Vai al contenuto

Airbnb: può un’azienda, da sola, combattere il razzismo?

A partire dal primo Novembre 2016 tutti i membri della community di Airbnb devono sottoscrivere una “impegnativa” formale contro ogni tipo di discriminazione nei confronti di chi riserva una stanza o un appartamento tramite la piattaforma: ma è plausibile pensare che un’azienda della sharing economy possa, da sola, contrastare un problema tanto diffuso quanto secolare come le discriminazioni razziali? Sì, ma a patto di trovare soluzioni che siano percepite come condivise da parte di tutta la community.

La filter bubble? Non è prerogativa dei social media, o perlomeno non più nel momento in cui le piattaforme digitali della sharing economy fanno propri e replicano modelli di costruzione dell’identità digitale già sperimentati con successo dai social; e dunque utilizzo del proprio nome e cognome reale, autoritratto fotografico al posto dell’avatar, aggiunta di informazioni biografiche verosimili e conferme incrociate tra pari.

“Le piattaforme della sharing economy replicano le tecniche

di costruzione di identità digitale già consolidate dei social media”

Quanto più l’identità digitale nasce come diretta prosecuzione di quella reale, tanto più essa tende ad accentuare e stressare certi comportamenti e abitudini cui l’individuo “reale” non aveva mai prestato sufficiente attenzione: ancor più quando lo scambio da cui nasce la relazione con l’altro non poggia su qualcosa di astratto, come una generica “amicizia”, ma la condivisione di una parte della propria vita privata, sia esso l’appartamento, la macchina, un oggetto che rispecchia la nostra quotidianità. Come sui social, più dei social, siamo portati ad accettare più facilmente la condivisione di un bene con chi già condivide qualcosa con noi: l’età anagrafica, un interesse, una lingua, una cultura… fino al colore della pelle, per i meno evoluti.

Detto altrimenti: non si può mai essere certi di non essere razzisti, fino a quando non ci si trova ad accettare o meno la prenotazione di un posto letto nella propria casa su Airbnb da parte di una persona che ha un colore della pelle diverso dal nostro.

Studi recenti hanno dimostrato come su Airbnb le persone di colore tendano a essere parzialmente svantaggiate nei confronti di quelle di pelle chiara, sia che si trovino nella posizione di guest ( -16% di possibilità di trovare un alloggio, secondo una ricerca Harvard Business School del 2016) sia che si trovino nella condizione di host ( -12% di profitti a parità di alloggio rispetto agli host di pelle chiara, secondo una ricerca del 2014). Al punto che sono nate diverse piattaforme simili ma riservate solo a persone di colore, come Noirebnb, creata da una vittima di discriminazione su Airbnb, poi confluita nella più generica Innoclusive, ora in fase beta. Quest’anno, inoltre, Airbnb ha affrontato la sua prima causa per discriminazione, intentata dall’afroamericano Gregory Seldon contro la piattaforma.

Airbnb non è la sola piattaforma di sharing economy a dover fare i conti con il razzismo strisciante della propria community: secondo uno studio pubblicato questo mese dal National Bureau of Economic Research, su oltre 1.500 corse realizzate tramite le piattaforme Uber e Lyft a Seattle i tempi di attesa dei passeggeri di colore sono del 35% maggiori rispetto ai tempi di attesa dei bianchi, mentre a Boston i driver cancellano le corse prenotate da passeggeri di colore due volte più frequentemente rispetto a quelle prenotate dai bianchi.

“Il problema della discriminazione razziale riguarda tutte

le più importanti aziende della sharing economy”

La strategia di Airbnb contro la discriminazione razziale tra host e guest è cominciata ufficialmente questo mese, con la sottoscrizione di un “Impegno” da parte di tutti i membri della community a rinunciare a ogni azione discriminatoria nei confronti degli altri utenti.

Come spiegato approfonditamente in un report pubblicato su airbnb.com, nei prossimi mesi verranno messe in atto una serie di iniziative volte a circoscrivere i casi di discriminazione: tra queste ricordiamo la creazione di un team di ingegneri e data analyst specializzato, l’implementazione delle prenotazioni istantanee senza preventivo assenso dell’utente (“Instant Book”), l’attivazione di un servizio di supporto per aiutare le vittime di discriminazione a trovare in tempo una sistemazione alternativa (“Open Door”), training online rivolti a host e dipendenti e la riduzione della dimensione delle foto profilo degli utenti, a tutto vantaggio di altre informazioni utili a distogliere l’attenzione dal colore della pelle. Azioni tutt’al più palliative di un disturbo diffuso, ma inadatte tanto a prevenire quanto a reprimere la discriminazione.

