Social e bambini: dati (e comportamenti) sempre più preoccupanti

Secondo i dati elaborati da Di.Te oltre un bambino su tre ha già un profilo social, per non parlare di quelli che sui social sono presenti nelle foto e nei video pubblicati con inquietante continuità da alcuni genitori: in uno scenario così sconfortante per chi fa educazione e prevenzione digitale, non sarebbe male se il 2023 fosse l’anno in cui cominciare, davvero e a tutti i livelli della società, a discutere di diritto e dovere alla privacy dei minori.

Da una parte i dati, dall’altra l’esperienza personale. Cominciamo dai primi, visto che provengono da una fonte autorevole come l’Associazione Nazionale Dipendenze Tecnologiche (Di.Te.): su un campione di oltre 13.000 tra genitori, adolescenti e bambini intervistati per l’ultima ricerca, è emerso che il 33% dei minori tra i 5 e i 6 anni ha già almeno un proprio profilo social, il 59% utilizza app di messaggistica come Whatsapp (non troppo dissimile dai social, specie con l’introduzione delle Community) e l’83% utilizza abitualmente dispositivi come il tablet.

Una fascia di età, quella dei minori, che risulta essere direttamente influenzata dai comportamenti – in alcuni casi, davvero al limite della dipendenza tecnologica – dei genitori: una mamma su due allatta il proprio figlio mentre usa lo smartphone, un genitore su due condivide lo smartphone e altri dispositivi connessi per intrattenere i propri figli prima ancora che questi abbiano compiuto i quattro anni di età, soprattutto quando sono stanchi o agitati (30%) oppure durante i pasti (41%). Le percentuali, ovviamente, aumentano con il passare dell’età e con la crescente predisposizione dei genitori a regalare dispositivi sempre più in anticipo rispetto a solo pochi anni fa.

Pur non condividendo le analisi di alcuni esperti sul fenomeno – secondo cui le esperienze e le emozioni sperimentate online avrebbero minor peso e minor valore rispetto a quelle provate nella cosiddetta “vita reale“, e andrebbero per questo motivo vietate del tutto – non posso non essere preoccupato da questa ennesima dimostrazione dello scollamento tra le leggi (nello specifico, il divieto di iscriversi a un social media fino a 14 anni di età compiuti) e la realtà dei fatti, né tra gli innumerevoli appelli a proteggere la privacy e l’intimità di bambini e adolescenti e la continua, forzata esposizione dei loro corpi e della loro vita privata nelle “stories”, nei post, nei “reels” e sempre più spesso anche nei “tiktok” di genitori e parenti di ogni ordine e grado.

Pur non avendo dati statistici a riguardo, la mia esperienza quotidiana è quella di un moltiplicarsi di contenuti che documentano ogni istante della vita di bambini – ancora troppo piccoli per capirne il significato, le intenzioni e le conseguenze e quindi per difendersi autonomamente – sugli account social di genitori probabilmente ignari delle possibili conseguenze, o semplicemente disinteressati agli effetti negativi di queste ultime. Se oggi appare impossibile vietare a tutti i costi qualsiasi presenza di qualsiasi bambino su un social media, sia esso iscritto o semplicemente presente come “contenuto” delle bacheche dei genitori, non è tuttavia troppo tardi per limitare questa esposizione a brevi, calcolati passaggi che non ne espongano in maniera costante e incontrollabile la quotidianità privata, dal “bagnetto” del mattino alla cena della sera, dai capricci inconsapevoli alle manifestazioni di affetto riservate solo alla persona per loro presente in quel momento nella stanza.

Senza bisogno di fare qui l’elenco di tutti i rischi nel breve e nel lungo termine a cui questo genere di contenuti condivisi su un social media espongono i bambini, già abbondantemente elencati in passato e facilmente individuabili da qualunque genitore voglia approfondire l’argomento, vorrei qui condividere una riflessione sul rapporto tra genitori e figli e sul concetto distorto di “potestà genitoriale” quando questa viene applicata alla Rete: così come una persona adulta non vorrebbe mai e poi mai trovarsi nella condizione di vedere foto, video e informazioni riguardanti la propria vita personale condivise da altri senza il proprio espresso o tacito consenso, perché un minore di età non dovrebbe godere della stessa possibilità di opporsi a tutto ciò che di lui viene condiviso in Rete, almeno fino a quando non avrà l’età e le conoscenze adatte per esprimere la propria autorizzazione?

