Dall’era post-fordista all’era post-Uber: la startup hi-tech più valutata al mondo è diventata un modello per una nuova generazione globale di imprese che potrebbero costituire in futuro la prima fonte di reddito per una quota rilevante della popolazione globale.
Hanno sviluppato le app più scaricate al mondo, ma ci sono intere metropoli che ne hanno vietato l’utilizzo. Hanno rivoluzionato la mobilità, rendendola condivisa, ma c’è chi le accusa di aver raggiunto il successo approfittando di un vuoto normativo tutt’ora non colmato. Permettono a chiunque di guadagnare l’equivalente di uno stipendio, ma la maggior parte dei loro collaboratori non lavora più di dieci ore la settimana.
Un’innovazione, quella della mobilità condivisa, che sul lungo periodo potrebbe incidere significativamente sul desiderio di possedere beni fino all’altro ieri considerati come primari, come un’auto di proprietà: non è un caso, come ricordato in un recente articolo di Fox Business, che i più importanti produttori di automobili stiano cercando di recuperare terreno, sviluppando a loro volta nuove app e piattaforme per incentivare i propri clienti a condividere la loro auto.
Uber, Lyft, SideCar, Didi Kuaidi, Ola, GrabTaxi sono tra le aziende di car sharing peer-to-peer più valutate al mondo, ma i loro dipendenti non superano le poche centinaia di effettivi. Eppure c’è chi parla già di “uberizzazione” dell’economia, e i founder di queste aziende stanno reinvestendo i capitali raccolti dagli investitori nello sviluppo di tecnologie di trasporto che un giorno potrebbero fare a meno della componente umana, rendendo il concetto stesso di mobilità condivisa obsoleto.
La mobilità condivisa e le nuove opportunità di lavoro e di consumo
La mobilità condivisa, nella forma di scambio tra pari (peer-to-peer) e al netto delle normative locali che regolano il trasporto di persone, consente a chiunque sia proprietario di un’auto di guadagnare offrendo un servizio di trasporto a perfetti sconosciuti: la composizione media dei driver varia da Paese a Paese, ed è interessante notare come in alcune località fortemente disagiate come le banlieue francesi l’arrivo di Uber abbia avuto un lieve ma significativo impatto nella riduzione della disoccupazione sul breve periodo. Uber, Lyft, SideCar negli Stati Uniti, Didi Kuaidi in Cina, Ola in India, GrabTaxi a Singapore sono solo le più importanti aziende che in questi anni hanno sviluppato soluzioni tecnologiche in grado di favorire il contatto tra domanda e offerta di passaggi in auto.
“Il car sharing peer-to-peer ha messo in contatto offerta e domanda di passaggi in auto
grazie alla diffusione su scala globale di tecnologie mobile-based”
Un’offerta, quella dei proprietari di auto, rimasta silente fino all’avvento su scala globale di smartphone e app di messaggistica istantanea, e una domanda, quella degli abitanti dei centri urbani, fino all’altro ieri circoscritta alla gestione monopolistica del trasporto pubblico e privato su gomma. Si parla infatti di “mobilità condivisa” nel momento in cui tutti i passeggeri possono diventare autisti, e viceversa: a prescindere da un effettivo guadagno per chi offre il servizio, nella sharing economy la distinzione di ruoli tra cliente e fornitore scompare, lasciando il posto a figure ibride, a metà tra piccolo imprenditore e libero professionista.
L’uberizzazione dell’economia
Il modello di riferimento della mobilità condivisa ai tempi della sharing economy è sicuramente Uber, la startup più valutata al mondo, che per prima ha sviluppato un’app associata a un sistema di geolocalizzazione delle vetture disponibili per offrire un passaggio (remunerato) ai potenziali passeggeri iscritti al servizio. L’azienda, fondata da Travis Kalanick, imprenditore seriale e angel investor statunitense, è passata da una valutazione di 13 miliardi di dollari nel 2014 a oltre 60 miliardi all’inizio del 2016, secondo le ultime indiscrezioni fornite da TechCrunch. E la raccolta di capitali sembra essere sempre più fondamentale per sostenere la strategia di espansione globale della startup. Secondo la Reuters Uber avrebbe registrato perdite per 237 milioni di dollari nel solo 2014, per sostenere la sua aggressiva espansione e lo sviluppo di nuovi servizi basati sul digitale tra cui, come riportato da Bloomberg, la realizzazione delle prime macchine a guida automatizzata per ridurre ulteriormente i costi a carico dei passeggeri.
