Un urlo di sofferenza: è la reazione più normale per chi sente parlare di “democrazia digitale” ai nostri giorni. La definizione è applicata a ogni forma di attivismo in Rete: dalle petizioni per il salvataggio di cani e gatti, alla pubblicazione sul sito del comune della lista della spesa del consigliere di centrodestra, fino alle parlamentarie del Movimento 5 Stelle. Il risultato? Una gran confusione, e un dibattito pubblico che procede a singhiozzo, tra favorevoli e contrari, oppositori ed entusiasti. Di cosa, non si è ancora ben capito.
Il rapporto Censis 2012 rivela che, sebbene la pubblicazione di dataset da parte delle pubbliche amministrazioni sia più che raddoppiata tra marzo e ottobre 2012, ancora un numero consistente di informazioni resta fuori dalla Rete. E si tratterebbe, secondo gli autori del rapporto, di “dati a grande potenziale economico sia per il loro contenuto intrinseco, sia per la loro ampiezza e varietà”.
LO SCENARIO ITALIANO al momento contempla diversi casi di singole amministrazioni comunali che hanno adottato politiche di “open data” nei riguardi dei cittadini.
L’ultimo caso celebre, l’apertura del primo sito di Open Municipio a Udine e Senigallia, prevede sia la pubblicazione dei documenti dell’amministrazione sia il “controllo” aggiornato, da parte degli utenti-cittadini, dell’attività dei rappresentanti. Un servizio pagato dall’amministrazione (avvio del sito e manutenzione), in base al numero di abitanti del comune. Su un sito apposito, viene messo online tutto ciò che deve essere votato dall’amministrazione, “prima, durante e dopo“. Le faccione dei consiglieri compaiono in prima pagina, associate a numeri impietosi: presenze in consiglio, atti presentati, commenti ricevuti.
Su tutti vigila l’occhio indistinto della Rete: cittadini, giornalisti, ma anche avversari politici pronti a sfruttare il primo passo falso, la prima assenza significativa. Ma quali strumenti hanno per passare all’azione? Nessuno.
La pubblicazione dei documenti online e il monitoraggio dell’attività dei politici è così necessario, in un Paese al 72° posto per corruzione percepita, da non aver bisogno di ulteriori giustificazioni.
Restano i dubbi sulla “gogna digitale” per i presunti “fannulloni”. Che viola spesso non solo le regole sulla diffamazione, ma anche quelle non scritte sul rispetto degli altri. Il lancio delle monetine è ancora più facile, se ci si può nascondere dietro un avatar fittizio.
Se l’attività dei politici viene valutata sulla base dei soli numeri, e non dei risultati ottenuti o delle effettive conseguenze del loro operare, i cittadini vengo deprivati di uno strumento di analisi. A questo proposito, gli autori di “Open Parlamento” hanno lavorato a un nuovo indice di produttività, che tenga conto anche di fattori quali l’iter e la partecipazione dei parlamentari ai lavori.
LAVORO DA GIORNALISTI. Forse, i giornalisti sono così critici nei confronti degli strumenti di democrazia digitale perché questi sottraggono alla stampa una buona parte del suo lavoro.
Se il cittadino può seguire in diretta i lavori del consiglio comunale, interagire con un consigliere e chiedergli ragione del suo operato, confrontare i numeri di un quinquiennio di amministrazione direttamente dal computer di casa, il ruolo di mediatore dei giornali sembra divenuto del tutto inutile. Non è così.
I siti (devo ricordarlo?) sono creati e gestiti da esseri umani, e come tali imperfetti. Le metodologie di controllo, i rapporti tra i fornitori dei programmi di controllo e i politici, i dati comunicati dalle istituzioni ai gestori del sito, i profili degli utenti-cittadini che si iscrivono e commentano devono essere costantemente indagati e tenuti sotto osservazione. I giornalisti devono inoltre sforzarsi di individuare dei percorsi di lettura all’interno dei documenti pubblicati dalle amministrazione. La loro attenzione e la loro memoria storica sono di aiuto ai cittadini, che non possono leggere tutti i giorni pagine e pagine di pdf e decifrare il linguaggio burocratico e ai limiti dell’involuzione di certe segreterie.
