La vicenda della giovane ragazza francese suicidatasi in diretta su Periscope deve farci riflettere sul destino della nostra eredità digitale e il diritto all’oblio eterno, dopo la fine della nostra esistenza.
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Diciannove anni, una vita davanti, e l’eternità raggiunta filmando la propria morte in diretta su Periscope. Questa è la storia di Océane, una ragazza francese che viveva nei dintorni di Parigi che ha trasmesso in diretta le ultime ore prima del suo suicidio e si è filmata nell’atto di buttarsi sotto un treno.
La diretta su Periscope, seguita e commentata da centinaia di persone, chi più chi meno consapevole di quanto stava succedendo, si è conclusa con l’intervento di un poliziotto che ha raccolto il cellulare scivolato dalle mani di Océane nell’impatto con il treno e ha chiuso – senza pensarci due volte, o informare quanti si trovavano dall’altra parte dello schermo – la trasmissione.
Un gesto per sua natura così banale ha assunto in questa circostanza due significati: certificare la morte di Océane quale persona fisica, e rendere immortale la sua persona digitale sottraendola al controllo di chi, famigliari e amici, dovrebbe esserne il legittimo erede.
Océane ha scelto il modo di morire, non il modo in cui la sua morte (e la sua vita) sarebbe stata raccontata e ricordata: di sicuro, non avrebbe mai voluto che sulla sua tomba vi fosse scritto in eterno e a caratteri cubitali il motivo della sua morte. Quello che, al contrario, è successo alla sua – se vogliamo chiamarla così – sepoltura virtuale. Di gran lunga più visitata di quella reale, come ormai succede a tutti i profili Facebook di coloro che sono morti prematuramente.
Quella di Océane potrebbe essere, fatte le debite proporzioni, la stessa fine di chiunque di noi a distanza di molti anni dalla nostra morte: nessuno di noi, credo, sarebbe felice di essere ricordato per quello che ha pubblicato su Facebook . Eppure questo è quello che ci aspetta.
I social media non istigano al suicidio, ma…
Océane se n’è andata nella maniera più disturbante possibile per chi ha assistito alla sua diretta su Periscope. Ha reso la propria morte uno spettacolo e ha condiviso con altri sconosciuti il proprio dolore fino alle estreme conseguenze. Ma questo non spiega del tutto il motivo per cui la morte di una persona in diretta sulla Rete provochi ancora oggi un’eco così importante.
La vicenda di Océane è paradigmatica di un nuovo modo di intendere la morte ai tempi di Internet e dei social media. Océane è solo l’ultima di una serie di adolescenti divenuti famosi, post-mortem, per avere filmato in diretta il proprio suicidio o perlomeno la preparazione che li ha portati a compiere il gesto estremo. Talvolta aizzati dalla folla, da quel pubblico di fan e followers che non sempre capisce la gravità del gesto e non sempre agisce con le migliori intenzioni; più spesso, anzi, questi ragazzi muoiono nonostante i tentativi disperati di qualche conoscente o sconosciuto caritatevole di dissuaderli o di contattare la polizia.
I social media non istigano al suicidio, in molti casi possono anzi contribuire sventarne più di uno (si veda la vicenda di Demi Moore a riguardo), ma è inevitabile pensare che i suicidi in diretta sui social media potrebbero non essere avvenuti in quel modo e in quel tempo se gli aspiranti suicidi non avessero avuto dall’altra parte la consapevolezza di un pubblico, giudicante, che li osservava.
Se l’identità digitale di ciascuno di noi è un risultato della coerenza tra il dire e il fare, personalità già deboli in partenza o traumatizzate potrebbero avere più scrupoli di altre a desistere dal desiderio di farla finita, dopo averlo espressamente dichiarato a un pubblico di fan e follower in mondovisione. Senza capire che il loro ultimo gesto è anche quello che definirà per sempre la loro esistenza nei ricordi di quanti non li hanno conosciuti davvero.
Il Grande Fratello, ma non quello di Orwell
Se si guardano i video pubblicati da Océane la mattina del suicidio, mentre è ancora seduta placidamente sul divano di casa, non si può non notare una certa analogia con una trasmissione molto in voga negli anni passati (e, purtroppo, ancora adesso): il Grande Fratello. E non è un caso che certi social media, Twitter in primis, debbano buona parte del loro successo alla riproposizione su scala globale di format popolari tipici della televisione precedente alla diffusione del web.
