Come ogni cosa, anche per gli utenti di Internet esiste sempre una prima volta. Per qualcuno coincide con la scoperta di Snapchat, Facebook, o Badoo. Per me, con la Strage di Ustica.
Bologna, 9 luglio 2017, via Giovanni Da Saliceto. Poco lontano da via Stalingrado, nell’area dimessa degli ex depositi tranviari, sto visitando per la seconda volta nella mia vita il Museo per la Memoria di Ustica.
All’interno di uno dei capannoni è custodito ciò che resta del relitto del DC-9 Itavia abbattuto sui cieli del Tirreno, a metà strada tra le isole di Ponza e Ustica, una sera di giugno di trentasette anni fa. L’ingresso è gratuito: peccato, avrei dato volentieri qualcosa per contribuire a mantenere questo museo.
Oltre la porta a vetri, in un grande spazio interrato, la balaustra circonda interamente il corpo disgregato dell’aereo, ricostruito adagiando i frammenti recuperati dal mare su una gabbia di ferro. Solo la coda, quasi sproporzionata nella sua altezza, è rimasta intatta.
Appese a mezz’aria, 81 lampadine lampeggiano in sincronia. 81 specchi neri riflettono le ombre dei visitatori, che invano vi guardano dentro nella speranza che qualcosa, prima o poi, accada.
Dietro gli specchi, invisibili, 81 altoparlanti nascosti ripetono gli ultimi pensieri (immaginari) delle 81 vittime del volo IH870: a malapena si distinguono le voci di bambini, anziani, donne sole, uomini di mezz’età. Senza un volto cui far riferimento, anche quelle parole sembrano solo relitti di un passato che non può più tornare.
Dallo spettacolo di Paolini alle prime ricerche online
Ho iniziato a seguire gli sviluppi della strage di Ustica molto prima di visitare questo museo, pochi giorni prima di compiere tredici anni.
Era di sera, e avevo visto in televisione – per puro caso – una replica dello spettacolo teatrale di Marco Paolini “I Tigi, Canto per Ustica”, portato in scena per la prima volta nel 2000 a Bologna e Palermo.
Commosso, desideroso di saperne di più, e non trovando risposte né tra i più grandi, né tantomeno tra i coetanei, né sui giornali o sui libri in biblioteca, mi ero messo a cercare su Internet qualche informazione ulteriore. Man mano che cercavo, di sera, dopo aver completato i compiti scolastici, mi rendevo conto di avere a che fare con una storia molto più lunga e inesauribile di quelle che avevo letto finora nei libri o visto nei film.
È stato così che, a 13 anni, ho stampato quasi cinquemila pagine web dedicate esclusivamente alla strage di Ustica, per poterle leggere anche durante le ore in cui non avrei potuto connettermi. Dentro c’era di tutto: articoli d’archivio di giornale, blog, gallerie di immagini, commenti da parte di esperti. Mai avrei potuto pensare, prima d’allora, che altri uomini avessero dedicato gran parte del loro tempo a mettere in comune informazioni e conoscenze per venire a capo, collettivamente, di un mistero su cui regnava ancora l’omertà più assoluta.
Che cosa sa, di Internet, la generazione Snapchat?
A tredici anni, in maniera assolutamente casuale e senza ricevere alcuna educazione o informazione preliminare, avevo preso coscienza del fatto che Internet potesse essere uno strumento per avere accesso a informazioni non consultabili altrove, in assenza di un panorama culturale circostante all’altezza del mio desiderio di conoscenza. Ci sarebbero purtroppo voluti molti anni ancora per capire che la conoscenza stessa poteva (e doveva) essere qualcosa di vivo, mutevole, infinitamente migliorabile, invece che una serie di informazioni cristallizzate trasmesse in maniera unidirezionale dai professori agli studenti, dai libri agli studiosi, dai giornali ai lettori.
Pur essendo arrivato in ritardo rispetto alla prima, mitica epoca di Internet, avevo fatto in tempo a coglierne il lato più propriamente umanistico: la Rete come un mezzo per coltivare le proprie aspirazioni intellettuali e metterle in comune con un numero indefinito di altre persone. Avrei fatto la stessa scoperta, mi chiedo ora, se fossi nato qualche anno dopo, nel pieno della spettacolarizzazione di Internet e della popolarità dei social network? Se il mio primo punto fisico di accesso a Internet non fosse stato un computer e il suo modem a 56k, disponibile solo per un limitato periodo di tempo e quindi da sfruttare al massimo delle possibilità, senza ammettere distrazioni rispetto all’obiettivo principale della mia ricerca, ma uno smartphone perennemente connesso e ridondante di notifiche?
Probabilmente, come molti adolescenti di oggi, avrei visto per la prima volta la Rete come un mezzo per sconfiggere la solitudine, la timidezza, le insicurezze legate a una certa età: uno specchio infinitamente deformabile tra la mia immagine e il resto del mondo, piuttosto che un telescopio puntato verso il passato e il presente dell’umanità. A meno che qualche genitore o ragazzo più grande, sufficientemente adulto per capire che anche Internet, come tante altre cose, ha una sua “prima volta” fondamentale, non non mi avesse preso da parte per spiegare che esiste altro al di fuori dei “post” dei miei coetanei o degli influencer più seguiti: uno spettacolo come quello di Marco Paolini, purtroppo, non ha ancora oggi eguali su Instagram, né su TikTok, e difficilmente potrebbe essere consigliato da un algoritmo a un ragazzo di tredici anni che non ha mai sentito parlare prima di un aereo inabissatosi tanto tempo fa con il suo carico di vite umane, spezzate per sempre da un missile premuto da un soldato senza volto.