Che consumatore è quello che non può più “consumare” alcunché?
Il consumatore non è mai stato un soggetto passivo, malgrado la maggior parte degli esperti di marketing si vanti di poter generare desideri e bisogni dapprima sconosciuti, con la sola imposizione di una campagna pubblicitaria. Consumare, al contrario, è un atto cosciente che prevede l’appropriazione totale di un oggetto fino al suo esaurimento: per logorio, per distruzione, per rivendita o trasformazione.
Il consumatore è una persona che acquisisce il possesso delle cose per ottenere in cambio il diritto di disporre liberamente di queste ultime, seguendo consuetudini sociali o idee e inclinazioni personali. Attraverso il possesso, e quindi il consumo, degli oggetti, le persone esprimono se stesse, i propri gusti, le proprie aspirazioni personali: avere è una delle modalità di espressione dell’essere, anche quando il possesso si riduce a ben poca cosa.
Se i prodotti sono standard, non lo è il modo in cui questi ultimi vengono utilizzati e fatti propri dalle diverse culture e dai singoli individui. Ed è in questo processo, di graduale appropriazione e trasformazione, che gli oggetti prendono “vita”, entrano a far parte della nostra memoria e, di conseguenza, della nostra identità (e di quella di un’intera comunità. Si veda, a questo proposito, il saggio “L’impero delle cose. Come siamo diventati consumatori dal XV al XXI secolo” di Frank Trantmann, pubblicato in Italia da Einaudi).
Se è eccessivo dire che l’uomo è “ciò che consuma”, è altrettanto ingenuo pensare che la formazione dell’identità personale e l’espressione di sé possano prescindere dal possesso e dal consumo di determinati tipi di oggetti, rispetto ad altri. Non è solo una questione di buon gusto, o di consumo “ostentativo”: così come le forme più alte di espressione umana avvengono attraverso l’arte, la scrittura, la fotografia, il possesso e consumo di oggetti di uso comune è uno dei modi attraverso cui ci distinguiamo rispetto agli altri, conserviamo la memoria degli eventi passati ed esprimiamo le nostre idee e convinzioni, dalle più profonde alle più superficiali.
L’Internet delle Cose e la fine della proprietà privata
Che cosa succede, invece, nel momento in cui gli oggetti non sono più di nostra esclusiva proprietà, ma diventano solo “accessibili”? È qualcosa che sta già avvenendo, grazie alla nascita di un nuovo modello di produzione e utilizzo di oggetti che va sotto il nome di “Internet delle Cose”, in cui la proprietà passa decisamente in secondo piano (quando non viene apertamente sfavorita).
Gli oggetti connessi sono oggetti che possono sì essere ceduti e acquistati come gli altri, ma che possono anche essere “noleggiati” “on demand”, più velocemente rispetto a qualsiasi forma di “noleggio” diffusa in passato. Sono oggetti che conservano un doppio legame con chi li ha costruiti: per continuare a funzionare ed essere aggiornati dipendono dall’intervento continuo di una terza parte rispetto all’effettivo utilizzatore.
Dalla macchina alla casa, dal frigorifero alla bicicletta, sono sempre di più gli oggetti che possono essere “sbloccati” tramite smartphone dietro il pagamento di un abbonamento o di un importo una tantum, senza bisogno di altri intermediari o di strutture di deposito e distribuzione. Una volta terminato il noleggio, la bicicletta e la macchina vengono nuovamente “bloccati” e resi disponibili per il noleggio successivo, e la stessa cosa potrebbe avvenire per le case e gli oggetti “connessi” al loro interno.
L’oggetto connesso, soprattutto, è un oggetto la cui vita media aumenta a ogni nuovo aggiornamento del software che lo controlla: l’oggetto viene “consumato”, produce dati che servono a perfezionarlo, e viene “trasformato” a distanza dall’azienda produttrice. Il consumo non è più una prerogativa del solo utente, nel momento in cui la proprietà sull’oggetto non è più sbilanciata verso quest’ultimo: l’utente può consumare l’oggetto, entro limiti e tempi prestabiliti, ma la possibilità di modificarlo, trasformarlo, integrarlo con nuovi aggiornamenti e funzioni ritorna a essere prerogativa di chi lo ha prodotto.
Quello dell’Internet delle cose è un consumismo d’impresa, dove a un maggiore utilizzo degli oggetti corrisponde una maggiore capacità dell’impresa produttrice di accumulare dati e produrre aggiornamenti che vanno a migliorare le modalità di utilizzo e le performance dell’oggetto stesso. Con ogni probabilità non possederemo mai un’auto a guida autonoma: pagheremo il diritto di poterci salire a bordo e farci condurre a destinazione, ma senza poter uscire dai binari (pardon, dalle strade) che altri hanno programmato per noi.
Il risultato? Per noi che siamo nati negli ultimi scorci dell’era analogica non è raro pensare che i film, la musica, i giornali e perfino i libri “noleggiati” online abbiano un valore minore rispetto a quelli che acquistiamo offline, non ancora “connessi”. Non è solo una questione di consistenza materiale: gli oggetti digitali, o meglio digitalizzati, sono privi di quella parte fondamentale dell’esperienza di consumo degli oggetti che è la possibilità di manipolarli, di farli “nostri”, di dare loro un significato che oltrepassa il loro valore d’uso, fino al diritto di distruggerli in un eccesso di rabbia o di insofferenza.
L’Internet delle Cose ci offre la possibilità di accedere a un numero maggiore di oggetti, a un prezzo inferiore, in cambio della nostra rinuncia a possedere interamente questi ultimi e “consumarli” a nostra discrezione. Non è detto che sia un cambiamento assolutamente negativo: resta da vedere su quali altri supporti conserveremo la memoria di quello che siamo stati, di quello che siamo e di quello che avremmo desiderato andasse diversamente, nel momento in cui non resta più nulla a testimoniarlo al di fuori di noi e della lista di transazioni memorizzata sul nostro smartphone.