Sommario: Vita e opere di Gian Francesco Secchi de Casali, piacentino, fondatore e direttore del primo giornale in lingua italiana negli Stati Uniti, «L’Eco d’Italia» (1850-1894), e promotore della colonizzazione italiana di Vineland, nel New Jersey.
L’articolo ricostruisce, in sei paragrafi, la nascita a Piacenza, l’esilio volontario, i primi anni a New York, lo sviluppo del giornale e della colonia italiana, la comparsa di una letteratura dell’emigrazione. «L’Eco d’Italia» è una fonte di primo livello per la storia dell’emigrazione italiana (questo post è stato pubblicato originalmente come Gian Francesco Secchi de Casali. Il pioniere della stampa italiana in America (Piacenza, 1819 . Elizabeth, New Jersey, 1885), in «Bollettino storico piacentino», 2011, fasc. 2°)
È sommamente grato a noi italiani di vedere come,
in questi tempi che corrono sì tristi e pericolosi,
l’Eco d’Italia si mantenga indipendente e giudichi
i fatti senza timore, denunciando in par tempo
ed i secessionisti del Sud ed i fanatici del Nord
che, pro o contro la schiavitù, vorrebbero distruggere
quest’Unione, ch’era invidia di tutti i despoti
e l’ammirazione de’ popoli oppressi.
(Lettera al direttore, in «L’Eco d’Italia», 11 ottobre 1862)
0. Gian Francesco Secchi de Casali: una storia dimenticata
La storia di questo emigrato piacentino è stata tanto importante quanto dimenticata del tutto nella sua città natale. L’ultimo dizionario biografico che riporta il suo nome è quello di Luigi Mensi[1]. L’ultimo a scriverne, tra gli storici, è stato Emilio Ottolenghi nella «Scure» del 10 giugno 1931, in sette righe[2]. A Secchi de Casali non è intestata né una piazza, né una via. Al contrario, egli lasciò un segno della sua origine italiana proprio in quella città, Vineland, dove aveva fondato una colonia modello, dedicando una piazza a Gian Domenico Romagnosi e una via a Piacenza. A tutt’oggi, «Piacenzia Avenue» (con la grafia modificata all’americana) è l’unico segno visibile del suo lavoro in terra d’America.
Eppure il suo nome deve aver riscosso un certo successo a New York e nella comunità italiana degli Stati Uniti, grazie alla felice intuizione di dar vita a un giornale, «L’Eco d’Italia», il primo in lingua italiana pubblicato in America, con un taglio marcatamente cronachistico, e all’avvio di numerose iniziative filantropiche in favore dei connazionali. Come un grande forziere di memorie, dentro alla storia di Secchi de Casali si possono riscoprire le vicende trasversali di emigranti, patrioti e innovatori che il giornalista ha incontrato e, puntualmente, registrato nella sua pubblicazione, diffusasi in tutto il Nuovo Mondo nel giro di pochi decenni.
Come si vedrà, non solo la sua peregrinazione da un capo all’altro dell’oceano Atlantico ha dello straordinario, come tutte le emigrazioni di quel tempo, ben descritte da Edmondo De Amicis nel romanzo Sull’Oceano[3], ma il suo sostegno alla causa risorgimentale italiana e al miglioramento delle condizioni di vita degli emigrati fu, se non determinante, certo significativo per i tempi e i modi del suo agire.
“Per taluni valorosi è ora facile proclamarsi grandi scrittori, grandi giornalisti, grandi patrioti, ma 35 o 40 anni fa l’apostolato della causa e della stampa in lingua italiana in questi paesi era ben altra cosa: era irto di spine ed io ho percorso quel cammino per lungo tempo, senza lagni come senza spavalderie; contento soltanto che sulla mia povera fossa qualcuno voglia rendermi giustizia iscrivendovi sopra: Qui giace il pioniere della stampa italiana in America[4]“
Così egli ha voluto essere ricordato, al termine dell’autobiografia a puntate Trentott’anni in America pubblicata sull’«Eco», della quale è rimasto solo uno stralcio, seppur ampio, nelle copie conservate[5].
Come uno di quei tesori che giacciono sepolti, sotto cumuli di terra e detriti, per lunghissimo tempo, e che solo un gesto casuale riesce a riportare alla luce, la riscoperta di Secchi de Casali ha avuto bisogno di un lungo antefatto e di una ricerca, al principio, assai fortuita.
Mi sono imbattuto nel suo nome nel corso della mia tesi di laurea sui giornali di Piacenza del periodo risorgimentale[6]. Sfogliando l’imponente collezione della biblioteca comunale Passerini Landi, ho scoperto una sua corrispondenza privata con il padre, da quest’ultimo pubblicata sull’«Eridano – Gazzetta Piacentina» nel giugno 1848[7]. Un secondo segnale, quello decisivo per mettermi in guardia, è arrivato dalla lettura attenta del settimanale «La Provincia», dodici anni più tardi, quando «L’Eco d’Italia» era ormai pienamente consolidato e un suo articolo era citato dal direttore Francesco Favari[8].
