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Amantea e quegli uomini venuti dal mare

Sono stato ad Amantea, in Calabria, in vacanza per due settimane. Giorni intensi, felici, diversi. Avvolti da una luce che nascondeva i contorni delle cose e mi obbligava a rinchiudermi in camera, al buio, per riposare gli occhi nelle ore più calde della giornata.

Un mare blu, come raramente ne avevo visti finora, dove la spiaggia si inabissa rapidamente e la componente salina è così forte da tenermi a galla anche quando facevo le capriole nell’acqua. Un mare, a giorni alterni in quest’anno senza Estate, sferzato da un vento rabbioso, che mi sfiancava nell’intento di sbattermi contro gli scogli. Questo era il litorale di Amantea, dove a un certo punto sono apparsi quegli uomini venuti dal mare.

clandestini immigrati amantea

Erano clandestini, arrivati da chissà quale villaggio sconosciuto dell’Africa, e come me aspettavano che si palesasse l’ordine di una volontà superiore, che indicasse a ciascuno il proprio destino, dopo che le tempeste della vita ci avevano portati ad arenarci in quel piccolo paese arroccato di fronte al mare. Erano, quei clandestini, con ogni probabilità i discendenti lontanissimi di quei pirati che un tempo terrorizzavano le coste della Calabria alla ricerca di facili bottini, di cose e di persone. Ed ora si trovavano lì, abbandonati a se stessi, impotenti, privi di quell’identità garantita dall’appartenenza a uno Stato, sopravvissuti a chissà quali pericoli e raccolti in mare da uno Stato che non sapeva che farsene di loro.

La loro quarantena aveva il nome di un hotel vicino al lungomare. Si muovevano lentamente, tra le strade, ondeggiando con la cadenza tipica di chi non ha energie da spendere inutilmente, né un luogo dove andare. Li riconoscevo da lontano, pur in mezzo ad altri che avevano il loro stesso colore della pelle e che tuttavia avevano un lavoro da svolgere, una famiglia a cui tornare. Mi guardavano passare dagli angoli delle strade o seduti sui marciapiedi corrosi dalla salsedine. I loro occhi stanchi mi seguivano per qualche metro, poi tornavano a fissare un punto indefinito davanti a sé, come inebetiti da quello che avevano visto durante il viaggio in mare. Erano ovunque, più numerosi dei turisti, e costituivano quasi un paese a sé, dentro all’altro, quello vero, dove le persone conservavano una loro identità – seppur nascosta sotto a chili di abbronzante e dolci fritti.

Non siamo rimasti insieme abbastanza a lungo per conoscerci a vicenda, ma tuttavia ho imparato a riconoscere nei loro sguardi i frammenti di un’avventura che li ha segnati per sempre. Rivedevo in quegli occhi scuri, in quei rari momenti in cui ci capitava di incontrarci faccia a faccia, tutte le tappe che il mare li aveva costretti ad affrontare per pagare il pedaggio alle sue acque: l’addio alla famiglia, alle persone amate, i giorni di viaggio in un barcone che minacciava di affondare a ogni tempesta, la lotta per ottenere un po’ d’acqua in più dei compagni o per non farsela rubare, i soprusi, le violenze, gli stupri, i documenti che non si trovano, i bambini che piangono dalla fame, i corpi ammassati l’uno vicino all’altro, i capricci delle onde, il vicino che è scivolato nell’acqua, durante il sonno, senza che nessuno se ne accorgesse, le notti sotto un cielo stellato che sembrava confondersi con le acque nere e sterminate, il terrore per l’acqua che si infiltrava a bordo, gli spintoni, il panico, i bambini calpestati dalla folla di uomini che cercava di mettersi in salvo, gli scafisti che abbandonavano a se stessa la nave, la salvezza all’orizzonte e infine l’arrivo in quella città tanto sognata e tuttavia mai come in quel momento odiata.

Storie che pochi di quelle persone che ogni giorno abbaiano contro gli immigrati e gli stranieri riterrebbero possibili. Eppure all’ordine del giorno, in quella lingua di mare che prende il nome di Mediterraneo e che anche io, come loro, scrutavo in attesa di un vento favorevole capace di trascinarmi lontano, al largo.

Studenti come me, che a vent’anni avevano già visto i loro compagni morire, dopo aver esaurito le forze necessarie a rimanere a galla.

Migranti per forza, non per scelta, che un curioso scherzo del destino aveva depositato in un paese da cui non potevano evadere, nonostante tutte le strade fossero aperte.

Ragazzi soli, che avevano promesso di raggiungere l’altra sponda e di portare con sé, un giorno, tutta la famiglia. E che ora stavano per essere ricacciati indietro, senza possibilità di far valere i propri diritti.

Uomini venuti dal mare.

Uomini di un altro mondo.

Uomini, come si può esserlo solo quando non si ha più alcun diritto sulla propria esistenza.

Prigionieri ad Amantea.

4 Comments »

  1. Jacopo, bellissimo post! La conferma, ancora una volta, che certe situazioni bisogna osservarle con i propri occhi prima di poter prendere una posizione, che non basta “sentirne parlare” per sostenere una tesi ma conoscere il più a fondo possibile l’argomento per poi finalmente capire cosa si nasconde dietro all’apparenza dal momento in cui, soprattutto in questo delicatissimo caso, ci sono di mezzo tantissimi sogni infranti..

    • Grazie Antonella. Ho solo scritto quello che ho visto con i miei occhi, per considerazioni più approfondite ci sarebbe voluto molto più tempo. Ma lo considero come un primo passo, e da allora ripenso a quei volti, e leggo le storie dei migranti “venuti dal mare” sotto una luce diversa.

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