Detto in altri termini: il diritto dei genitori di condividere la felicità che un figlio genera con una platea potenziale di migliaia di sconosciuti (e chi pensa che un profilo Instagram privato basti a impedire questa possibilità si sbaglia di grosso), o il diritto dei genitori a farsi aiutare dalla tecnologia per intrattenere o distrarre il proprio figlio, non può sostituirsi al diritto di un minore di non essere guardato, scrutato, giudicato, sorvegliato e nei casi potenzialmente più gravi tracciato da questa folla anonima e dalle intenzioni più disparate. Soprattutto, aggiungo io, quando gli anni vissuti sono ancora così pochi e minime se non nulle sono le conoscenze a riguardo: se un adolescente di oggi dispone di qualche informazione e strumento in più rispetto a pochi anni fa per proteggere la propria privacy online, le possibilità di difesa di un bambino o di una bambina sono al momento pressoché nulle, e nessun automatismo tecnologico è in grado di compensare le carenze dei genitori su questo fronte.

Questo non vuol dire, ovviamente, che debba essere vietato a prescindere qualsiasi contatto tra i minori di età e la tecnologia, o che un bambino non possa trarre giovamento da Internet per essere intellettualmente stimolato, sperimentare i propri interessi e ammirare l’enorme vastità delle cose e delle conoscenze umane e naturali soprattutto in mancanza delle possibilità materiali ed economiche di poterlo fare “nella vita reale”. Altra cosa, invece, è la continua esposizione dei corpi, dei pensieri e dei gesti quotidiani compiuta per volontà dei suoi stessi genitori, e altrettanto grave è la possibilità offerta a bambini inconsapevoli di diventare utenti tracciati e sorvegliati delle aziende digitali fin dalla primissima età (sia per quanto riguarda i social media, sia per quanto riguarda i prodotti della casa connessa come smart speaker o televisioni dotate di microfono e videocamera).

Come ricorda Veronica Barassi, autrice del libro “I figli dell’algoritmo” (Luiss University Press, 2021) “noi non abbiamo alcuna garanzia che queste aziende digitali, una volta che i nostri figli saranno cresciuti, eviteranno di integrare i dati raccolti durante la loro infanzia con i loro account futuri, e di utilizzare ciò che sanno della loro intera vita per giudicarli e profilarli”: se non siamo ancora stati in grado noi “adulti” di comprendere fino in fondo le conseguenze dei social sulla nostra vita presente e futura, come potrebbero farlo dei bambini che non hanno ancora imparato a leggerne i termini e le condizioni d’uso? Se posso esprimere un auspicio per il 2023 che non cadesse subito nel dimenticatoio come migliaia di altri letti in questi ultimi giorni, vorrei che il prossimo anno diventasse quello in cui si possa cominciare davvero a discutere di diritto – ma soprattutto di dovere – alla privacy dei minori, anziché affidarsi ciecamente alla tutela fornita da leggi e tecnologie già sorpassate dagli eventi.

Immagine di copertina: Ben Wicks/unsplash.

jacopo franchi

Autore

Jacopo Franchi

Mi chiamo Jacopo Franchi, sono nato nel 1987, vivo a Milano, lavoro come social media manager, sono autore del sito che state visitando in questo momento e di due saggi sull’impatto del digitale nelle relazioni tra persone (“Solitudini connesse. Sprofondare nei social media“) e nelle nuove forme di lavoro e di accesso alla conoscenza (“Gli obsoleti. Il lavoro impossibile dei moderatori di contenuti“).

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2 commenti su “Social e bambini: dati (e comportamenti) sempre più preoccupanti”

  1. Un dato inquietante che fa pensare molto ad un futuro senza alcuna capacità emotiva per quelli che oggi sono i bambini che fanno un uso sconsiderato dei social.

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