Alcune lezioni da trarre dopo la conclusione della trattativa tra il governo australiano, Google e Facebook su ciò che rimane del “News Media Bargaining Code”, che potrebbe non essere mai utilizzato.
L’unica cosa certa è che Facebook e Google dovranno accordarsi per pagare una certa somma di denaro ad alcuni grandi gruppi editoriali australiani sotto la minaccia della nuova legge conosciuta come News Media Bargaining Code: quanto denaro non è dato sapere, né le aziende beneficiarie saranno obbligate a utilizzare questi soldi per aumentare gli stipendi dei giornalisti o finanziare le inchieste giornalistiche. Giornalisti e blogger indipendenti, piccole testate locali e nuove “startup” del giornalismo sono al momento escluse dagli accordi e perfino gli aspetti più innovativi della legge australiana, come la trasparenza sulle modifiche degli algoritmi che regolano il NewsFeed di Facebook o le pagine di risultati di ricerca di Google, potrebbero non essere mai realmente applicati in ragione di emendamenti approvati all’ultimo minuto.
Una legge che doveva essere d’esempio per il resto del mondo ma che potrebbe non essere mai davvero applicata
Dopo essere stata per mesi “solo” un argomento per addetti ai lavori, la trattativa tra il governo australiano, Facebook e Google in vista dell’entrata in vigore del “News Media Bargaining Code” è diventata di rilevanza mondiale nel momento in cui il social di Mark Zuckerberg ha deciso di bloccare la condivisione di link ai siti di notizie australiane sulle proprie piattaforme (con il solito, ormai prevedibile, strascico di “errori” casuali e non, tra cui il blocco dei link verso i siti delle agenzie federali e dei servizi sanitari e di emergenza). Un atto di protesta estremo, che non ha precedenti nella storia dei social media, verso l’entrata in vigore di una legge che avrebbe obbligato entrambe le “Big Tech” a pagare i media australiani per poter ospitare i loro link sulle proprie piattaforme, e ad affidarsi a un arbitrato qualora non fossero riuscite a raggiungere un accordo sulla somma da corrispondere alla controparte, oltre a notificare a quest’ultima ogni cambiamento dei propri algoritmi.
Il “blocco” dei link di notizie da parte di Facebook ha avuto come effetto immediato quello di costringere il governo australiano a sedersi al tavolo dei negoziati: la legge approvata lo scorso martedì dal Senato australiano contiene ora una serie di emendamenti che consentono a Facebook e Google di essere esentati dall’applicazione delle norme del “News Media Bargaining Code” a condizione di aver già stipulato un numero sufficiente di accordi commerciali con i media locali (quanti? Non è dato sapere al momento). Se la legge originale obbligava le grandi aziende hi-tech a finanziare indiscriminatamente tutti i media australiani (con almeno 150 mila euro di fatturato) e ad attenersi a una procedura di arbitrato univoca per tutto il settore, con i nuovi emendamenti Facebook e Google possono stipulare accordi separati (cosa che Google aveva già cominciato a fare) senza alcun obbligo di trasparenza sulle cifre realmente corrisposte, e ad escludere i media locali e indipendenti che rifiuteranno una proposta iniqua senza che questo possa più portare automaticamente le “Big Tech” sotto il giudizio dell’arbitrato.
La “verità” di Facebook: le notizie rappresentano solo il 4% dei contenuti del NewsFeed, e siamo noi a decidere se farvene vedere ancora meno
È in questo senso che la versione finale della legge australiana appare oggi più come uno strumento di pressione per costringere Facebook e Google a “rimborsare” i grandi media locali di una parte dei guadagni pubblicitari persi negli ultimi anni, a causa della concorrenza spietata delle nuove tecnologie pubblicitarie digitali, piuttosto che come una normativa volta a sostenere lo sviluppo e l’indipendenza del giornalismo locale. Né nella legge, né negli accordi separati tra le due “Big Tech” e i media locali, è previsto infatti che una parte dei soldi corrisposti debbano essere vincolati al finanziamento di inchieste e attività giornalistiche propriamente dette, né tantomeno è prevista una qualche forma di sostegno per blog e iniziative di giornalismo “dal basso” che non raggiungano la cifra di 150 mila euro di fatturato annuo. Infine, come riportato dal New York Times, è il ministro delle Finanze a decidere quali aziende possono appellarsi alla protezione offerta dal Codice.
