Il nuovo business del fact-checking
Non è volontariato, ma neppure giornalismo: luci e ombre dell’industria globale del fact-checking verso cui le grandi aziende tecnologiche stanno destinando risorse crescenti ma senza giungere a risultati apprezzabili in termini di qualità e trasparenza verso gli utenti.
I primi sospetti sulla qualità del servizio di “fact-checking” globale di Facebook sono iniziati poco meno di un anno fa, quando mi sono imbattuto nella notizia delle foto delle bare dei morti nel naufragio di Lampedusa del 2013 scambiate per fantomatiche bare dei morti di Bergamo, durante la prima ondata di pandemia da Coronavirus. A verificare la falsità del contenuto erano stati i “fact-checkers” di “Fact Crescendo”, partner del programma globale di fact-checking di Facebook, che dichiararono pubblicamente di aver utilizzato “Google Reverse Image” per risalire all’origine della foto: non conoscendo né la lingua italiana, né avendo alcuna conoscenza specifica del contesto italiano, dal momento che la loro sede centrale si trovava e si trova tuttora in Sri Lanka, questi “fact-checker” non potevano semplicemente fare una ricerca online come avrebbe fatto qualsiasi giornalista locale. Più che verificare la notizia in sé, si sono quindi limitati a verificare la data dello scatto: per fortuna loro (e nostra) gli è andata bene.
Il 99% dei contenuti segnalati potrebbero non essere neppure presi in considerazione dai fact-checker che lavorano per Facebook
I dubbi non sono diminuiti dopo aver letto pochi mesi dopo un report della NYU Stern School of Business in cui veniva dedicato ampio spazio all’analisi del programma di fact-checking di Facebook, che coinvolge tuttora 80 organizzazioni incaricate di analizzare le informazioni false o parzialmente false e segnalare queste ultime tramite un apposito messaggio di avviso agli utenti che frequentano il più grande social media al mondo. Secondo quanto ricostruito dal report della NYUE Stern, tuttavia, ciascuna di queste organizzazioni non impiegherebbe più di una manciata di “fact-checker” per volta, con il risultato di non poter far fronte al volume di segnalazioni quotidiane provenienti dagli utenti di Facebook: ad esempio, l’organizzazione di fact-checking no-profit PolitiFact,su un totale di 2.000 segnalazioni ricevute non riuscirebbe a verificare più di 20 informazioni potenzialmente “false” a settimana. Il 99% delle segnalazioni non troverebbe quindi riscontro nell’immediato, e non è dato sapere quante tra le segnalazioni rimanenti vengano elaborate dagli altri partner o semplicemente… ignorate.
Il termine “no-profit” che contraddistingue alcune organizzazioni di fact-checking da altre non deve trarre in inganno: secondo la stessa fonte la partecipazione al programma di fact-checking prevede un pagamento “a cottimo” in base al numero di segnalazioni effettivamente verificate (entro i limiti di un fisso massimo mensile), a prescindere dallo status dell’organizzazione che eroga il servizio. Lead Stories, di Los Angeles, si sarebbe in questo modo assicurata un guadagno di ben 359 mila dollari nel 2019 attraverso il lavoro svolto da soli sei “fact-checkers” impegnati part-time. Altri accordi, ben più rilevanti, sono tuttora coperti dal segreto commerciale: il direttore Global Partnership di Reuters ha dichiarato, a febbraio 2020, di non poter condividere gli aspetti finanziari del contratto di fornitura di servizi di fact-checking a Facebook, che ha portato alla creazione dell’unità di Reuters Fact Checking inizialmente composta da appena quattro persone per le sole lingue inglese e spagnolo.
Quanto potrebbe valere l’industria globale del “fact checking”?