I settori potenzialmente “uberizzabili”
Secondo il Guardian, Uber al momento è attiva in 351 città di 64 Paesi e ha oltre 1,1 milioni di autisti registrati al suo servizio: la scalabilità del suo modello di business è tale che alcuni esperti hanno coniato il termine “uberizzazione” per definire quelle soluzioni tecnologiche in grado di connettere tra loro domanda e offerta di beni o servizi privati, monetizzando sullo scambio tra pari. Le aziende create sul “modello Uber” vendono infatti servizi che non gestiscono direttamente, mettono in condivisione beni che non possiedono e ricavano i loro guadagni grazie al lavoro di persone che non figurano tra i loro diretti dipendenti. Per quanto riguarda la mobilità condivisa, è interessante notare come l’uberizzazione si applichi allo scambio di un servizio un tempo considerato qualcosa di assolutamente gratuito ed estemporaneo: l’autostop.
Grazie alla tecnologia mobile e alla pervasività di Internet, domanda e offerta di passaggi in auto vengono a trovarsi continuamente stimolate e intrecciate tra loro. I sistemi di geolocalizzazione consentono di calcolare in tempo reale il corrispettivo guadagno per l’autista, stabilito a priori dall’app in base al percorso e alla disponibilità del servizio nel momento stesso in cui il passeggero ne fa richiesta. L’espansione su scala globale di queste startup moltiplica e rende costante il guadagno delle piattaforme di mobilità condivisa, basato su una commissione applicata allo scambio di denaro tra utenti che usufruiscono del servizio.
“La scalabilità del modello di business di Uber
è alla base della creazione del termine uberizzazione”
Le questioni aperte secondo una ricerca del Parlamento Europeo
Se da un lato è possibile prevedere le conseguenze positive della diffusione di servizi di mobilità condivisa in termini di impatto ambientale e riduzione del traffico delle città (secondo una ricerca commissionata da Uber, i servizi di trasporto peer to peer a Stoccolma potrebbero ridurre del 3% i viaggi quotidiani delle automobili e ridurre del 5% il totale delle auto attive nella città) dall’altro lato non è semplice stabilire in modo univoco quali saranno le conseguenze per la sicurezza, i diritti e le prerogative di conducenti e passeggeri.
Nel momento in cui i ruoli stessi di chi offre e riceve un servizio diventano sfumati e intercambiabili, anche i diritti e i doveri di ciascuno vanno incontro a un profondo ripensamento. A dicembre 2015 Seattle è diventata la prima città statunitense a riconoscere agli autisti delle due più importanti startup di mobilità condivisa, Uber e Lyft, il diritto di unirsi in sindacato per negoziare collettivamente rimborsi e condizioni di lavoro (una decisione che è stata negli ultimi giorni contestata in sede legale dalla Camera di Commercio federale). Nello stesso periodo alcuni autisti di Uber londinesi hanno chiesto al giudice del lavoro di essere riconosciuti come dipendenti dell’azienda.
“L’uberizzazione si applica allo scambio di un servizio un tempo considerato qualcosa di assolutamente gratuito ed estemporaneo: l’autostop”
Secondo una recente analisi del Parlamento UE per la Commissione Trasporti la diffusione di servizi di mobilità condivisa peer-to-peer potrebbe mettere a rischio oltre un milione di posti di lavoro in Europa, tanti quanti sono quelli ufficialmente dichiarati tra le compagne di taxi. L’analisi si sofferma infatti sulla diminuzione di corse in taxi tra il gennaio 2012 e l’agosto 2014 a San Francisco, la città dove Uber ha inaugurato il suo servizio, calate del 65%.
L’analisi del Parlamento UE ricorda che molte sono ancora le sfide da affrontare per il legislatore in termini di mobilità condivisa: dalla gestione dei dati personali degli utenti alla competizione tra aziende che offrono servizi di trasporto, dalla tassazione sulle commissioni previste dalle piattaforme all’inquadramento lavorativo degli autisti iscritti al servizio (che Uber non considera nemmeno come fornitori, ma come “clienti” delle sue app). Per non parlare della possibile discriminazione tra gli utenti: il New York Times per primo ha dato l’allarme sulla limitata disponibilità di autovetture in grado di fornire un servizio di trasporto ai disabili.
La molteplicità degli aspetti che l’analisi invita a tenere in considerazione lascia intendere che le innovazioni prodotte dalle aziende attive in un settore chiave quale quello della mobilità condivisa delle persone (e, in un futuro non troppo lontano, anche delle cose) non possano essere più considerate estemporanee o riferite a un preciso ambito dell’economia, quale quello dei trasporti, ma siano destinate a diventare il modello di riferimento per una percentuale significativa di imprese, imprenditori e clienti del futuro. Sempre che abbia ancora un senso operare queste distinzioni.