LinkedIn, Microsoft e il supermarket dei social media
Quanti degli iscritti attuali di LinkedIn si sarebbero registrati al social media se questo fosse stato fin dall’inizio di proprietà di Microsoft? E che cosa dobbiamo aspettarci, ora che i nostri dati entreranno in possesso di una delle più importanti aziende hi-tech al mondo? L’ho chiesto ad Alessandro Gini, tra i maggiori esperti e formatori di LinkedIn in Italia.
Inattesa, imprevista perfino dagli analisti e dai giornalisti più informati, l’acquisizione di LinkedIn da parte di Microsoft avvenuta in questi giorni per la cifra di 26,2 miliardi di dollari si configura come un precedente importante nella storia non ancora scritta dei social network.
Da un giorno all’altro, infatti, i dati degli oltre 400 milioni utenti di LinkedIn passeranno (quando non sono già passati) nelle mani di Microsoft in prospettiva di un’integrazione tra i servizi dell’azienda di Redmond e quelli del social di Mountain View, non ancora definita nei dettagli resi finora pubblici.
“Microsoft non ha acquisito LinkedIn per mettersi in scuderia un cavallo di razza – mi dice, al telefono, Alessandro Gini, fondatore e trainer di LinkedIn4business, una delle più importanti realtà indipendenti in Italia che si occupa di formazione e consulenza per l’uso efficace di LinkedIn – Il vero valore sono i dati del social network, e tutt’ora non è chiaro che cosa Microsoft intenda farci con questi dati. Le modalità di integrazione tra le due aziende non sono ancora del tutto chiare”.
La domanda che sorge spontanea, in questi casi, è la stessa nata in occasione dell’acquisito di Instagram e Whatsapp da parte di Facebook: quanti utenti avrebbe avuto oggi LinkedIn, se questo fosse stato di proprietà di Microsoft fin dall’inizio della sua storia? Probabilmente, gli stessi utenti attivi di Google Plus, a parità di user experience.
Satya Nadella e Jeff Weiner commentano l’acquisizione di LinkedIn
Del pari, è lecito chiedersi quanti utenti avrà in futuro LinkedIn, ora che siamo tutti consapevoli del fatto che ogni nostra attività sul social avrà come conseguenza quella di cedere informazioni private sulla nostra attività professionale non a un’azienda di 3 miliardi di fatturato, che fino ad oggi li ha utilizzati per proporci offerte di lavoro in linea con i nostri desiderata, o al massimo qualche contenuto sponsorizzato poco invasivo, ma a un colosso dell’hi-tech mondiale che ha come principali obiettivo quello di vendere software e servizi cloud ad aziende e professionisti.
L’argomento è complesso, di non facile lettura né previsione: va oltre il dibattitto sulla privacy, e impatta direttamente sulla fiducia che riponiamo nei social network quali estensioni naturali della nostra identità digitale.
Utilizzeremmo Facebook e Twitter con la stessa spontaneità che abbiamo ora, se fossimo certi che un giorno saranno acquisiti da Apple o Google? Eventualità molto remota nel primo caso, non troppo nel secondo. Dopo l’acquisizione di LinkedIn, infatti, Goldman Sachs ha già tracciato un quadro molto realistico delle merci in esposizione nel supermarket sempre aperto dell’hi-tech: e il social dell’uccellino è quello attualmente più sensibile a cedere alle lusinghe dei possibili compratori.
Dal punto di vista degli utenti viene spontaneo tuttavia constatare che solo nel momento in cui queste piattaforme, che ospitano una parte considerevole della nostra esistenza, cambiano padrone, ci accorgiamo in che misura la nostra vita, non solo quella professionale, dipenda dalla loro correttezza e trasparenza.
In un certo senso, è un po’ come se l’azienda per cui abbiamo lavorato per una vita improvvisamente cambiasse proprietà senza che nessuno di noi fosse stato interpellato: ci abbiamo dedicato così tanto tempo a creare un profilo seducente, a misurare le parole e a ricevere raccomandazioni e segnalazioni, a scegliere la foto migliore – in sostanza a lavorare, oltre che per noi stessi, per il social stesso in quanto community coerente di utenti – che un po’ consideravamo LinkedIn come nostro. Sbagliavamo.
