Un approfondimento sulla vicenda che ha visto CloudFlare sospendere la protezione contro gli attacchi DDoS a The Daily Stormer, dopo i fatti di Charlottesville.
«Mi sono svegliato di cattivo umore questa mattina, e ho deciso di cancellare The Daily Stormer da Internet». Con queste parole, il CEO di CloudFlare ha spiegato ai suoi dipendenti la decisione di cancellare unilateralmente The Daily Stormer dalla lista dei propri clienti, come riportato da una mail trapelata su GizModo.
CloudFlare è uno tra i più popolari servizi di Content Delivery Network al mondo. Grazie a esso, il sito dei suprematisti e neonazisti americani – The Daily Stormer – ha potuto fino ad oggi continuare ad agire indisturbato, protetto dagli attacchi DDoS di quanti, tra cui Anonymous, avrebbero volentieri cancellato da Internet i suoi articoli incitanti all’odio, al razzismo, al sessismo, all’antisemitismo.
La scelta di CloudFlare non è stata né improvvisa, né coraggiosa come il suo CEO vorrebbe far credere nel lungo post pubblicato sul proprio blog corporate. Basti pensare che fino ad alcuni mesi fa CloudFlare – per policy aziendale – inoltrava a The Daily Stormer perfino le mail e i riferimenti di coloro che scrivevano all’indirizzo del content delivery network per protestare contro i contenuti del sito antirazzista, esponendoli alle rappresaglie dei gestori di quest’ultimo (la policy è cambiata solo dopo che un articolo di ProPublica aveva fatto luce sulla vicenda).
Ancora nel 2013 il CEO di CloudFlare dichiarava che «un sito non è una bomba, non crea un pericolo immediato e nessun provider è obbligato a monitorare e prendere decisioni sul suo contenuto». Evidentemente, allora non si era svegliato di cattivo umore.
CloudFlare non è stato il primo, non sarà l’ultimo
In realtà CloudFlare è stata solo l’ultima di una serie di importanti aziende tecnologiche ad aver fatto terra bruciata attorno a The Daily Stormer, dopo essere state messe sotto accusa su Twitter da alcune personalità di rilievo sul web – tra cui Amy Siskind.
.@GoDaddy you host The Daily Stormer – they posted this on their site. Please retweet if you think this hate should be taken down & banned. pic.twitter.com/fqTtGoTbmn
— Amy Siskind (@Amy_Siskind) 14 agosto 2017
La goccia che ha fatto traboccare il vaso è stato un articolo di The Daily Stormer in cui veniva insultata pesantemente Heather Heyer, la ragazza di 32 anni uccisa sabato scorso da un’auto lanciata contro la folla di dimostranti antirazzisti a Charlottesville. Nei giorni successivi, su pressione degli utenti, The Daily Stormer è stato rimosso prima dal provider GoDaddy, e successivamente si è visto chiudere i suoi principali account social.
We informed The Daily Stormer that they have 24 hours to move the domain to another provider, as they have violated our terms of service.
— GoDaddy (@GoDaddy) 14 agosto 2017
In questo contesto, CloudFlare è rimasto nell’arco di poche ore l’unica grande azienda a essere ancora direttamente collegata al sito neonazista, e non in una maniera qualunque.
Grazie al servizio fornito, e come espressamente ammesso dal suo CEO nel post sul blog aziendale, CloudFlare garantiva la sopravvivenza di The Daily Stormer, in un mondo in cui «la possibilità e la facilità di attaccare un sito fanno sì che chi non abbia un network come CloudFlare per proteggere il proprio contenuto venga rapidamente estromesso dalla Rete». Mai come in questo caso dire dove finisca l’autopromozione e dove inizi la propria “corporate social responsability” è difficile da stabilire.
Una mattina, mi son svegliato…
La chiave della vicenda è tutta in quell’espressione usata dal CEO di CloudFlare nella mail rivolta ai dipendenti dell’azienda. Senza esagerare con i riferimenti ai partigiani della nostra Resistenza antifascista e antinazista, anche lui una mattina “si è svegliato” e ha preso una decisione che nessun giudice e nessuna “policy” interna gli avrebbero imposto. Non in tempi rapidi, comunque.
A prescindere dall’opportunismo di CloudFlare, la domanda su come le aziende tecnologiche – inclusi i social network e i motori di ricerca – debbano comportarsi nei confronti dei contenuti che grazie a loro vengono pubblicati, protetti, conservati e fatti circolare, resta più attuale che mai.
È ormai evidente come l’ambizione di essere “neutrali” rispetto al contenuto che costituisce il “core business” della piattaforma si sia rivelato essere solo uno slogan pubblicitario, necessario a prendere tempo in attesa che qualcun altro faccia la prima mossa. La neutralità è un attributo degli oggetti, non delle aziende né tantomeno delle persone che le dirigono.
E se fosse invece venuto il momento di “svegliarsi”, e riconoscere la propria parte di responsabilità nella proliferazione di una cultura fondata sulla violenza?
Attenzione: non ci si può sempre svegliare di cattivo umore.
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