Uno strano destino ha avvolto questo giornale: diffusosi in tutta America e in Italia, le sue copie sono state brutalmente distrutte dall’incuria del tempo e dalla sua improvvisa chiusura prima del nuovo secolo. A Piacenza, le uniche copie conservate sono quelle dei primi quattro mesi del 1870, oltre a tre numeri del 1875, donate dal conte Scribani Rossi e custodite nel Fondo Antico della biblioteca Passerini Landi (fig.1, L’istituzione del liceo italiano in via Leonard, con incisioni ricavate dal giornale «Harper’s Weekly», in «L’Eco d’Italia», 24 aprile 1875).
A questo punto, è stato giocoforza mettermi a cercare questo nome – Secchi de Casali, con quella parvenza di nobiltà perduta – all’interno della biblioteca digitale e, ormai si può dire, mondiale, di Google Libri. Il riferimento più importante è stato quello di poche righe, per diritti di copyright, che il programma ricavava da Italoamericana – Storia e letteratura degli italiani negli Stati Uniti, antologia curata da Francesco Durante per Mondadori[9]. Quest’ultimo, ora caporedattore del «Corriere del Mezzogiorno», contattato telefonicamente, mi ha dato l’imbeccata decisiva per recuperare le copie più numerose dell’«Eco» ancora presenti, seppur in microfilm, nel nostro Paese. Ho così potuto scorrere le sue pagine, fitte di articoli, corrispondenze e pubblicità, nei locali della biblioteca universitaria di Firenze. Diciannove bobine microfilm, copiate dalla collezione della New York Public Library nel 1959 e inviate in Italia in occasione di un’importante mostra di periodici. Bobine che prima della mia ricerca non erano registrate nell’Opac fiorentino, per chissà quali ragioni, ed erano custodite, per metà ancora sigillate, presso la locale biblioteca Nordamericana del polo universitario. Collezione lacunosa, che ignora i primi dieci anni del giornale, comincia nel 1862, continua con il 1865 e il 1869, e va avanti in modo più o meno completo fino alla morte di Secchi de Casali e oltre, negli ultimi anni di pubblicazione del giornale, sotto la guida del banchiere Felice Tobacci[10].
Sulla scorta di questi materiali, nei mesi seguenti ho potuto mettere assieme altre pubblicazioni e sporadiche apparizioni di questa vicenda fra gli articoli dei giornali locali. Prima del sopraccitato articolo di Ottolenghi, c’è anche una breve biografia scritta da Giovanni Bianchi per la «Strenna» del 1884[11], assieme al necrologio apparso sul «Progresso»[12] e, con due anni di ritardo, su «Libertà»[13]. Nelle pubblicazioni riportate, in tutto o in parte, da Google Libri, sono rilevanti il poderoso Four centuries of italian-american history di Giovanni Schiavo[14] e Sons of Garibaldi in blue and gray: Italians in the american civil war, di Frank W. Alduino e David J. Coles[15].
Per un profilo esaustivo della vita e dell’opera di Secchi de Casali, e che al tempo stesso ne inquadri la vicenda all’interno della storia dell’emigrazione italiana, ho suddiviso il mio scritto in sei paragrafi: il primo prenderà in esame gli anni precedenti la fondazione dell’«Eco d’Italia», i documenti che attestano la nascita di Secchi de Casali a Piacenza e alcune notizie biografiche, in parte romanzate dal loro stesso protagonista. Con la nascita del giornale, i destini del Secchi de Casali, emigrante e patriota, e quelli del giornalista, rappresentante di fatto di una buona parte della comunità italiana a New York, arrivano a combaciare: il giornale diventa così la fonte più importante per ricostruire le vicende della seconda parte della sua vita, suddivisa nei tre paragrafi successivi. Gli ultimi due sono dedicati alle prime testimonianze di una letteratura “coloniale”, i cui racconti sono apparsi proprio sull’«Eco d’Italia», e alla scomparsa del Nostro, il 10 giugno 1885.
Tutto questo, nella speranza che un giorno anche la moderna Piacenza possa avere una sua «Strada Gian Francesco Secchi de Casali», e possano avere nuovo incentivo le ricerche storiche su quanti, in un tempo lontano, hanno lasciato la nostra terra per cercar fortuna altrove[16].
1. Un emigrante giovanissimo
Francesco Giovanni Bernardo Mario Secchi nasce il 25 aprile 1819 da Luigi Secchi e Maria Casali, residenti in Strada Levata Sud (oggi via Taverna), numero 157, in una casa di proprietà, e viene battezzato il giorno seguente dal prevosto Carlo Volpini, nella parrocchia dei Santi Nazario e Celso. Padrino e madrina dell’infante sono Luigi Magnani e Maria Francischelli[17]. Dallo stato delle anime della medesima parrocchia ricaviamo la composizione della famiglia, di modeste condizioni e dimensioni: il padre ha 38 anni e fa l’ «appaltatore»[18]; la madre ha 30 anni e ha già avuto una bambina, Giuseppa, due anni prima. Divenuto adulto, il più piccolo della famiglia Secchi assumerà anche il cognome materno, diventando Gian Francesco Secchi de Casali[19].
A dodici anni, come ricordato da Giovanni Bianchi, entra in seminario. Purtroppo non sono disponibili dati che certifichino la sua presenza, in quanto i registri degli allievi superstiti non coprono il periodo che va dal 1815 al 1849. La prima data significativa della sua esistenza è quella dell’anno 1836 allorché, appena diciassettenne, è costretto a emigrare dal Ducato in seguito alle accuse di cospirazione contro i gesuiti che colpiscono lui e altri studenti, come riportato dal necrologio di «Libertà»[20]. È probabile che, con il ritorno dei gesuiti in città il 25 luglio, il giovane Gian Francesco si sia ribellato alla carriera ecclesiastica che la famiglia aveva deciso per lui[21].