Illuminante, in questo senso, appare la versione di Facebook intitolata con sprezzo del ridicolo “The Real Story of What Happened With News on Facebook in Australia” e apparsa sul blog ufficiale dell’azienda a firma di Nick Clegg: per la stessa ammissione di quest’ultimo i link ai siti di notizie che appaiono sui Newsfeed degli utenti sono solo uno ogni 25 post visibili, ragion per cui Facebook non avrebbe alcun interesse né a ospitare né a pagare i media australiani dal momento che “sono questi ultimi a decidere se pubblicare o meno i propri contenuti sui social”. Un’affermazione tanto più sfacciata quanto più si pensa che sono proprio gli algoritmi di Facebook ad aumentare o ridurre arbitrariamente la visibilità delle notizie nel NewsFeed a scapito o a beneficio di altri contenuti: nella “realtà” immaginifica di Facebook i finanziamenti dovuti ai media australiani si trasformano così in una forma di paternalistica beneficienza, mentre rimangono irrisolte le questioni relative al proliferare di fake news e disinformazione sulla piattaforma che i suoi stessi algoritmi hanno contribuito ad amplificare.
Nel mentre, la notifica sui cambiamenti dell’algoritmo è passata in secondo piano (e chissà se qualcuno la riceverà mai)
In tutto questo non va dimenticato che uno degli elementi forse più innovativi dell’iniziativa australiana potrebbe non entrare mai in vigore: se Facebook e Google potranno eludere l’applicazione delle norme del Codice dopo aver raggiunto un numero minimo di accordi con i singoli editori, essi potranno quindi eludere anche quella specifica norma (paragrafo 52S) che avrebbe obbligato le piattaforme ad avvisare tutti gli editori tutelati dal Codice di ogni “rilevante” modifica degli algoritmi che potrebbe avere effetti sulla visibilità delle notizie sul motore di ricerca o nel NewsFeed del social media, in un linguaggio “comprensibile” e con un anticipo di “due settimane” rispetto all’entrata in funzione delle modifiche dell’algoritmo stesso. Un passo decisivo verso la trasparenza, seppur a vantaggio di un’unica industria (quella dei media), e che tuttavia potrebbe non essere mai compiuto proprio in ragione dei decisivi emendamenti dell’ultimo minuto.
Alla luce di questo, infine, si potrebbe arrivare nel giro di pochi mesi al paradosso per cui Facebook potrebbe ridurre ulteriormente la visibilità dei link ai siti di notizie nel proprio NewsFeed (ben sotto il 4% dichiarato da Nick Clegg) al fine di negoziare accordi più convenienti con i media locali ulteriormente indeboliti dalla perdita di traffico proveniente dal social, per non parlare di quello che potrebbe fare Google fin qui apparso decisamente più defilato ma allineato con Facebook dal punto di vista dell’obiettivo finale da raggiungere. Il venir meno dell’automatismo nello strumento di notifica dei cambiamenti dell’algoritmo ha come effetto quello di restituire alle due “Big Tech” il loro più potente strumento di pressione nei confronti dei media, di qualsiasi natura e dimensione: la possibilità di amplificare o restringere la visibilità dei loro contenuti sulle proprie piattaforme, nascondendosi sempre dietro la scusante che sono “gli utenti” a voler leggere “meno” notizie nel proprio newsfeed, senza alcuna possibilità di contradditorio basato su dati trasparenti e informazioni verificate da enti neutrali.
La lezione – australiana – è servita.