Anche la gig economy ha un’anima

Il prossimo 27 ottobre il sito di PizzaBo chiuderà ufficialmente dopo sei anni di onorato servizio, come ultima tappa verso la definitiva fusione con un’altra società concorrente: la pacifica protesta degli utenti sui social è tuttavia rivelatrice di un diverso modello di sviluppo del food delivery in Italia.

Vogliono trasformare quel piccolo grande sogno locale in una realtà di massa ed internazionale.. Allora uniamoci la sera di mercoledì 26 ottobre nell’ultimo grande ordine alla NOSTRA Pizzabo!” si legge nel post di lancio dell’evento Pizzata di addio e di protesta per Pizzabo, organizzata da un giovane neolaureato di Bologna, che ha coinvolto online già oltre cinquemila persone tra il capoluogo bolognese e il resto d’Italia, suscitando l’interesse di più di un giornale locale.

Lo scopo dell’evento, dichiara l’organizzatore, è unicamente quello di “sensibilizzare lo staff di JustEat [la società che ha acquisito PizzaBo dal precedente acquirente, Rocket Internet NdR] nel prendere in considerazione l’idea del mantenimento del doppio marchio, almeno per quanto riguarda la città di Bologna”.

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Le ragioni di una simile mobilitazione – non solo digitale – per quella che in fin dei conti è stata “solo” un’azienda di food delivery? Aldilà delle considerazioni sulle differenze tra una piattaforma e l’altra, PizzaBo è un marchio che per molti giovani e giovanissimi si associa indelebilmente ai momenti più belli degli anni universitari: un pretesto di serate brave, notti insonni sui libri e occasioni di contatto tra coinquilini e perfetti sconosciuti.

Se PizzaBo non può essere considerata propriamente un’azienda da gig economy – come vedremo nei paragrafi seguenti – la sua parabola e il suo compianto decesso sollevano interrogativi che altre aziende basate su un modello di business comparabile dovrebbero tenere in considerazione.

Prima di scambiare due chiacchiere con l’autore dell’evento, una breve premessa: PizzaBo era nata nel 2010 a Bologna da un’idea di Christian Sarcuni, giovane studente di Matera laureato nel 2005 all’Alma Mater in Scienze di Internet. Registrata come società nel 2012, PizzaBo ha raggiunto nel 2015 1,1 milioni di ordini, più di 300 ristoranti e 240 mila persone registrate, prima di essere venduta a Rocket Internet e da quest’ultima a Just Eat.

Rispetto ad altre aziende attive nel food delivery, PizzaBo non ha mai gestito direttamente la logistica delle consegne: alla base del suo successo vi era un dispositivo consegnato alle pizzerie per segnalare in tempo reale un ordine in arrivo, oltre a numerose altre feature e sconti riservati agli utenti di cui solo una parte è stata ereditata da Just Eat.

In questo senso, PizzaBo ha alimentato solo indirettamente la cosiddetta “gig Economy” o economia dei lavoretti, in quanto erano pur sempre i locali di ristorazione a remunerare direttamente i fattorini: eppure, è logico inquadrare PizzaBo come un cugino minore di piattaforme di delivery tutt’ora attive come Just Eat o la  tanto contestata Foodora, che hanno fatto della gestione diretta e perfezionistica della logistica in ambito food il proprio core business.

Mi sono accorto dell’insoddisfazione degli utenti leggendo i commenti sulle pagine Facebook di Just Eat e PizzaBo – mi racconta al telefono Marco Tosatto, bolognese, neolaureato in comunicazione allo IED e autore dell’evento su Facebook in onore di PizzaBo – ho provato a cavalcare quest’onda di malcontento creando l’evento, pur senza avere nulla in principio contro Just Eat, ci tengo a sottolinearlo. PizzaBo è un’azienda che abbiamo sentito come nostra, fortemente legata al personaggio medio bolognese. La stessa grafica del sito, non di alto livello, rispecchiava pienamente i valori di vicinanza e di familiarità del brand. Stiamo parlando di una realtà che ha accompagnato noi studenti universitari in qualsiasi tipo d’esperienza, tanto che molte persone hanno condiviso spontaneamente i loro ricordi legati a PizzaBo nella pagina dell’evento”.