Dopo essersi sostentato da sé lavorando come commesso viaggiatore di libri nel Piemonte, allora prima patria per gli “indesiderati” italiani, comincia un viaggio avventuroso e carico d’insidie attraverso i Paesi che si affacciano sull’altro lato del Mediterraneo. Il suo percorso ricorda vagamente quello di Ulisse. Ma non si tratta dell’Ulisse omerico, bensì di quello dantesco, alla ricerca costante di virtute e canoscenza. Le motivazioni principali di questa “Odissea” non sono solo le persecuzioni subìte in patria, bensì si trovano in un tratto molto singolare del suo carattere, che ne fa quasi il personaggio di un romanzo di formazione.
Il giovane Secchi de Casali rimane a lungo indeciso su cosa fare della propria vita. Non lo convincono né la prospettiva di un’esistenza tutto sommato tranquilla, garantita dalla città di provincia, né la promessa di gloria che tanti cospiratori suoi coetanei vanamente cercavano, affiliandosi alle società segrete. È possibile che, dopo la sfortunata esperienza del 1836, egli abbia maturato una visione molto disincantata e realistica della situazione politica, giudicando controproducenti l’attività rivoluzionaria e le insurrezioni popolari, e riponendo tutte le speranze nella diplomazia e nell’abilità politica dei governanti.
Con uno spirito d’adattamento davvero encomiabile, dal 1836 al 1843 soggiorna in Algeria, dove milita fra le truppe degli zuavi francesi, in Grecia, dove si spinge fino alle Termopili, per far rotta, infine, verso il Libano e la Siria. Il 4 novembre 1840 è a San Giovanni d’Acri, dove assiste al bombardamento della città da parte delle squadre navali francese, inglese a austriaca, che cercano di spezzarne l’isolamento imposto dal dominio egiziano. Ultima tappa di questa avventura è proprio l’Egitto, ma anche qui si trova nel mezzo di combattimenti, e decide di salpare il 20 marzo 1843 alla volta della Toscana, in un battello turco. La storia di questa peregrinazione attraverso il Mediterraneo è narrata, per sommi capi, dallo stesso Secchi de Casali in un articolo apparso sul «Sartain’s Union Magazin», rivista americana semestrale[22].
Di ritorno dall’Egitto, il nostro uomo sopravvive a una traversata avventurosa, assieme a un equipaggio che sembra del tutto sprovvisto di cognizioni nautiche, e scampa miracolosamente a una forte tempesta sulle coste della Sicilia e all’inevitabile assalto dei pirati. La nave giunge finalmente a Livorno, dove l’equipaggio è segregato in quarantena, nel lazzaretto di San Jacopo, e Secchi de Casali è subito riconosciuto dalle autorità locali per il suo passato di “cospiratore”.
Comincia così, in una situazione con poche prospettive e senza un soldo in tasca, la sua carriera di uomo di “pubbliche relazioni”: un misterioso Domenico viene a rendergli visita al Lazzaretto e lo introduce alla corte di una nobildonna, raffinata e infelice, che si presenta fin da subito come una lontana cugina. I due si incontrano nella Firenze di Leopoldo II, ai tempi del Granducato di Toscana, e stringono un’intima amicizia. Il loro rapporto si chiude bruscamente, nel volgere di pochi mesi, a causa dall’improvvisa partenza di lei, ma questa breve avventura riesce a sottrarlo al controllo asfissiante della polizia[23].
Quanto di vero ci sia in questa storia, chi dei due abbia fatto il primo passo verso l’altro, se la nobildonna fosse una “cugina” di sangue o di spirito, non modifica comunque la considerazione finale: anche nei momenti più critici Secchi de Casali è in grado di creare, si direbbe dal nulla, data la sua umile origine, una rete di relazioni e contatti in grado di intercedere per lui. I risultati di questa particolare capacità si vedranno pienamente in terra d’America, alla quale approderà dopo il secondo tour de force tra diversi Paesi.
Di questa sua condotta indipendente ci dà conferma Carlo Fioruzzi allorché, quando pubblica la lettera di Gian Francesco diretta al padre, fa precedere l’articolo apparso sull’«Eridano» da una presentazione:
“Vicende singolarissime lo portarono nella età di appena diciassette anni in Egitto, poi ad assistere alla presa di San Giovanni d’Acri. Di là venne nuovamente in Italia, e noi lo incontrammo a Livorno, ove per molti segni ci è parso il suo ingegno e l’animo fatto forte dalla contraria fortuna, e la nobiltà de’ suoi sentimenti. Ricordiamo di lui con piacere questo tratto: comecchè di tutto suo avere non possedesse più che pochissimo danaro, ricusò la offerta che gli venne fatta nel miglior animo e colla maggiore discretezza. E mi è caro, disse, questo segno della vostra benevolenza. Per ora, se Dio mi aiuta farò da me; ove la fortuna mi durasse avversa, ricorderò le vostre generose offerte. Conosciuto da diversi Consoli stranieri, ebbimo sul conto di lui le più onorevoli testimonianze![24]“.
