La Smart Home ha un problema di comunicazione

Frigo intelligenti, robot aspirapolvere, termostati connessi, assistenti tuttofare: al CES 2017 di Las Vegas prodotti e soluzioni per la Smart home sono apparsi in grande spolvero. Lo stesso non si può dire della loro strategia di comunicazione. Ne ho parlato con Gabriele di Matteo, giornalista, anchorman e navigato esploratore delle più avanzate frontiere della tecnologia.

Alzi la mano chi non ha mai desiderato dare la buonanotte al proprio frigorifero. È con questa domanda che potrebbe d’ora in avanti iniziare un qualunque evento del CES di Las Vegas dedicato alle soluzioni tecnologiche e ai prodotti per la smart home, mercato da 83 miliardi di dollari nei soli Stati Uniti nel 2017 (stime Juniper Research).

Il settore della smart home sta diventando il fulcro nello sviluppo del nuovo ecosistema Internet Of Things, nel momento in cui la casa non diventa più solo un ambiente dedicato alla vita privata e agli affetti, ma si trasforma in ambiente di lavoro (con la diffusione del ricorso allo smart working nelle aziende) e in fonte di reddito alternativa (grazie al successo di piattaforme come AirBnb).

Gli utenti scelgono un prodotto in base alla sua semplicità e alla sua capacità di creare un benefit o un risparmio, e che faccia guadagnare tempo e spendere meno denaro. Questi oggetti intelligenti diventeranno di massa quando la gente capirà che i vantaggi sono numerosi e rivolti ad una migliore qualità della vita” è l’opinione di Gabriele Di Matteo, giornalista e divulgatore, tra i più primi a scrivere un libro dedicato alla smart home in italiano (“Dialogo tra una lavatrice e un tostapane”, Hoepli editore).

In questo contesto in rapida evoluzione la casa connessa torna a essere quello che era un secolo fa per i nostri nonni in campagna: il centro della vita stessa, microcosmo autarchico e gerarchicamente disciplinato, con la sola differenza che i compiti svolti dalla servitù, o dagli inabili al lavoro (donne, bambini, anziani) ora sono interamente demandati a una pletora di oggetti intelligenti, robot aspirapolvere, termostati scrupolosi, coordinati da un’entità centrale che prende ordini, risponde ai comandi ed è in grado di assolvere con largo anticipo alla maggior parte delle necessità quotidiane di una famiglia.

Benvenuti, dunque, nell’era in cui gli oggetti ci ascoltano (come recita un azzeccatissimo titolo di Wired).

Le avventure della famiglia “Mulino Bianco” nella casa connessa

Non c’è bisogno di scomodare Ray Bradbury per immaginare cosa potrebbe succedere alle nostre case connesse una volta che noi non ci saremo più. Non è il timore di un futuro lontano a ispirarmi, ma il presente, nella misura in cui le smart home sono ancora appannaggio di una fetta ridotta della popolazione e la loro storia è ancora tutta da scrivere.

A guardare gli spot che circolano su Youtube, anche quelli commissionati dai più importanti player del settore, infatti, viene infatti da chiedersi se non sia proprio la comunicazione il principale ostacolo (dopo il prezzo) alla diffusione degli oggetti connessi. La causa? Una visione della famiglia anacronistica, nella migliore delle ipotesi, e nella peggiore il reiterato scopo di far apparire come umani oggetti di per sé già fin troppo “intelligenti”.

La famiglia del Mulino Bianco? Anni luce avanti rispetto a certe ambientazioni famigliari degli spot di Samsung o LG, ma anche degli ultimi arrivati come Hubble Connected. Storielle pubblicitarie che hanno come protagonisti l’immancabile papà giovane e riverito, la figlia bionda e ingenua, il maschietto iperattivo e con un precoce disturbo di attenzione, e la madre sapiente e riflessiva, che guarda con affettuosa comprensione alle stramberie degli altri membri della famiglia, sollevata com’è dal non dover essere più lei la sola a pulire o a rimettere in ordine grazie al puntuale intervento degli oggetti intelligenti.

Come ogni plot narrativo di matrice ingegneristica che si rispetti, nella maggioranza dei video spot dedicati alla smart home c’è sempre un capo autorevole ma non operativo (il papà), i junior che svolgono il lavoro sporco di istruire a dovere la macchina con innumerevoli trial-and-error (i figli, così digitalmente nativi nel loro rivolgersi a un robot come se si trattasse di una babysitter in carne e ossa), e un executive manager (la madre) che si muove a tempo debito per assicurarsi che il processo (aggiungere e togliere il bucato, richiamare all’ordine il robot aspirapolvere o controllare le richieste del frigo intelligente) non vada incontro a un’impasse fatale.

