Che cosa mettere in discussione, che cosa imparare dall’ultimo “lockdown” che ha reso possibile la sperimentazione della didattica a distanza e asincrona per milioni di studenti.
È opinione comune che la scuola di oggi sia sempre meno in grado di assolvere al compito di preparare gli studenti al mondo del lavoro, e più in generale al mondo che li aspetta dopo la fine del percorso di studi “obbligatorio”. Opinione di per sé discutibile, ma che è giusto prendere in considerazione in un Paese al terzultimo posto in Europa per tasso di occupazione giovanile e dove il tasso di abbandono scolastico viaggia stabilmente a doppia cifra da trent’anni a questa parte. La scuola, così com’è organizzata oggi, scontenta un po’ tutti: dagli insegnanti soggetti a un’inutile e umiliante precarietà e mancanza di libera iniziativa, ai ragazzi che scoprono troppo tardi la distanza esistente tra il microcosmo delle aule scolastiche e la realtà che li attende al di fuori, ai genitori che devono adattare i propri ritmi di lavoro e di vita a un’organizzazione inflessibile che prevede luoghi e tempi di apprendimento dei figli non negoziabili.
Non è possibile ignorare quello che è successo durante il “lockdown”
Un’altra scuola, tuttavia, è possibile: ne abbiamo avuto una dimostrazione in occasione del primo “lockdown” della nostra storia nazionale, quando milioni di bambini, adolescenti e insegnanti hanno dovuto in breve tempo adattarsi ai vantaggi e ai limiti della didattica a distanza attraverso le tecnologie digitali. Qualcosa di impensabile, almeno fino a pochi mesi fa, e che rappresenta una rottura con il passato tanto più profonda e significativa quanto più oggi assistiamo ai disperati tentativi di tornare alla “vecchia” scuola: anziché adeguare la didattica al nuovo scenario di pandemia persistente, si è preferito gettare soldi al vento per assicurare una fornitura quotidiana di undici milioni di mascherine e due milioni di banchi a rotelle. Tutto, pur di portare indietro le lancette dell’orologio. Tutto, pur di non fermarsi a riflettere su ciò che si è appreso e su ciò che resta da apprendere da una situazione così eccezionale.
La fine del modello di scuola-fabbrica
Quanti studenti non vedono l’ora di tornare a scuola a settembre? Molti, ma probabilmente non tutti. Quando penso alla scuola non posso fare a meno di pensare alla sua rigida e immutabile organizzazione del tempo e degli spazi: agli ingressi e alle uscite a orari fissi, alle pause “merenda” contingentate e sotto la sorveglianza degli insegnanti, ai compagni di classe sempre uguali tra loro e alla disposizione di questi ultimi in file di banchi irregimentate, alle interrogazioni a sorpresa che hanno il solo scopo di verificare e all’occorrenza sanzionare la mancata “produttività” del singolo studente, alla burocrazia, al registro delle presenze, all’impossibilità di decidere il proprio percorso formativo all’interno di un medesimo ciclo di studi. La scuola è ancora oggi progettata per assolvere ai bisogni di manovalanza di una società industriale di stampo ottocentesco: più che un tempio essa assomiglia a una “fabbrica” del sapere, una organizzazione rigida nei suoi luoghi e tempi di lavoro che sembra essere più funzionale alla formazione di “masse” di operai dotati delle medesime competenze di base che non alla formazione di singoli individui orientati un percorso professionale liberamente scelto e in continua mutazione ed evoluzione, improntato all’apprendimento continuo in ogni campo del sapere.
“Another brick in the wall”
Che cosa c’entra, tutto questo, con il “lockdown” e la didattica a distanza? Che per la prima volta è apparso chiaro a tutti come i tempi e i luoghi dell’apprendimento di bambini e adolescenti non siano necessariamente vincolati alle cinque ore di lezione quotidiana, alla disponibilità di un edificio scolastico, alla lezione “in presenza” di insegnanti e compagni imposti da una volontà esterna. Per diverse settimane, infatti, nel periodo che va da marzo a giugno 2020 gli studenti hanno potuto seguire le lezioni da casa: per la prima volta i contenuti di queste ultime sono stati resi accessibili dai genitori, per la prima volta gli studenti hanno potuto rivedere la lezione registrata del professore o dell’insegnante e apprendere con i propri tempi e ritmi di studio, anziché adeguarsi a quelli del resto della classe. Per la prima volta, infatti, si è aperto uno spiraglio dentro quei luoghi da sempre resi inaccessibili a qualsiasi sguardo o interferenza esterna: quello spiraglio non si richiuderà, almeno non così facilmente e in maniera indolore come auspicano i sostenitori della scuola “tradizionale”.