Dopo il 1843 le notizie biografiche si fanno meno approssimative, gli eventi salienti perdono la loro aura letteraria e mitica e possiamo seguire il Nostro con meno batticuore. In quest’anno una speciale amnistia gli permette di rientrare a Piacenza, dopo le peripezie toscane, ma non resta a lungo. Durante la quarantena al lazzaretto di San Jacopo ha avuto notizia della morte prematura della madre e della sorella. L’avvenire che gli si prospetta accanto al padre, venditore di tabacchi in appalto, in una città occupata da soldati stranieri, è una motivazione sufficiente per riprendere il viaggio. Si trasferisce dapprima a Ginevra, ma anche qui la polizia segreta austriaca non lo lascia tranquillo, e in un secondo tempo a Parigi, dalla quale ha intenzione di riprendere la marcia verso il Meridione e tornare in Algeria.
Proprio quando il cerchio sembra chiudersi, e le ambizioni svanire, avviene l’incontro che deciderà della sua vita. Nella capitale francese il giovane Secchi de Casali, non sappiamo per via di quali conoscenze e passe-partout, conosce Giorgio H. Stuart di Philadelphia, futuro presidente della Commissione sanitaria statunitense durante la guerra di Secessione.
«Would you go to…?»: la proposta di Stuart è di quelle che non possono essere ignorate. L’americano parla di una terra libera, dove non dovrà più fare i conti con polizie segrete e anciens régimes, verso la quale tanti suoi connazionali stanno dirigendosi. La risposta del giovane ventiquattrenne è immediata: «Yes, sir», cercando le parole in quel misto di italiano, francese, inglese, arabo e greco che è riuscito ad apprendere negli anni precedenti[25].
Passato l’Atlantico nell’autunno 1844[26], Secchi de Casali cerca una sistemazione tra Philadelphia, dove è ospitato presso alcuni amici di Stuart (tra cui il reverendo Wylie, professore di lingue orientali all’università della Pennsylvania), e New York. In quest’ultima città trova vitto e alloggio, nel 1846, presso il collegio di tale reverendo Williamson, in Murray Street. Williamson lo fa lavorare diciassette ore al giorno, per tre dollari la settimana, come insegnante per i suoi ospiti. Nel “contratto” sono previste lezioni di lingua e letteratura italiana, francese, greca, latina e geografia, e la lettura ad alta voce di un passo della Bibbia almeno tre volte al giorno.
Le condizioni in cui si trova ad operare sono tali da scoraggiare chiunque, come egli stesso racconterà ai suoi lettori, nell’autobiografia a puntate:
“Cessavo quel lavoro forzato alle dieci di notte, esausto, colla gola arida, i polmoni sfiatati, gli occhi gravidi dal sonno; ed anche a quell’ora tarda non mi era permesso di andarmi a sdraiare nel mio canile, perché secondo le regole dell’istituto ero anch’io tenuto d’intervenire nella preghiera comune, e come io pregassi di cuore il mio generoso mecenate, lo sa la misericordia divina; certo che se le mie preci fossero state esaudite, il reverendo Williamson sarebbe ito mille miglia lontano dal paradiso[27]“.
L’esperienza è raccontata da Secchi de Casali nella forma di una “prova di iniziazione” alla vita americana. La miseria e le difficoltà dei primi mesi in America, descritte in dettaglio[28], sono il termine di paragone necessario a misurare il successo degli anni della maturità. Secchi de Casali potrebbe incarnare il mito del self-made-man americano, ma la misura del suo successo non è il guadagno economico, bensì la riconoscenza della comunità italiana.
Fin da subito egli si adopera per mettersi in contatto con i suoi connazionali e intervenire, seppur a distanza, nella questione risorgimentale. In uno dei continui spostamenti tra New York e Philadelphia incontra il suo vecchio professore del collegio San Pietro, tale padre Frasi, missionario dei lazzaristi, con il quale ha uno scambio di opinioni circa i destini italiani:
“Invece di trattarmi come una pecora nera del gregge, o lanciarmi addosso la scomunica, il santo uomo, che fu poscia arcivescovo di Baltimore, riconosceva che l’Italia aveva molto sofferto dei pessimi governi, e mi invitava a ripetere le mie visite. Queste visite a Padre Frasi le ricorderò fra le mie più dolci rimembranze d’America[29]“.
Tra i numerosi esuli politici che Secchi de Casali ha la ventura di conoscere, in questi anni tumultuosi, ce n’è uno che merita di essere ricordato. Il suo nome va associato a quello di un altro patriota italiano, Silvio Pellico, compagno di prigionia nello Spielberg: è Piero Maroncelli, emigrato per cause di forza maggiore e gravemente segnato nel fisico, di cui il Nostro si fa accompagnatore negli ultimi mesi di vita. Maroncelli muore nel 1846, semidimenticato dalla stessa comunità italiana di cui faceva parte, e tra i pochi che gli rimangono vicino alla fine vi è il giovane Secchi de Casali, che così lo ricorderà:
“Sarà sempre per me uno dei più dolci ricordi del mio soggiorno in America l’essermi cattivata l’amicizia di Piero Maroncelli, e di averla contraccambiata con eguale affetto; d’averlo ripetutamente guidato per le vie della grande metropoli, allorché nel crudo dell’inverno, ormai cieco, si trascinava sulle stampelle, onde recarsi a prendere il pane quotidiano[30]“.