I QUESITI ANCORA APERTI della democrazia digitale attendono un dibattito pubblico più maturo e informato. Di fronte ai tentativi, coraggiosi ma finora poco fortunati, in Europa e in Italia, è giusto porsi delle domande. Ma queste domande non devono risolversi nella rigida contrapposizione tra democrazia diretta e rappresentativa. Come dimostra il caso findlandese e islandese, le due soluzioni non si escludono a vicenda.
Il caso italiano, invece, ci ricorda che la scarsa penetrazione della banda larga (22% sulla rete fissa, secondo il Censis) è ancora un ostacolo “fisico” alla diffusione di strumenti di e-government.
L’esclusione digitale è l’ostacolo più importante. Chi non può permettersi una connessione continua e veloce alla Rete, è escluso a priori dalla partecipazione democratica. L’utilizzo di Internet presuppone competenze che si rivelano sempre più necessarie, ma che nessuna legge ha reso obbligatorie. Come se si obbligassero a votare le persone, senza prima renderle capaci di leggere e scrivere.
Si può essere esclusi dall’attivismo online anche per ragioni di tempo: se le votazioni restano aperte per mesi e necessitano solo di qualche minuto, le discussioni registrano dei picchi d’intensità ai quali non tutti possono partecipare. La complessità tecnica degli argomenti potrebbe allontanare più di un cittadino motivato a partecipare. O perlomeno escluderlo dal dibattito tra i più esperti.
Lo strumento della delega potrebbe essere solo uno schermo per mascherare l’annoso problema dell’astensionismo. Oppure favorire l’attività di leader carismatici e dotati dei numeri giusti per influenzare le decisioni.
In presenza di due promotori di due mozioni diverse, che peso avranno i follower su Twitter nel condizionare i votanti? E il numero di like sulla pagina Facebook? Si pensi all’influenza dei sondaggisti nei dibattiti elettorali, al fatto che da più di un anno il Partito Democratico è considerato il primo partito d’Italia sulla base di ricerche svolte a campione, senza elezioni di mezzo che possano ancora confermarlo. I numeri, sulla Rete, obbediscono a una matematica ancora misteriosa.
Se una petizione o una proposta di legge è votata da 170 mila persone, non siete naturalmente portati a votarla anche voi, rilanciandola sulla vostra bacheca Facebook, e a trascurare quelle che rimangono in fondo alla lista? Emotività, desiderio d’appartenenza, rapidità giocano i loro brutti scherzi. Anche (e soprattutto) nel mondo digitale, dove a torto si ritiene che la razionalità faccia da padrona.
Per concludere, la “democrazia digitale” non si limita alla pubblicazione di documenti, già consultabili nelle segreterie, su Internet.
Manca, in Italia, la componente “attiva” dell’e-government: non ci sono né le leggi né l’interesse politico sufficienti a promuovere la partecipazione dei cittadini attraverso la Rete. Le loro raccolte di firme online restano lettere morte, un documento di buoni propositi che i politici non prenderanno mai in considerazione.
Senza una legge che dia valore legale alle petizioni (stabilendo, ad esempio, un quorum per la loro validità), alle proposte di legge attraverso Internet, e che definisca le regole per le votazioni (anche qualitative) di candidati e politici attraverso il web, e per gli amministratori dei programmi, la “democrazia digitale” rimane un bel sogno a occhi aperti. Confinato ai capricci e alle utopie del momento di questo o quel movimento/partito politico. Un po’ come se si aprissero le “segrete stanze” del potere a tutti i cittadini, e poi li si facesse entrare bendati, legati e con la bocca cucita.
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Se volete saperne di più: mi piacerebbe organizzare un viaggio in Austria a maggio 2013, quando si svolgerà alla Danube University di Krems la tre giorni di CeDem, evento mondiale dedicato all’E-Democracy.
Se siete interessati, scrivetemi a pagineazzurre[at]hotmail.it.
Per chi vuole leggere la prima parte di questa riflessione: Non abbandonate la democrazia digitale nelle mani di Grillo.
Foto di copertina: (cc) kaneda99/flickr.