Conviviamo con la sgradevole sensazione di non avere mai abbastanza tempo, e di sprecare quello che abbiamo in attività di poco valore, nonostante la promessa della tecnologia sia quella di liberarci dalla sua schiavitù.
Lo straordinario successo della tecnologia digitale si fonda sulla promessa di una liberazione: dalla schiavitù del tempo.
Inviare una mail, entrare in contatto con un professionista, far vedere a tutti gli amici le foto delle vacanze, cercare nel minor tempo possibile un’informazione. Outlook, LinkedIn, Facebook, Google: l’adozione di massa di queste piattaforme digitali è la conseguenza della loro promessa di aiutarci a compiere nel minor tempo possibile tutte o quasi le nostre necessità quotidiane.
A un livello più ampio, anche servizi come il food delivery, o le piattaforme di video streaming, o i chatbot per il servizio clienti si basano sulla stessa promessa: quella di risparmiarci il tempo di andare e tornare dal ristorante, di aspettare l’uscita della prossima puntata di una serie televisiva, o che l’operatore sia finalmente libero.
Ossessionati dalla mancanza di tempo, siamo sempre alla ricerca di un’invenzione che ci consenta di risparmiare un minuto, un’ora, mezza giornata della nostra vita. La stessa prosopopea degli assistenti virtuali non è altro che l’ennesima promessa di una tecnologia universale in grado di affrancarci da tutte le piccole perdite di tempo quotidiane.
Dopo aver scoperto che non basta aumentare l’aspettativa di vita per allungare anche la giovinezza, siamo alla disperata ricerca di strumenti che ci consentano di ottimizzare il tempo a disposizione, consentendoci di compiere più azioni, più rapidamente, nel minor tempo possibile. Vogliamo vivere più vite in un una, e corriamo il rischio di non viverne – bene – nessuna.
Molti di noi convivono infatti con la sgradevole ma ricorrente sensazione di sprecare il tempo guadagnato grazie alla tecnologia in attività poco gratificanti, a lungo andare noiose, senza riuscire mai a dedicarsi a quello che vorremmo fare realmente.
È come se, da un certo momento, non potessimo fare a meno di restituire alla tecnologia il tempo che questa ci ha permesso di guadagnare: inviamo più messaggi di prima grazie a Whatsapp, rispondiamo a un numero crescente di mail, trascorriamo molto più tempo di prima a confrontare tra loro prezzi e offerte grazie ai siti di comparazione.
Questo, quando non perdiamo semplicemente tempo scrollando all’infinito la home di Facebook, le offerte su Amazon, i canali del digitale terrestre, sentendoci segretamente in colpa per star “sprecando tempo“, eppure convinti di non averne comunque abbastanza per dedicarci a quello che vorremmo fare realmente: è colpa nostra? O del modo in cui quelle tecnologie sono state progettate, per tenerci più tempo possibile al loro interno? Forse, di nessuno dei due.
«Le norme temporali – scrive Hartmut Rosa, nel suo saggio “Accelerazione e alienazione” – sebbene siano le norme dominanti della società – basti pensare al fatto che l’educazione è quasi tutta assimilazione di norme temporali – e siano chiaramente costrutti sociali, non si presentano in una veste etica e neppure come norme politiche, ma come fatti nudi e crudi, come leggi della natura che non è possibile mettere in discussione e contrastare. Non c’è dibattito politico o morale sul potere delle scadenze e i dettami della velocità».
Il tempo non è mai abbastanza nel momento in cui consideriamo la velocità (intesa come rapidità d’esecuzione) quale misura principale dell’efficacia non solo delle tecnologie, ma di noi stessi “potenziati” dalla tecnologia. Ci sentiamo in colpa per non essere abbastanza veloci a fare qualcosa, nonostante la possibilità di poterci servire di tecnologie considerate tra le più avanzate della Storia umana.
Non abbiamo il coraggio di dedicarci ad attività più lunghe del volgere di un giorno, perché sappiamo che non potremmo né accelerare la loro realizzazione, né essere sicuri in partenza di non fare fiasco: scrivere un romanzo, cambiare mestiere, imparare uno strumento, cercare nuove amicizie sono attività che danno un significato alla vita, eppure non possono (ancora) essere accelerate dalla tecnologia. Resistono, malgrado numerosi tentativi di semplificazione, all’imperativo della velocità.
Il “tempo libero“, quale spazio in cui esercitare la nostra autonomia e il nostro bisogno di autorealizzazione, trascorre così inutilmente, nella rinuncia. Ritenuto troppo poco per poter fare – in maniera accelerata – quello che veramente vorremmo fare, è tuttavia troppo per essere speso – come quasi sempre facciamo – in piccole gratificazioni istantanee, senza provare una fastidiosa sensazione di spreco, perdita, vuoto.
Forse, anziché sentirci in colpa di aver perso tutto il pomeriggio su Facebook, sarebbe il caso di ripensare al momento in cui abbiamo rinunciato a tutte le possibili alternative.