Maroncelli viene sepolto nel cimitero di Greenwood, e fino agli ultimi mesi di vita Secchi de Casali si adopererà, senza esito, per farne rientrare la salma in Italia, avviando una corrispondenza con il comune di Forlì, luogo di nascita del patriota[31].
Infine, arriva anche il momento di abbandonare il reverendo Williamson e il suo collegio, ma non cessa di lavorare come insegnante. Per sua fortuna, alcuni allievi continuano a rivolgersi a lui per le lezioni di lingue straniere. Essi non sono solo fonte di un guadagno economico indispensabile, ma sono tra coloro che occuperanno posti di rilievo nella società americana degli anni seguenti, e che formeranno la rete di contatti che permetterà la sopravvivenza del giornale. Ripensando a quegli anni, infatti, non dimenticherà un solo nome:
“Fra i pensionanti per studiare e conversare in francese v’era un cappellano della marina da guerra americana ed un giovane studente di legge: questo caro giovane, per nome Curtis, oggi è giudice della Corte Suprema di New York. Debbo insomma parte ad entrambi se, lasciata la boarding house, pervenni a migliorare a poco a poco la mia condizione: essi continuarono a studiare sotto di me la lingua italiana, procurandomi inoltre altri alunni. Si fu in questa guisa ch’ebbi per alunni ed amici altri egregi giovani americani, fra i quali l’attuale generale Henry Sanford, ex-ministro degli Usa a Bruxelles, ora ricco possidente di vaste piantagioni di agrumeti nella Florida, nonché il celebre professore Ogden Doremus, il più distinto chimico d’America[32]“.
Nel 1848, dopo essersi fatto un nome come insegnante[33], comincia la sua carriera di giornalista, come collaboratore saltuario dei grandi giornali americani. Scrive per la «Whig American Review», la «Democratic Review», il «Hunt’s Mechant Magazine», oltre al «Saturday Post» di Philadelphia. Collabora alternativamente a «Tribune», «Herald», «Evening Post», «Journal of Commerce», «American Gazzetta», «Evening Mirror», «Courrier and American Enquirer». Sugli argomenti trattati in questo periodo, non ci possono essere dubbi: «Il tema prediletto era l’Italia, le sue vicissitudini, le sue aspirazioni»[34].
Secchi de Casali si fa portavoce delle aspirazioni risorgimentali, coglie al volo l’interesse che nutrono gli americani verso il movimento italiano, con quell’aura di rivolta popolare che sembra ripercorrere la Guerra d’Indipendenza delle tredici colonie, e si convince, a poco a poco, che il mestiere di giornalista è alla sua portata.
Tiene conferenze in lingua inglese al Brooklin Institute, il 2 febbraio 1848, e al Brooklin Female Academy, un mese dopo, sull’avvenire dell’Italia. Due di numero, ma i giornali lo acclamano, e William Collen Bryant lo esorta a scrivere un “Inno nazionale italiano” da recitarsi nelle «riunioni pubbliche» e per sensibilizzare le famiglie americane:
“Il signor Bryant tradusse in versi inglesi il mio Inno Nazionale, quindi musicato dal giovane maestro di canto, Hernan S. Savoni, fratello del valente artista fotografo, fu pubblicato dagli editori di musica Hall&Son[i]“
Lo stesso William Collen Bryant, richiesto di un consiglio sul mestiere di giornalista, ha una risposta secca:
“Il reverendo ora decesso, William Collen Bryant, ogniqualvolta io gli esternassi l’intento di voler dar vita a un giornale in idioma italiano, me ne dissuadeva. Ed i suoi consigli furono profetici; se li avessi ascoltati oggi forse potrei occupare una bella posizione fra i collaboratori di riviste e giornali americani, giacché fino allora ero pervenuto a scrivere regolarmente per tre riviste e altre pubblicazioni[36]“.
Ma la carriera di collaboratore, allora come oggi, dipende da troppi fattori imponderabili, non solo dal successo dei propri “pezzi”. Dopo un bell’intervento, di 20 pagine, sulla condotta di Papa Pio IX, pubblicato sulla «American Whig Review» nell’aprile 1848, che costringe il direttore a ristamparlo in opuscolo, su richiesta dei lettori, il «Freman’s journal», giornale cattolico, lo attacca. Secchi de Casali, da vero gentleman, si reca alla sede del concorrente a esporre le sue ragioni, ottenendo così la fine delle polemiche e il riconoscimento della sua obiettività. Ma le disgrazie sono appena cominciate. Il progetto del giornale italiano non parte, il primo editore contattato si tira improvvisamente indietro, temendo le ripercussioni degli ambienti diplomatici ancora ostili al giovane giornalista.
Nello stesso aprile 1848 egli è alla Sala della Minerva, a New York, punto d’arrivo di una delle più importanti manifestazioni della comunità italiana a sostegno dei connazionali, e ne dà un breve resoconto nella lettera al padre che verrà pubblicata sull’«Eridano». Qui non ci interessano tanto le sue gesta di oratore, i suoi discorsi con la lacrima che scende e la mano sul cuore, bensì la sua elezione fra i tre delegati che vanno ad accogliere la prima nave «battente bandiera tricolore» che approda in America.