Tra quanti hanno lasciato la loro testimonianza su Facebook anche Giovanni Gradilone, ex-dipendente di PizzaBo licenziatosi a seguito della vendita: “Pizzabo.it, il suo brand, la sua anima, il suo ufficio, i suoi dipendenti e fondatori non formavano una azienda, ma una famiglia – ha scritto Gradilone, raccontando una storia che per molti versi ricorda quella tipica di altre realtà imprenditoriali famigliari italiane – Ogni lavoratore dal più alto dei manager a quello con mansioni più semplici era trattato nello stesso modo. Anche se non c’ero spesso, ricordo che l’ufficio a volte era un caos; le luci che restavano accese fino a notte non erano li per un bramoso desiderio di profitto, ma per la sola passione in quello che stavamo facendo.  Non sono tanto utopico da pensare che ogni azienda debba poggiare su questi valori, ma il fatto che se ne perda una cosi fa male, oltre al cuore, anche al nostro mondo del lavoro che ha bisogno proprio di queste realtà per risollevarsi”.

Lo stesso founder di Pizzabo, Christian Sarcuni, è entrato in contatto con Tosatto per far sentire il proprio supporto all’evento: “quando abbiamo deciso di cedere la proprietà – non a Just Eat – ci era stato promesso il pieno supporto finanziario e la completa autonomia decisionale rispetto al progetto. Al contrario, dopo un breve bagno d’entusiasmo, ci siamo trovati a dover lottare per tenere a galla la barca ed evitare il naufragio, per amore del progetto e soprattutto di quanti vi hanno contribuito “.

Come confermato da Arun Sundararajan nel suo ultimo libro “Sharing Economy – The rise of crowd-based capitalism” “le persone stanno iniziando ad accettare che nei servizi loro resi ci possano essere alcune imperfezioni”: in cambio di un prodotto e di un servizio percepito come maggiormente genuino e personalizzato, certe imperfezioni nella logistica o una certa artigianalità nella grafica dei siti non costituiscono più un elemento penalizzante. A far la differenza è unicamente il livello di fiducia che le piattaforme riescono a raggiungere in quanto intermediari.

PizzaBo deve il suo successo (e il valore attribuitole da Rocket Internet con l’acquisizione) all’essere stata percepita come un’azienda non tanto innovativa o perfezionista, ma nata “dal basso” e strettamente legata a un territorio e a una popolazione con esigenze specifiche, quale quella universitaria.

Il malcontento degli utenti non nasce dunque dalla vendita, ma dal timore di un venir meno di quelle caratteristiche che avevano reso così peculiare PizzaBo: tra queste, l’identificazione con una città e una community, quella di studenti universitari fuorisede con poche pretese economiche, che in quella particolare città trova la sua massima espressione.

Ne consegue che anche le altre aziende di food delivery, direttamente o indirettamente responsabili della proliferazione della cosiddetta “gig economy”, hanno a disposizione due diverse strategie di crescita: accreditarsi presso i consumatori puntando tutto sull’efficienza e la spersonalizzazione del servizio di consegna, oppure posizionarsi come facilitatori di relazioni e di scambi di una comunità territorialmente e culturalmente definita.

L’innovazione, quando c’è, toglie sempre valore da una parte per aggiungerlo dall’altra.

jacopo franchi

Autore

Jacopo Franchi

Mi chiamo Jacopo Franchi, sono nato nel 1987, vivo a Milano, lavoro come social media manager, sono autore del sito che state visitando in questo momento e di tre libri sui social media, la moderazione di contenuti online e gli oggetti digitali.

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