Il bisogno di un apprendimento su misura per ogni singolo studente
In questo senso, la scuola emersa tra le mille difficoltà del lockdown è una scuola che sembra essere per certi aspetti molto più inclusiva e moderna di tutte quelle che l’hanno preceduta. Seppur con la difficoltà di assicurare a tutti gli studenti gli strumenti di accesso alla Rete (che dovrebbero a ragion veduta essere inseriti di diritto nella nostra Costituzione), la scuola “a distanza” ha dimostrato di poter rispondere – almeno in parte – ai bisogni più irrinunciabili della società del XXI secolo: il bisogno degli studenti di apprendere secondo tempi e ritmi che non sono necessariamente uguali a quelli degli altri compagni di classe, il bisogno dei genitori di non dover adeguare i propri ritmi di lavoro alle aperture e chiusure dell’edificio scolastico, il bisogno degli insegnanti di sperimentare modalità di insegnamento che vadano oltre la monotonia della conferenza orale. Questo, almeno su un piano teorico: non tutti sono stati in grado, o hanno voluto, approfittare delle possibilità che un cambiamento di tale portata ha reso accessibili. Non tutti sono stati sufficientemente disposti a cambiare metodi di insegnamento consolidati per adeguarli all’eccezionalità della situazione.
La scuola senza classi dei ragazzi di Scampia
La didattica a distanza, così come è stata gestita in occasione del “lockdown”, avrebbe potuto spingersi oltre e abbattere un’ulteriore barriera di ingiustizia e disparità tra studenti: questi ultimi avrebbero potuto servirsi delle tecnologie per seguire le lezioni di altri professori, più preparati o più adatti per le loro caratteristiche e condizioni sociali, oltre a studiare insieme e fare amicizia con studenti di altre classi e istituti senza essere più vincolati alla scuola del loro quartiere o città di residenza. Per la prima volta, uno studente di prima media di Scampia avrebbe potuto seguire le lezioni dei suoi coetanei che vivono in centro a Milano e viceversa: se è vero che la società odierna è tanto più diseguale quanto più sono diverse le condizioni e l’ambiente “di partenza” di ciascun individuo, la scuola “senza classi” predefinite e senza luoghi fissi di riferimento avrebbe potuto trasformarsi in una via di fuga da una condizione di emarginazione altrimenti inevitabile. Avrebbe potuto, se solo fosse maturata per tempo la consapevolezza di questa inedita possibilità.
Dal microcosmo “immobile” della classe al macrocosmo della realtà che cambia
Purtroppo, il processo organizzativo in atto sembra andare ostinatamente in direzione contraria rispetto a quella di un possibile cambiamento e adeguamento della scuola alla società del suo tempo. Anziché indagare approfonditamente sugli effetti della didattica a distanza, mettendo in evidenza ciò che ha funzionato e ciò che ha funzionato di meno, anziché provare a immaginare una scuola “diffusa” e “aperta” dove far convivere lezioni in presenza e a distanza, in contemporanea e in differita, negli edifici scolastici e in altri luoghi come musei, biblioteche, luoghi di produzione e luoghi di cultura, lasciando liberi gli studenti di scegliere i professori e i compagni di viaggio più adatti al proprio carattere e alle proprie inclinazioni intellettuali, si è preferito tornare anzitempo alla più rassicurante e meno impegnativa organizzazione statica e impersonale della scuola così come questa è stata vissuta da generazioni di persone così diverse tra loro. Ai cancelli che si aprono alle otto, alle interrogazioni davanti alla classe riunita, ai programmi uguali per tutti e alla forzatura di trascorrere cinque anni di fila con gli stessi compagni e gli stessi professori: non sorprendiamoci che un giovane su tre, al termine degli studi, abbia qualche difficoltà ad adattarsi non tanto al mondo del lavoro quanto della realtà esterna che cambia in continuazione. Anche senza il “lockdown”.