È la napoletana Carolina e questo momento storico sarà tra i ricordi più importanti della sua vita:
“Nel corso di circa quarant’anni d’America ho assistito ed ho anche presieduto molte riunioni di italiani in questa ed altre città americane. Confesso però che non mi fu mai dato di vedere un’assemblea più entusiastica di quella di detta sera, ma poi quando apparvero il capitano Corrao ed alcuni uomini di detta ciurma, della Carolina, tutti dal volto abbronzato e dalle mani incallite, colla coccarda e l’emblema di Sicilia nei berretti e parecchi anche col braccio a tracolla per le ferite riportate, combattendo nelle vie di Palermo, l’entusiasmo si convertì in delirio[37]“.
Sono passati solo quattro anni dal suo arrivo in America, eppure il giovane si è già fatto un nome nella comunità di emigrati. Ma, prima di tutto, viene il lavoro, per quella noia di mangiare e bere: un lavoro che conoscerà molti alti e bassi.
Probabilmente egli intuisce che, con l’esaurirsi del primo moto risorgimentale del 1848-49, le sue dissertazioni sulla politica italiana contemporanea stanno per riscuotere sempre meno interesse. La colonia continua ad essere debole politicamente e di scarsa entità. Gli Stati italiani non hanno sufficiente rilevanza politica per tutelare i loro sudditi emigrati. L’inglese è una lingua ostica, difficile, per uomini che sono fuggiti dalla miseria e vogliono solo trovare un lavoro. Alcuni uomini di Giuseppe Mazzini, come Felice Foresti, vogliono pubblicare dei giornali in lingua italiana per continuare la propaganda fra gli emigrati e persuaderli a dare il loro appoggio da lontano.
La grande intuizione di Secchi de Casali consiste nel progettare un giornale di informazione, non un manifesto politico, che si rivolga agli emigrati e si occupi dei loro problemi quotidiani. Nasce così «L’Europeo Americano», in doppia lingua, un foglio di otto pagine che dura pochi mesi, tra giugno e dicembre 1849. L’ufficio è al settimo piano di uno stabile in Spruce Street. Non se ne ricordano copie conservate. È sufficiente la ferma opposizione degli incaricati d’affari di Napoli e Sardegna, Rocco Martuscelli e Luigi Mossi, per farlo chiudere[38]. Eppure tra i suoi collaboratori si annovera già una nutrita umanità:
“il giovane poeta irlandese John Savage, Darvey McGee, che sarà ministro del Canada, il colonnello Doheny, i poeti americani Augustine Duganne e H.H. Clements, la profuga ungherese contessa Csaky, il conte Samuel Wass, il dottor Ascoli e altri giovani pubblicisti[39]“.
2. «L’Eco d’Italia», le origini
“Un dopo pranzo del 1849, era in domenica, vennero a farmi visita alla mia umile pensione al numero 76 di Walker Strett due cari amici, Gaetano Negretti, di Como, e lo scultore Antonio Piatti, egualmente lombardo; questo testé decesso a Firenze, mentre il primo è direttore della Compagnia del Gaz di Lucca – entrambi ardenti patrioti e quasi della mia stessa età. Là, in una soffitta, si cominciò a discutere del progetto di un giornale; la scelta del titolo ci tenne un po’ divisi. Finalmente il nome da me proposto d’Eco d’Italia venne accolto all’unanimità. Il programma della progettata effemeride non suscitò dissensi: libertà, indipendenza, guerra allo straniero, guerra ai regoli d’Austria, ai nemici tutti di un’Italia libera, padrona assoluta dei propri destini. Si venne per ultimo a trattare la questione finanziaria, e questo fu il problema più arduo a sciogliersi. Io non avevo, come suol dirsi, un cristo; Negretti lavorava duramente a far barometri, e non gavazzava nelle ricchezze; Piatti era da poco arrivato e doveva economizzare fino all’osso; con tutto ciò, entrambi sottoscrissero per alcune copie[40]“.
Il giornale nasce povero, nelle mani del solo redattore e proprietario il quale, per far uscire i primi tre numeri, arriva a vendere il proprio orologio d’oro e gli orecchini della moglie. Il suo ufficio si sposta continuamente, da una strada all’altra, finché un giudice particolarmente severo arriva a sequestrargli il materiale da tipografia perché non ha pagato l’affitto al padrone di casa. A salvarlo dal fallimento è un giovane e brillante avvocato americano, che prende a cuore la causa e…
E qui si interrompe la parte conservata di Trentott’anni in America. Troppo bello per essere vero, l’autobiografia a puntate manca dell’inizio e della fine, copre solo i primi anni in America. I microfilm archiviati a Firenze si interrompono bruscamente alla fine di giugno 1883, per riprendere solo con l’anno successivo, quando l’autobiografia è già terminata da un pezzo e sta approssimandosi la malattia che lo condurrà alla morte.
Non è detto che questa sia una sfortuna. Il lettore si sarà avveduto che la formazione umanistica e letteraria di Secchi de Casali si ripercuote in numerosi punti dell’autobiografia, con uno stile romanzesco che rischia di far dubitare anche i meno scettici della veridicità di queste vicende, e di mettere in discussione la sua piccola gloria.
