, prima o poi. Il fatto che i nostri figli siano chiusi nella loro cameretta non è più sufficienti a considerarli al sicuro: tutt’altro.

Eppure, non è facile neppure resistere alle continue richieste dei figli, nel momento in cui i loro compagni di classe e amici si ritrovano tutti su Snapchat o Musical.ly. Per proteggerli, corriamo il rischio di farli sentire degli emarginati. Per rimanere al loro fianco quando navigano in Rete, ne limitiamo inevitabilmente la spontaneità e il piacere di rimanere insieme ai propri amici. E non serve a nulla dire loro di uscire di casa e andare a giocare con i loro amici al parco: potrebbe non esserci più nessun coetaneo là fuori, ma solo macchine, sconosciuti e malintenzionati.

È impossibile tenere il web fuori dalla portata dei bambini

L’unica cosa su cui ricercatori, giornalisti, esperti, opinionisti e genitori concordano è una: prima o poi i bambini scopriranno Internet, a prescindere che i loro genitori e insegnanti lo vogliano o meno. A cinque anni vedranno accidentalmente il video di Peppa Pig decapitata, sullo smartphone dei loro genitori o su quello di un compagno di classe; a dieci anni guarderanno la loro prima scena pornografica, a casa di un amico particolarmente precoce; a quindici qualche compagno di classe stupido invierà loro un video di una rissa, o peggio ancora. Le occasioni per scoprire l’altra faccia di Internet, quella che Facebook, Snapchat e Musical.ly promettono con sfacciata sicurezza di poter tenere fuori dalla portata dei bambini, sono innumerevoli e non basta educare i propri figli a evitare questi contenuti per renderli immuni allo shock della loro “prima volta”.

Questo non può e non deve essere un motivo sufficiente per accelerare i tempi: un adolescente di quindici anni ha sicuramente più strumenti cognitivi per capire il significato di un video violento rispetto a un bambino di cinque, una ragazza di diciassette ha più capacità di riconoscere ed evitare le avances di un pedofilo rispetto a una bambina di sette. I bambini non dovrebbero essere lasciati da soli di fronte al web, allo stesso modo in cui non è permesso loro di uscire di casa non accompagnati o salire sulla macchina di uno sconosciuto nel tragitto verso la scuola.

Chi decide cosa è giusto?

I contenuti vietati ai minori sono da sempre oggetto di dibattito culturale, e a volte di vere e proprie contestazioni. Se nel medioevo i bambini erano soliti assistere perfino alle decapitazioni sulla pubblica piazza, ai primordi della televisione venivano mandati a letto non appena cominciava la programmazione serale, mentre negli ultimi anni prima di Internet non era insolito che anche i minori di dieci anni vedessero in prima serata film con contenuti violenti o con espliciti riferimenti sessuali.

Per quale motivo un bambino non dovrebbe vedere su Youtube dei video che non hanno nulla di tanto più scabroso di un film dei fratelli Vanzina? Non sarebbe un problema, se Instagram, Snapchat, Youtube fossero in grado di verificare uno per uno i contenuti che vengono pubblicati sulle loro piattaforme, adeguandoli alle fasce d’età e alle convenzioni culturali dei diversi Paesi: purtroppo per noi, non hanno nessuna intenzione, né probabilmente avrebbero i mezzi per farlo. L’infanzia è una categoria culturale, ancora prima che una condizione umana: un bambino italiano non riceve la stessa educazione di un bambino africano, un bambino sudamericano potrebbe essere turbato di fronte alle scene di un innocente manga giapponese.

Le competenze digitali si imparano anche senza lo smartphone

I genitori più restii a dare lo smartphone in mano ai propri figli spesso si trovano a fare i conti con una minaccia non scritta: che quanto più tardi i bambini inizieranno a usare i più moderni strumenti tecnologici, tanto più faranno fatica a sviluppare quelle competenze digitali oggi così fondamentali, nella vita sociale come nel mondo del lavoro. Niente di più falso: lo smartphone è solo uno dei tanti strumenti con cui accedere alla Rete, e neppure il più completo. Esistono ancora i computer, meglio ancora se fissi e collocati nel salotto di casa, attraverso cui i bambini possono essere sorvegliati passo dopo passo, o con più facilità rispetto a uno schermo di cinque pollici. Inoltre, far scoprire il web tramite device diversi tra loro aiuta i bambini a sviluppare proprio quelle competenze digitali e quella capacità di discernimento che le ore e ore passate a guardare video su Musical.ly o Youtube non possono in alcun modo fornire.

Lo smartphone, in conclusione, deve essere solo l’ultimo passaggio di un lungo percorso di educazione digitale, che comincia in famiglia e prosegue a scuola e in compagnia di altri adulti ed educatori preparati: non si può dare in mano la macchina, a chi non ha neppure imparato ad andare in bicicletta.

jacopo franchi

Autore

Jacopo Franchi

Mi chiamo Jacopo Franchi, sono nato nel 1987, vivo a Milano, lavoro come social media manager, sono autore del sito che state visitando in questo momento e di tre libri sui social media, la moderazione di contenuti online e gli oggetti digitali.

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