Al contrario di quanti pensano che la comunicazione sui social sia sempre bidirezionale, nella maggior parte dei casi – e Periscope non fa eccezione – quest’ultima assume più spesso le forme del “confessionale” del Grande Fratello, come tutti gli utilizzatori attivi di Periscope possono testimoniare.
Océane è sola in casa, è sola davanti allo schermo, e lo resterà fino all’ultimo istante del suo ultimo giorno. Si confessa di fronte a un video, dove sa che gli altri possono vederla ma che lei non può vedere. È sola, Océane, di fronte a un numero imprecisato e variabile di ora in ora di sconosciuti che la bombardano di domande, prese in giro, messaggi, dimostrazioni di affetto, richieste di spiegazioni.
In una parola, è l’oggetto di un giudizio inappellabile che lei stessa ha richiesto. Un giudizio che si cristallizzerà per sempre dopo la chiusura della diretta da parte dell’ignaro poliziotto.
Ed è questo giudizio condiviso e inappellabile, aperto a una molteplicità di soggetti, elevato dalla logica stessa dei motori di ricerca e dei social media a ultima parola sulla vita di una persona, quello che realmente spaventa del suicidio di Océane.
Perché la ragazza, troppo giovane per pensare a tutte le conseguenze della propria morte, ha condannato se stessa a un’eternità in cui la sua vita sarà per sempre giudicata dal punto di vista del momento della sua massima esposizione online. Vale a dire, quello del suo suicidio.
A chi appartiene (davvero) la nostra eredità digitale
Date queste premesse è evidente come il ricordo di Océane non appartenga più, non possa più appartenere, ai suoi famigliari o ai suoi amici, ma sia diventato parte di una memoria collettiva che dipende sempre più nel suo funzionamento dalle logiche di catalogazione dei contenuti che sono proprie dei motori di ricerca e dei social network. Una conseguenza ormai implicita per la maggior parte delle persone connesse a Internet e ad almeno una piattaforma “sociale”, ma che si rivela in tutta la sua criticità nel caso di un suicidio o di un altro evento drammatico o comunque fortemente negativo per la reputazione di una persona. Anche, se non soprattutto, dopo la sua morte.
Il video che documenta le ultime ore di vita di Océane è infatti rimasto in Rete per il tempo necessario a essere duplicato ed essere reso disponibile, dopo la censura di Periscope, su Youtube. Ed è, in questo momento, l’eredità più importante che Océane ci ha lasciato. Forse, non proprio quella che desiderava. Il video della sua morte, per quanto sottoposto a censura, potrà sempre riapparire in qualche punto imprecisato della Rete, e diventare l’ultima e la più potente immagine che avremo di lei.
Come ricostruito da un articolo in francese, “Vita e morte di Océane sulla Rete”, Océane aveva costruito nel tempo una serie di molteplici identità social che tutt’ora persistono in Rete a perenne ricordo di lei.
Come accade nella vita reale noi non possiamo conoscere una sola Océane, ma più di una: è logico tuttavia pensare che, con il tempo, di queste molteplici identità digitali alla fine non ne resterà che una sola. Quella del suo ultimo giorno di vita, che ha suscitato il maggior “interesse” nel maggior numero di persone e che è stata riprodotta nel maggior numero possibile di volte.
Così per tutti gli altri: di noi resterà in Rete solo ciò che, secondo gli algoritmi di social media e motori di ricerca, ha suscitato il maggior interesse nel maggior numero possibile di persone. Può essere un articolo che abbiamo scritto, o (più probabilmente) una stupidaggine che abbiamo fatto. Non lo sappiamo, né possiamo prevederlo.
Quello che è certo in questa triste storia è che Océane – la versione digitale ed eterna di Océane – perderà a poco a poco i connotati della bellezza, della grazia, della giovinezza vitale e ribelle (gli stessi che una pagina Facebook in suo onore vorrebbe fossero gli unici a essere ricordati) per assumere giorno dopo giorno, anno dopo anno, quelli della ragazza fragile, sola, forse traumatizzata da un atto di violenza tutt’ora non confermato (uno stupro, ha denunciato lei prima di uccidersi), per sempre ricordata nel suo ultimo gesto come la ragazza “che si è ammazzata in diretta su Periscope”. Una fama eterna, non commisurata ai suoi gesti né forse tantomeno al suo bisogno di ricevere attenzioni e affetto.