Se l’autobiografia si interrompe ai primi mesi del 1850, rimane pur sempre il giornale, frutto del suo lavoro e documento fedele dell’attività, pur nelle lacune numerose cui sono andati incontro i documenti.
Nella biblioteca di Firenze il primo anno conservato è il 1862, delle vicissitudini degli anni cinquanta possiamo avere notizia solo indirettamente, attraverso le testimonianze frammentarie di alcuni libri (su tutti primeggiano l’antologia di Francesco Durante e il saggio di Pietro Russo, La stampa periodica italoamericana[41]).
«L’Eco d’Italia » è davvero il capostipite dei giornali in lingua italiana? Nel 1836 era apparsa una rubrica italiana sul giornale in lingua inglese «Correo Atlantico», a New Orleans, a firma del redattore Orazio De Attelis, ma senza continuità. Nello stesso 1850 gli esuli mazziniani Giovanni Battista Torricelli e Alberto Maggi fondano, rispettivamente, «L’esule italiano» e «Il proscritto». Non superano la fine dell’anno. Il loro scopo è di fare da cassa di risonanza del pensiero democratico e di incentivare gli emigrati a sostenere, magari con qualche cospicua donazione, la causa di Mazzini. È una concorrenza troppo effimera per poter insidiare il primato.
“La prospettiva di Secchi de Casali era invece più aperta. Certo, credeva che l’Eco dovesse essere il riverbero di “tutto ciò che avvenisse in patria”, e tutelare “in queste plaghe la causa dell’indipendenza nazionale”. Tuttavia, voleva che la piccola colonia italiana che si andava formando a New York avesse un giornale nella propria favella [..]. Mentre Foresti si lamentava che gli italiani d’America non si mobilitavano abbastanza per la causa di Mazzini, De Casali teneva conto dell’evoluzione di un gruppo di esiliati che aspirava a rimanere negli Stati Uniti. In questo caso si può dire che la stampa di giornali come l’Eco d’Italia marcò il passaggio da una stampa dell’esilio a una stampa dell’emigrazione[42]“.
Il giornalista piacentino riesce a pubblicare, in collaborazione con l’esule romagnolo Guglielmo Gajani, anche «The Crusader» (Il crociato), settimanale bellicoso, per contrastare l’opera di propaganda del Vaticano in America. Fondato nel 1853, dura fino allo scoppio della guerra di Secessione e tra i suoi abbonati vanta il professor Morse, inventore del telegrafo elettrico[43].
In questi anni Secchi de Casali fa la sua definitiva scelta di campo: con il Piemonte, per l’indipendenza italiana. Riuscirà, infatti, a raccogliere una colletta di 20.000 dollari da inviare a Vittorio Emanuele II per le famiglie dei caduti nella seconda guerra d’indipendenza. Il Re stesso lo insignirà dell’ordine cavalleresco dei SS. Maurizio e Lazzaro nel 1872, con tanto di lettera di ringraziamento. Secchi de Casali si opporrà, inoltre, alla raccolta dei diecimila fucili per Garibaldi. In questi anni di incertezza, dove fino all’ultimo sembra possibile a molti un esito popolare, di massa, del Risorgimento, egli ha il merito di individuare con grande anticipo l’unica forza in grado di compiere l’unificazione: la monarchia di Torino.
I confini tra la professione di giornalista e l’attività di uomo politico sono sempre stati incerti. Tra i più ascoltati leader della comunità italiana, egli riesce a portare i connazionali, fino a questo momento disinteressati e poco compatti, a votare in massa per le elezioni del 1858, dando il loro sostegno al candidato democratico Daniel E. Sickles al terzo collegio di New York, per il Congresso americano. A questo scopo organizza il primo comizio italiano nella città e dà voce a una popolazione in costante aumento, ma poco propositiva[44].
Il libro di Frank Alduino e David J. Coles, Sons of Garibaldi in blue gray, lo annovera tra gli organizzatori della Garibaldi Guard, corpo militare inquadrato nell’esercito federale nel 1861 e composto da 11 nazionalità differenti, per un totale di 1.086 soldati[45]. Secchi de Casali, dopo averne denunciato le carenze e la corruzione interna, lo saluta così nel giornale: «Ora che questo corpo di volontari è stato nettato dal suo comandante da certi malandrini che disonoravano la divisa del soldato, è tenuto in alta stima dal Ministro della Guerra e dal Presidente Lincoln, al punto che venne assegnato a presidiare la città di Romney nella Virginia ed il colonnello d’Utalby fu investito del comando della piazza col titolo di governatore militare»[46].
Il settimanale a cui dedica la seconda parte della sua vita, «L’Eco d’Italia», è sopravvissuto alle incertezze economiche dei primi anni, e possiamo leggerlo a partire dal 1862, quando in prima pagina compare una Notice to advertisers, un avviso per gli inserzionisti americani:
“L’Eco d’Italia è la voce riconosciuta degli italiani d’America. È diffuso largamente negli Stati Uniti, nel Canada, nelle Indie occidentali, nell’isola di Cuba, in Messico e nelle principali città del Sud America. La popolazione italiana negli Stati Uniti supera le 60 mila persone: in New York non sono meno di cinque mila. Gli uomini d’affari potranno trovare in questo giornale il miglior mezzo per pubblicizzare la loro attività presso la popolazione italiana. Questo giornale è diffuso largamente anche in Italia, dove le manifatture americane e gli imprenditori potranno trovare un mezzo per render note le loro produzioni. Le inserzioni saranno tradotte gratuitamente. Il giornale ha raggiunto il suo tredicesimo anno, attualmente è stabile, ed è l’unico giornale italiano negli Stati Uniti[47]“.