Non esistono, al momento, indagini approfondite sul valore – attuale e potenziale – dell’industria del fact-checking a livello globale. Oltre alla relativa segretezza con cui sono stipulati gli accordi tra piattaforme e organizzazioni di fact-checking, infatti, è importante sottolineare come queste ultime siano tutto fuorché un’entità omogenea al proprio interno: dalle più grandi media company come Reuters alle nuove startup che hanno fiutato “l’affare”, da organizzazioni no-profit ad aziende quotate in borsa, i partner di fact-checking di Facebook sono entità molto diverse e costituite da professionisti di varia provenienza. Per qualche partner l’attività di fact-checking potrebbe essere l’unica fonte di ricavi e l’unica ragion d’essere, per altri come Reuters potrebbe rivelarsi una fonte di ricavi redditizia ma pur sempre minoritaria per l’azienda-madre: il fact-checking è un nuovo business e come tale altamente instabile, soggetto agli umori dell’opinione pubblica e alle pressioni dei governi nei confronti dei social.
Facebook, ovviamente, non è la sola azienda tecnologica ad aver stretto accordi di questo tipo: a fine 2019 le ricerche su Google mostravano ogni giorno 11 milioni di avvisi di contenuti potenzialmente falsi aggiunti dalle organizzazioni di fact-checking riconosciute dalla piattaforma, mentre nel 2020 TikTok ha stretto accordi con AFP per servizi di verifica dei contenuti rivolti agli utenti dei Paesi del Sud-Est asiatico. Per trovare una conferma indiretta della crescita dei prezzi nell’industria del “fact checking” si potrebbero seguire infine le ultime novità in casa Twitter, dove la ristrettezza dei mezzi finanziari è tale che il social media dei 280 caratteri ha preferito affidarsi al fact checking gratuito e volontario degli utenti (tramite il nuovo programma “Birdwatch”) anziché stipulare accordi ben più onerosi con i professionisti del settore. Da notare, tuttavia, come anche in questo caso la trasparenza sia tutto fuorché un fatto compiuto: gli utenti che accetteranno di fare i fact-checkers gratuitamente per Twitter potranno solo segnalare con una nota approfondita i tweet potenzialmente falsi, lasciando a non meglio precisati “moderatori” di Twitter la decisione ultima sulla presunta verità o falsità di una informazione.
I limiti del modello gratuito e di quello pagato “a cottimo”
Se il tentativo di Twitter di risparmiare sui costi del fact checking tramite una soluzione “mista” composta da volontari e moderatori sembra andare incontro a un inevitabile fallimento, per via delle evidenti contraddizioni tra un lavoro di verifica delle fonti e la mancata condivisione dei profitti derivanti da quest’ultimo (per non parlare dei possibili conflitti d’interesse dei fact-checker volontari su cui non è previsto alcun monitoraggio), nondimeno è difficile che il “modello Facebook” di esternalizzazione a pagamento dei servizi di fact-checking possa avere maggiori probabilità di successo. Almeno, fino a quando esso si fonderà sulla stessa mancanza di trasparenza che ha caratterizzato fin qui il ben più vasto ambito della moderazione dei contenuti: mancata trasparenza finanziaria, mancata trasparenza del processo di verifica dei contenuti e delle condizioni in cui operano i lavoratori.
Da un lato, il pagamento a cottimo e la totale arbitrarietà con cui le singole organizzazioni di fact-checking selezionano i contenuti da revisionare lascia supporre che nell’attuale sistema vengano revisionati solo quei post, video e immagini che richiedono il minor tempo possibile di verifica: al massimo, un veloce controllo tramite “Google Reverse Image” senza neppure provare davvero a capire il contesto e le motivazioni che hanno portato alla pubblicazione di una notizia falsa o volutamente incompleta. Dall’altro lato, come emerge da un’indagine realizzata nel 2019 da ricercatori della Yale e Harvard University, vi è il rischio concreto che alcuni utenti possano credere che i contenuti che non presentano alcun avviso siano stati già verificati e siano quindi da ritenersi di per sé veritieri: se l’immagine delle bare di Lampedusa scambiate per quelle di Bergamo difficilmente avrebbe tratto in inganno un utente italiano anche in mancanza di un avviso dei “fact-checker” dello Sri Lanka, la stessa immagine avrebbe potuto trarre in inganno un utente non italiano e ignaro dei tragici fatti della nostra storia recente. Per fortuna di tutti, quelli di “Fact Crescendo” hanno deciso di dedicare qualche minuto di lavoro proprio a quella triste vicenda.
2 Comments »