“Airbnb si trova in un momento delicato della sua storia,

e ha bisogno di tutta la massa critica dei suoi utenti per sopravvivere”

Airbnb si trova tutt’ora in una fase molto delicata della sua storia non ancora decennale. Giunta in pochi anni a una valutazione di oltre 30 miliardi di dollari, con una presenza capillare in oltre 190 Paesi del mondo, Airbnb si ritrova a dover fronteggiare resistenze locali che mettono in serio pericolo i suoi profitti nelle città più popolose e redditizie del pianeta: da ultimo, la legge approvata dal governatore di New York Andrew Cuomo che prevede consistenti penali per chi affitta interi appartamenti per meno di 30 giorni. Prima di New York altre metropoli hanno sbarrato la strada all’espansione di Airbnb, come Berlino, dove è necessario richiedere un permesso per affittare più di metà del proprio appartamento, o Londra, dove il limite massimo di affitto è di 90 giorni all’anno in assenza di permesso dell’autorità.

In questo senso, l’iniziativa di Airbnb contro le discriminazioni razziali si iscrive da un lato nella strategia volta ad accrescere il numero di transazioni sulla piattaforma, al fine di raggiungere una massa critica di utenti grazie alla quale negoziare più agevolmente un compromesso con i legislatori locali, dall’altro  appare come una diretta e inevitabile conseguenza di successive indagini compiute da entità terze che hanno per prime svelato le discriminazioni in atto e messo in discussione la reputazione di cui gode la piattaforma, per non dire delle denunce dei singoli utenti finite in tribunale.

“Non si tratta più ‘solo’ di consolidare la fiducia tra pari,

ma di crearla tra chi non si è mai considerato tale”

Per una piattaforma che ha costruito il suo successo sulla creazione di un vincolo di fiducia tra estranei, la lotta alla discriminazione razziale appare come una sfida tanto vitale quanto epocale. Fintantoché esisteranno discriminazioni, Airbnb non potrà mai realizzare la sua mission originaria di far “sentire chiunque come a casa, ovunque egli vada”.

Se il sistema di recensioni attuale ha funzionato bene fintanto che si trattava di ridurre l’asimmetria informativa tra host e guest, esso non sembra più sufficiente a contrastare una asimmetria generata da anni, se non decenni, di messaggi xenofobi e demonizzazione di determinate culture. Eppure è proprio questa asimmetria informativa dei razzisti nei confronti delle loro vittime quella su cui sarebbe necessario concentrare gli sforzi, per avere una qualche speranza di successo.

“Il razzista a cui rivolgersi è quello meno fanatico e consapevole,

che tra un bianco e un nero sceglie un bianco per semplice abitudine”

Il “razzista” che Airbnb dovrebbe contrastare è quello che rifiuta la prenotazione di una persona di colore non tanto per esplicita convinzione (su quelli, c’è ben poco da fare) ma perché tende quasi involontariamente a favorire quelle persone con cui già crede di condividere una stessa origine o cultura: in questo senso, la filter bubble connaturata a social network fortemente conservativi come Facebook si riproduce in piattaforme come Airbnb che scelgono di costruire la fiducia nei propri utenti (e, dunque, nella piattaforma stessa) sulla base del loro aspetto esteriore e della conferma dei loro pari.

Se una persona di colore è più facilmente ospitata da altre persone di colore, tenderà ad accumulare più recensioni da parte di queste ultime, e viceversa per i bianchi, di modo che la reputazione così accumulata non sarà sufficiente a farlo accettare da qualcuno che non considera le persone di colore proprie “pari”, allo stesso livello di quelle a lui più simili. Senza scomodare l’autore della Teoria del Contatto, dal punto di vista di un razzista le conferme che una persona di pelle diversa riceve dai propri “pari” non costituiscono una prova della sua affidabilità, ma semmai della sua totale diversità al proprio contesto sociale.

“Airbnb deve individuare una soluzione condivisa,

non imposta dall’alto né tantomeno rivolta a una specifica minoranza”

Oltre a una necessaria opera di educazione e sensibilizzazione, credo che vi siano spazi di manovra per poter affrontare il problema con un approccio molto pragmatico, volto se non a cambiare le mentalità dei razzisti perlomeno a indebolirne le resistenze mentali.

Il team di Airbnb si è già dimostrato in passato attento agli stimoli provenienti dall’esterno e dall’interno della piattaforma, e in grado di trovare soluzioni originali e condivise dalla stragrande maggioranza della community per ovviare alle resistenze derivanti da un modello di business “glocale” per definizione. In tal senso, Airbnb è uno degli esempi finora meglio riusciti di quelle “Self-regulatory organization” di cui parla Arun Sundararajan nel suo ultimo libro dedicato alla sharing economy.