LinkedIn, la parola all’esperto

Alessandro Gini, founder e formatore LinkedIn4business.
Secondo Alessandro Gini, le prospettive di sviluppo di LinkedIn prima dell’acquisizione di Microsoft apparivano tutt’altro che rosee, senza però essere fosche come quelle di Twitter.
A inizio 2016 LinkedIn ha perso oltre il 40% del suo valore in Borsa, dopo la comunicazione dei risultati dell’ultimo trimestre 2015 inferiori alle attese degli analisti.
La vulnerabilità della piattaforma è apparsa lampante nell’ultimo mese, quando è venuta fuori la notizia che oltre 117 milioni di password erano state violate nel 2012.
Bug non sanati, invii multipli non autorizzati di richieste di connessione, e una persistente difficoltà ad aumentare l’attività sulla piattaforma da parte degli iscritti hanno rallentato e rallentano tutt’ora la crescita di LinkedIn.
“La frustrazione quotidiana dell’utente medio di LinkedIn dipende da dettagli minori – sostiene Alessandro Gini – ad esempio, il fatto che per vedere gli aggiornamenti di una persona si debba fare click sul menu a tendina posto vicino al pulsante ‘invia messaggio’, oppure la pessima organizzazione delle opzioni di gestione delle richieste di collegamento inviate e ricevute”. LinkedIn e Microsoft, a detta del nostro esperto, condividono già da tempo un approccio alla user experience decisamente perfettibile: “non è un caso se il peggior browser per navigare in LinkedIn è Internet Explorer, e la peggiore app è quella di Windows Phone”.
Malgrado tutte le difficoltà, finanziarie e di user experience, LinkedIn è ormai diventato uno strumento imprescindibile per consolidare la propria carriera e cercare nuove opportunità lavorative. Il suo impatto sulle dinamiche del mondo del lavoro in pochissimi anni è stato tale che, come sottolineato da un articolo del New Yorker, nell’era di LinkedIn avere avuto un solo impiego è considerato quasi come un fallimento.
LinkedIn in questi anni ha sofferto, forse oltre le previsioni, una costante divaricazione tra quella che doveva essere la sua mission originaria e la modalità con cui l’hanno interpretata utenti e aziende.
“LinkedIn è visto da utenti e inserzionisti sempre più come una media company – sottolinea Alessandro Gini – eppure deve ancora oltre la metà del suo fatturato alla vendita di servizi di HR alle aziende. La vendita di servizi di marketing è ancora minoritaria rispetto al totale, e deve fare i conti con i costi ben più competitivi degli altri social media e una community di utenti attiva in maniera discontinua”.
LinkedIn, infatti, si mantiene tutt’ora in bilico tra il perfezionamento di una piattaforma di disintermediazione delle attività di HR a favore di un contatto diretto tra candidati e aziende, e l’offerta crescente di strumenti e servizi di marketing che tutt’ora mantengono un costo decisamente alto per gli inserzionisti (29 dollari è il CPM globale di LinkedIn secondo Salesforce).
Se, come par di intuire dalla lettera del CEO di LinkedIn ai dipendenti dopo l’annuncio della storica acquisizione, il futuro di LinkedIn dipenderà in misura determinante dal sostegno del gigante finanziario e tecnologico che ora ne detiene la proprietà, resta da vedere quale sarà la risposta degli utenti.
Come sa chiunque abbia seguito più piccole variazioni di Twitter negli ultimi anni, è una regola non scritta che la diffusione di un social dipenda proporzionalmente dal livello di sintonia che quest’ultimo riesce a instaurare con i suoi utenti più attivi: i cambiamenti nelle regole del servizio possono essere accolti con favore, o rigettati, ma difficilmente vengono accettati con rassegnazione. Un social, al contrario delle aziende tradizionali, non esiste al di fuori del consenso della maggioranza dei suoi utenti.
“A livello globale LinkedIn non ha concorrenti diretti. Ma è in questi momenti di transizione – conclude Alessandro – che le persone prestano maggiore attenzione a quello che si muove intorno a loro”.
Jacopo Franchi
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