Che cosa possono fare i famigliari e gli amici di Océane per controllare tutto questo? Pochissimo, se non nulla, soprattutto quando saranno morti anche loro.
Come sintetizzato da Giorgio Resta, professore al dipartimento di Giurisprudenza della Sapienza, nell’articolo “La morte digitale” pubblicato in “Il diritto dell’informazione e dell’informatica”, allo stato attuale la legislazione riguardante l’eredità digitale è ancora ben lungi dall’aver trovato un’uniformità, data la natura relativamente recente delle piattaforme digitali e dell’attenzione del pubblico e della politica nei confronti del tema.
La sorte della nostra corrispondenza virtuale, della moneta virtuale (come i bitcoin) accumulata nel corso dell’esistenza, dei nostri profili social e delle nostre librerie online di musica e video in questo momento dipende da una molteplicità di leggi e regolamenti spesso contradditori, e che talvolta nulla possono contro le politiche restrittive dei social media e delle altre piattaforme in materia di condivisione dei dati personali. Ciò che noi siamo in Rete è una costruzione sociale che rimane dopo la nostra morte e sulla quale possiamo esercitare un controllo molto limitato nel tempo.
Inconsapevolmente, come Océane, affidiamo ogni giorno una parte significativa della nostra esistenza (quella digitale) a piattaforme ubicate nella maggior parte dei casi dall’altra parte dell’Oceano che potrebbero rifiutare ai nostri cari e legittimi eredi il diritto a tutelare la nostra memoria e i nostri beni digitali accumulati nel corso della vita. Spesso con piena ragione. Come ricordato da Resta “gli stessi operatori globali (come Facebook e Google, ndr) favoriscono l’iniziativa personale degli utenti (nel decidere il destino dei propri dati, ndr), non potendo soddisfare i requisiti del diritto successorio di ogni giurisdizione coinvolta”.
Ma cosa accade quando questa volontà personale non viene espressa in vita, per scaramanzia o semplice ignoranza, o quando viene semplicemente ignorata, in virtù di una legislazione non all’altezza delle sfide poste oggi dall’attualità?
La nostra esistenza online, e tutto quello che motori di ricerca, piattaforme e social media possono conservare di noi, in realtà smette di appartenerci nel momento stesso in cui premiamo il tasto “invio” o “pubblica” o “avvia la diretta streaming”. Non è più nostro, né dei nostri cari e famigliari, ma diventa ora e per sempre di proprietà delle stesse piattaforme e di una massa di sconosciuti che noi stessi – come Océane – abbiamo chiamato a raccolta per essere da questi ultimi giudicati, accettati o assolti.
Ciò che resta di noi in Rete dopo la nostra morte sfugge quasi totalmente al nostro controllo e al controllo di quelli che dovrebbero essere gli eredi non solo dei nostri beni, ma anche della nostra memoria. E se nello spazio di una o due generazioni gli eredi possono avere la possibilità di riavvalersi per via giudiziaria contro chi infama la nostra memoria, o chi mantiene in vita un ricordo spiacevole legato alla nostra esistenza, è pacifico prevedere che una volta morti coloro che ci hanno conosciuto di persona non rimarrà più nessuno interessato a tutelare la memoria in Rete.
Diventeremo dei cadaveri virtuali esposti al dileggio di quanti vedranno i nostri video, le nostre foto, i nostri frammenti di esistenza ormai disconnessi gli uni dagli altri.
Rimarremo per sempre quello che altri hanno deciso che siamo stati. Può andarci bene, come può andarci male. Nel caso di Océane, e di quanti hanno concluso la propria vita non nel migliore dei modi, ciò che resterà per sempre di loro probabilmente non coinciderà mai con quello che loro stessi avrebbero voluto.
Che forma potrebbero avere gli “ossari” digitali?
Nel libro “Storia della morte in Occidente” lo storico francese Aries ha ricostruito il modo in cui la morte e l’atto stesso del morire sia stato progressivamente censurato dalla scena pubblica e famigliare privata per essere relegato in anonime corsie d’ospedale e nei recessi dell’animo. La morte di un famigliare o di una persona cara è diventato tra il finire dell’età moderna e quella contemporanea un evento da nascondere ai bambini, di cui non parlare in pubblico, a meno di non farlo con riserbo e contegno, sempre meno collettivo, sempre più individuale e inesprimibile.