Una self-regulatory organization non è un’organizzazione che opera senza regole, o un’entità a sé stante – scrive Sundararajan – Sono piuttosto organizzazioni dove la definizione delle regole è condivisa e dove le piattaforme sviluppano, monitorano e, talvolta, rafforzano le regole per governare il comportamento dei loro membri […] La regolamentazione si basa più sul contributo delle parti coinvolte che non sull’intervento del potere politico locale. Sono basate su diversi livelli di intervento, dal più volontaristico a quello dell’autorità pubblica, che tuttavia mantiene un ruolo limitato. Un esempio di questo tipo è quello di Airbnb, cresciuta in assenza di leggi e sanzioni uniformi in tutti gli Stati degli Stati Uniti, ma che tuttavia è riuscita a creare un sistema efficace di regolamentazione interna agli occhi di host e di affittuari

In questo senso la soluzione al problema della discriminazione nel caso di Airbnb dovrebbe consistere in un’ulteriore passo avanti nel rafforzamento della reputazione dei membri della community, ma con una strategia di comunicazione volta a far passare ogni ulteriore innovazione come un’opzione facoltativa rivolta a tutti e non a una specifica minoranza, per non accrescere ulteriormente l’isolamento e la discriminazione verso quest’ultima.

Se l’obiettivo è quello di aumentare le informazioni che i soggetti ritenuti più a rischio devono scambiare con gli altri utenti per ridurre la diffidenza preconcetta di questi ultimi, si potrebbe pensare a una sorta di secondo livello di autenticazione, percepito come più immediato e spontaneo. Ad esempio, offrendo a tutti i guest la possibilità di inviare un breve video di autopresentazione in forma privata al proprio host: un video di pochi secondi, destinato ad autodistruggersi, dove i guest raccontano sé stessi, il motivo del proprio viaggio e si rivolgono direttamente all’host chiamandolo per nome (quindi non più generico come gli attuali video profili), uscendo dalla staticità inefficace dei loro avatar pubblici. Esponendosi in prima persona, potrebbero ridurre l’asimmetria informativa che anni di pregiudizi e abitudini hanno contribuito a sedimentare nella propria controparte “razzista”. Grazie al video e al messaggio dedicato, offrono all’altro una sorta di anticipazione – rassicurante – di quello che dovranno aspettarsi dal primo contatto.

L’aggiunta della sintassi del video a un sistema di presentazioni prevalentemente statico e volutamente generico aggiungerebbe infatti tutta una serie di informazioni aggiuntive – le movenze, il proprio contesto sociale e famigliare sullo sfondo, il tono della voce, il sorriso non preimpostato – che potrebbero aiutare a ridurre la diffidenza e la spersonalizzazione attuata dalla controparte, dando però a quest’ultima tutto il tempo di valutare la credibilità del mittente e rendersi conto che anche l’altro, il “diverso”, non è poi così diverso dall’ultimo ospite che è uscito di casa voltandosi un’ultima volta per salutarli.

Nel momento in cui raggiungono una determinata massa critica di utenti, le piattaforme digitali sono in grado di modificare gradualmente e consapevolmente i comportamenti delle persone, sulla base di impercettibili innovazioni di processo.

I sentimenti e le convinzioni alla base del comportamento razzista dei più sono spesso derivanti dall’ignoranza e dalla paura di ciò che non si conosce: resistenze psicologiche che tuttavia vengono meno quando in ballo c’è l’opportunità di un guadagno economico e un sistema consolidato volto a fornire rassicurazioni reciproche alla controparte.

In questo senso se Airbnb non può ragionevolmente essere lasciata da sola a contrastare le discriminazioni, nondimeno la sua posizione ormai predominante quale intermediario di scambi economici la porta inevitabilmente a diventare il più papabile luogo di contatto e di scambio tra persone di culture diverse. Fin dall’alba dei tempi, civiltà altrimenti lontane e diversissime tra loro si sono incontrate grazie al commercio e alla creazione di zone franche di scambio: in questo senso, se la sharing economy vuole realizzare tutto il suo potenziale non può prescindere dal contrasto e marginalizzazione dei comportamenti discriminatori. Non fanno bene alla società, e nemmeno all’economia.

1 commento »

Rispondi

Inserisci i tuoi dati qui sotto o clicca su un'icona per effettuare l'accesso:

Logo di WordPress.com

Stai commentando usando il tuo account WordPress.com. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto Twitter

Stai commentando usando il tuo account Twitter. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto di Facebook

Stai commentando usando il tuo account Facebook. Chiudi sessione /  Modifica )

Connessione a %s...