Per non parlare di Sleep Number 360, il letto intelligente, il cui spot è degno delle migliori televendite di Giorgio Mastrota.

Siamo ancora ai graffiti sulle pareti della grotta. Il mondo IoT nel mercato consumer è un un tema nuovissimo, quasi esoterico, figuriamoci la comunicazione e il suo marketing – commenta Gabriele Di Matteo – Entrare nell’immaginario del cinema o nella letteratura sarà una inaspettata “conseguenza”. Se la Guerra del Vietnam non ci fosse mai stata, ha scritto qualcuno, mezza Hollywood sarebbe rimasta disoccupata. Un paradosso che però ci dice una cosa fondamentale: il cinema, come una spugna, assorbe fatti delle società che hanno colpito l’attenzione di milioni, forse miliardi di persone. Quindi all’IoT toccherà attendere ancora qualche generazione”.

Non c’è da sorprendersi se tanto successo ha avuto Amazon Echo, il cui spot è ben più in linea con lo spirito del tempo nell’accompagnare discretamente nel corso della sua lunga giornata una giovane ragazza di colore, single, creativa, perennemente di corsa, un hipster in avanti con gli anni, e una coppia borghese senza figli. O il nuovo Google Nest, termostato intelligente, che ha esordito su Youtube in compagnia di una famiglia decisamente non convenzionale, dove il bambino si prepara a diventare un futuro terrorista ambientalista e la bambina dimostra una spiccata propensione a sfuggire dal controllo ossessivo degli “helicopter parents”.

In una casa dove ogni gesto potrebbe essere teoricamente monitorato da telecamere e registratori intelligenti, i pubblicitari di Amazon e Google hanno capito per tempo che non c’è bisogno di ricorrere a una visione gerarchica e repressiva della famiglia. Basta un programma memorizzato per spegnere il televisore e le luci della cameretta a tempo debito.

[youtube https://www.youtube.com/watch?v=24Hz9qjTDfw&w=560&h=315]

Perché aiutare l’uomo, se puoi sostituirlo?

Per quanto lo storytelling di certe aziende tecnologiche sia chiaramente ispirato da una visione più libertaria delle relazioni famigliari, l’aspetto più propriamente distopico di certi video è la ricorrente celebrazione della sostituzione dell’umano da parte dei robot.

Un conto è impartire comandi vocali a un oggetto, azione non più di tanto impensabile fino a poco tempo fa se ci ricordiamo certe bestemmie urlate all’indirizzo dell’auto ferma per un guasto o a certi processori Pentium II improvvisamente in stallo nel bel mezzo di un videogioco avvincente. Tutt’altra prospettiva si apre qualora ci mettessimo a salutare e dare la buonanotte al nostro assistente virtuale.

L’umanizzazione degli oggetti intelligenti che la pubblicità vorrebbe farci accettare come modello verso cui tendere, seppur in alcuni casi riesca ad essere perfino divertente (vedere gli spot di Bosch e di Vorwerk), nondimeno è un attributo potenzialmente respingente per quella stragrande maggioranza di persone che non hanno bisogno di un’Azuma Hakiri per ovviare all’assenza di una mogliettina servizievole e chiusa dentro una teca di vetro.

Umanizzare l’oggetto connesso, nel momento in cui quest’ultimo è progettato non solo per aiutare l’uomo nei suoi compiti ma per sostituirsi interamente a lui o ai suoi aiutanti, potrebbe non rivelarsi una buona idea dal punto di vista delle vendite. Soprattutto se l’assistente virtuale o il frigo intelligente non agisce come un discreto servitore che si mantiene in disparte, ma come il centro della vita famigliare e un interlocutore alla pari (quando non superiore, perché dotato di una conoscenza infinitamente più grande) dei membri della famiglia: quale padre vorrebbe competere con la sterminata conoscenza storica, matematica e sportiva di un assistente virtuale, di fronte alle domande di suo figlio?

jacopo franchi

Autore

Jacopo Franchi

Mi chiamo Jacopo Franchi, sono nato nel 1987, vivo a Milano, lavoro come social media manager, sono autore del sito che state visitando in questo momento e di tre libri sui social media, la moderazione di contenuti online e gli oggetti digitali.

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