Questo atteggiamento tipicamente occidentale nei confronti della morte si è affermato nel corso del XIX secolo e ha portato, secondo Aries, a una sorta di “tabù della morte” nelle conversazioni quotidiane e pubbliche. Ed è questo tabù che potrebbe essersi concluso con l’avvento del web 2.0 e dei social media, dove la morte è tornata prepotentemente alla ribalta. Incancellabile. Ingestibile. Imprevedibile, nelle forme e nei modi in cui si è manifestata nel mondo virtuale.
Internet si sta rapidamente popolando di morti. Secondo la BBC dal 2012 sono già 30 milioni gli utenti di Facebook morti, a un ritmo di circa 8.000 nuovi “zombi digitali” al giorno. Nel momento in cui Facebook è diventata la prima piattaforma di creazione dell’identità digitale “certificata” della maggior parte delle persone al mondo, è diventata anche tra le prime a inserire la possibilità di creare una sorta di profilo “commemorativo” del defunto e di offrire agli utenti la possibilità di instaurare un erede designato del proprio profilo e dei dati contenuti in esso. Un’opzione che, non è difficile immaginare, non deve essere tra le più popolari e utilizzate della piattaforma, per scaramanzia o semplice abitudine alla procrastinazione.
Finché lasceremo ad altri e alle piattaforme digitali il diritto di decidere del nostro destino ultimo non avremo mai la certezza che quello che rimarrà di noi dopo la nostra morte corrisponderà davvero a ciò che noi siamo stati. Così come l’esistenza di Océane non è riassumibile in una diretta Periscope di qualche ora.
Nei cimiteri che ho visitato nel corso della mia vita ho sempre dedicato qualche minuto di tempo alla contemplazione degli ossari. Quelle sezioni dove gli ultimi resti ormai decomposti dei defunti sono accatastati gli uni sopra gli altri in piccolissimi loculi e accompagnati da una dicitura recante solo il nome, il cognome e l’anno della morte, senza altre informazioni al di fuori di quei pochi, scarni riferimenti.
È così per i miei bisnonni e i miei trisnonni, la cui memoria è affidata a una lastra in marmo delle dimensioni di una mattonella e che fatico ogni volta a individuare in mezzo alle centinaia di altri defunti di cui non rimane altro che qualche rimasuglio organico destinato prima o poi a scomparire. Di loro non rimane altro in questo mondo, al di fuori di quello che io e i miei famigliari potremmo decidere di conservare o cancellare.
Penso che ognuno di noi dovrebbe non solo avere il diritto di scegliere a chi affidare i propri resti digitali, ma anche quello di essere tutelato nel momento in cui gli eredi designati saranno morti e i loro eredi non avranno più, presumibilmente, interesse a curarsi della memoria di un bisnonno o di un avo vissuto molto tempo prima di loro.
Una tutela che può avvenire, realisticamente, in un solo modo: una specie di ossario virtuale, dove racchiudere tutte le informazioni e i dati relativi a una persona deceduta da più di una generazione e a cui è possibile accedere solo dietro autorizzazione dell’autorità.
Se è quanto mai attuale e importante assicurare a ciascuno di noi il diritto non solo a una connessione perpetua e gratuita alla Rete, lo è anche il diritto a venire prima o poi totalmente e irreversibilmente disconnessi da quella stessa Rete cui abbiamo ingenuamente, ma sempre più obbligatoriamente, affidato una parte del nostro significato.
La vita eterna non fa parte di questo mondo. Abbandoniamo ogni indugio, e smettiamola di accarezzare l’idea che un qualche simulacro di noi possa continuare a esistere dopo la nostra morte, nelle forme più avanzate di un software o in quelle meno prevedibili di una serie di tracce digitali ormai del tutto disconnesse da ciò che siamo stati.
Come Océane, anche noi viviamo ormai in diretta e anche la nostra morte sarà vissuta da altri in diretta, perché lo verranno a sapere su Twitter o verranno a scriverci le loro condoglianze sul nostro profilo Facebook. Anche noi, come Océane, avremo allora bisogno di un poliziotto ignaro e dedito a compiere unicamente il proprio dovere, per premere il pulsante “off”.