Le startup in Italia sono un esempio lampante di come questo Paese si sforzi di rimanere al passo con il resto del mondo senza mai riuscirci davvero. Quello delle startup è un ambiente, per l’esperienza che ne ho, complesso, difficile e pericoloso.
Perché chi ha un’ottima idea non sempre ha i mezzi, l’esperienza, i finanziamenti e la visione strategica necessaria a finalizzarla. E non mancano ogni giorno esempi di truffatori, come quella raccontata in un articolo di Wired “Come ti truffo la startup”.
Nonostante si parli ad ogni ora di nuove startup avveniristiche, frutto di un insondabile “genio italico”, in realtà la maggior parte di esse vengono a morire entro i primi mesi, quando non settimane, di vita. Spesso non perché l’idea su cui si fondavano fosse in qualche modo sbagliata, ma perché non sono arrivati in tempo gli investimenti in grado di sostenerla nel tempo e di assicurare lo sviluppo dell’idea dandole una forma imprenditoriale. In una parola: il mercato, fino ad oggi ago della bilancia in questo settore, non era ancora pronto per riceverle. O, semplicemente, non c’era nessun profitto da fare: come una startup che concepisca un software in grado di analizzare i big data nel campo dell’istruzione scolastica per i figli delle seconde generazioni, con l’obiettivo di aggregare dati utili a migliorare i programmi scolastici a loro dedicati per l’apprendimento dell’italiano. A chi potrebbe giovare un’invenzione di questo tipo? A centinaia di migliaia di futuri cittadini italiani. Chi potrebbe seriamente pensare di ricavarci un margine di profitto sufficiente a giustificare l’investimento iniziale? Nessuno, o quasi.
Startupper: biglietto di sola andata per la Silicon Valley
Del pari, la famosa contaminazione di idee e cervelli che si otterrebbe ogni qual volta che uno startupper nostrano compie il grande salto verso l’America, è il più delle volte una strada a senso unico.
Secondo i dati pubblicati dall’Espresso in un articolo dal titolo eloquente, L’industria italiana ignora le startup, che riprende la ricerca compiuta dal Venture Capital Monitor, l’osservatorio della Luic, l’Università di Castellanza di Varese, si scopre che su 110 milioni di euro stanziati da venture capital e Tesoro, solo 88,3 milioni sono stati utilizzati finora per il finanziamento delle nuove imprese.
Anche se aumentano le startup finanziate (16% in più dal 2012 al 2013) nondimeno i posti di lavoro effettivi generati da questo settore si contano ancora in poche migliaia di unità, mentre la maggior parte di chi esporta la propria idea in un altro Paese (banalmente: la Silicon Valley) lo fa senza acquistare il biglietto di ritorno. “È come se l’Italia fosse un grande parco giochi per sviluppare idee, che poi vengono messe a frutto all’estero”, ha dichiarato giustamente Salvo Mizzi, di Working Capital di Telecom.
Ci sono altri dati, tuttavia, che meriterebbero di essere presi in considerazione: secondo il Registro Imprese di Infocamere, che monitora la diffusione su base nazionale delle startup considerate “innovative” (ad oggi circa 1.700), la maggioranza di esse è concentrata in Lombardia, Veneto, Emilia Romagna, Piemonte e Lazio. Secondo un’altra ricerca, questa volta di mindthebridge.com sulle startup italiane risalente al 2012, solo il 37% degli startupper ha una laurea magistrale, contro il 53% che si è fermato alla triennale senza specializzarsi. 8 startupper su 10 in Italia sono uomini, e l’87% di essi ha trascorso gli anni della sua formazione in Italia.
Dov’è l’innovazione, in questi dati? E’ sorprendente notare come le tendenze storicamente negative dell’economia italiana (concentrazione di imprese e imprenditori nel Nord Italia, prevalenza del sesso maschile e di persone prive di una formazione specialistica e internazionale) si ripercuotono anche in quel settore che dovrebbe far da traino a tutto il resto.
Startup e dimensione “provinciale” del business
Come uscire dall’impasse? A mio giudizio, bisognerebbe pensare a qualche forma di finanziamento pubblico delle startup che superi la dimensione “locale” degli imprenditori – comunque orientati a ottenere un profitto economico dagli investimenti in startup – e la dispersione di finanziamenti dei cosiddetti incubatori. La spinta all’innovazione dovrebbe provenire dall’alto, e non essere più affidata all’intraprendenza dei singoli o dei gruppi di business angels.
L’Italia, soprattutto in seguito alle roboanti premesse nel settore innovazione fatte del premier Matteo Renzi alla vigilia del nostro semestre europeo di Presidenza, dovrebbe innanzitutto dotarsi di un luogo scelto ad hoc, un budget adeguato e una strategia per lo sviluppo delle idee innovative che possano avere una ricaduta positiva per tutti i cittadini. Non solo in termini di profitto economico. Se l’innovazione ha un costo, spesso i suoi benefici sono incalcolabili.
Mi piacerebbe vivere abbastanza a lungo da veder nascere una specie di Silicon Valley nazionale dove vengano selezionate, concentrate, incubate e fatte crescere anche a distanza di anni delle startup attive in settori strategici per il Paese quali difesa, istruzione, pubblica amministrazione, sanità, trasporti etc. La concentrazione di tutte le imprese, o perlomeno della loro “testa pensante” in un unico luogo dove si possa respirare innovazione, permetterebbe di controllare i costi del progetto e di favorire la circolazione di idee e progetti integrati tra imprenditori messi a lavorare uno di fianco all’altro.