Se confrontiamo «L’Eco d’Italia» con i giornali piacentini di questi stessi anni, in quanto possano essere presi come esempio della stampa del tempo in Italia, mentre sulla prima pagina dei fogli nostrani si legge spesso una nota di richiamo ai lettori «abbonati» e alle istituzioni che ricevono il foglio a saldare i conti con l’editore, pena la fine delle pubblicazioni per mancanza di fondi[48], nelle stesse situazioni lavorative, con un foglio da compilare in prima persona da cima a fondo, senza fare troppo affidamento sui lettori, Secchi de Casali cerca il proprio sostentamento tra i business men, raccogliendo il maggior quantitativo possibile di pubblicità, grazie alla quale costruire la propria fortuna giornalistica. È da tenere presente, tuttavia, il maggior dinamismo dell’economia statunitense rispetto a quella italiana degli stessi anni, dove il mercato comune è diventato realtà solo dopo l’unificazione politica. Infine, la pubblicità che appare sull’«Eco d’Italia» riporta soprattutto inserzioni di commercianti italiani (negozi di vestiti, botteghe di alimentari, importatori) occupando una fetta di mercato finora rimasta scoperta.
3. Gli italiani in America
Buone relazioni con l’alta società, rete di contatti in continua espansione, appoggio al nuovo governo italiano e alla sua monarchia: questi tre fattori, da soli, non spiegherebbero il successo dell’«Eco d’Italia», almeno non nelle proporzioni che abbiamo visto.
È necessario prendere in esame i contenuti del giornale, i suoi articoli più significativi e i destinatari, per capire la qualità del lavoro di Secchi de Casali. A differenza dei fogli “mazziniani”, sorti con la prospettiva di allargare il consenso del leader democratico all’estero, mentre le sue fortune in Patria erano in caduta libera, «L’Eco d’Italia» è prima di tutto un giornale d’informazione, e come tale si rivolge sia ai suoi lettori sia a personaggi influenti, che dei bisogni dei lettori possono farsi portavoce. Non solo, quindi, una rassegna di avvenimenti americani e italiani, questi ultimi ricavati da giornali arrivati con le navi o da corrispondenze private, ma anche inchieste e approfondimenti sulla vita degli italiani emigrati in America, i disagi e le persecuzioni subite, le incomprensioni con quel governo centrale che Secchi de Casali, per primo, ritiene meritevole di sostegno. La sua fede politica non è acritica, come egli stesso vuole precisare: «Noi rigettiamo la politica degli impazienti come rigettiamo quella politica, che purtroppo oggidì è quella ministeriale, degli ossequienti»[49].
In cima alle preoccupazioni degli emigrati c’è la necessità di avere tutti i documenti in regola, e che la strada per il ritorno rimanga aperta. Le rappresentanze diplomatiche italiane, tuttavia, sono ancora inadeguate a far fronte a tutte le esigenze. Le sedi sono carenti e la nomina di alcuni ambasciatori è da ascriversi più a esigenze di “buoni rapporti” che non alle loro effettive capacità. Taluni non parlano neppure l’italiano. Negli anni della guerra di Secessione manca un organismo centrale che provveda alla tutela degli italiani residenti vicino alla frontiera con gli stati Confederati. Il giornale si fa portavoce dei problemi quotidiani che gli emigrati devono affrontare e s’incarica di far pervenire le loro richieste a chi di dovere.
Nel 1862, quando le finanze del giornale sono ormai solide e la pubblicità occupa buona parte del foglio, Secchi de Casali non esita a pubblicare la denuncia qui riportata, con riferimenti inequivocabili ai diplomatici inadempienti, in barba a tutte le regole di buona condotta:
“Per mo’ di dire, il signor Lanata a New Orleans è una pianta parassita, un simulacro, più degno di rappresentare nelle metropoli commerciali del Sud qualche tribù di beduini anziché la grande nazione italiana. A Cincinnati il vice console d’Italia, creatura devota al cardinale Antonelli, ricusa di dar conto di due o più mila dollari (che sono in sue mani) di spettanza ai cittadini italiani che ereditarono da un defunto parente, benché sia stato minacciato di provvedervi. Eppure egli è sempre il nostro agente consolare, benché il Console Generale a New York abbia chiesto a Torino che venga dimesso. Nelle principali città meridionali, non essendovi alcuna rappresentanza nazionale, molti italiani ebbero a soffrire sevizie dal governo dispotico di Jefferson Davis[50]. A San Luigi il vice consolato d’Italia è collocato in una bottega da modista, come pochi anni sono il consolato di Sardegna in New York era in una bottega di salami, formaggi, maccheroni ecc.”[51].
Per non parlare di un altro diplomatico che, a un anno dalla proclamazione dell’Unità, ancora firma i passaporti come «console di Sardegna», ignaro di quanto avvenuto oltreoceano e indifferente ai disastri provocati:
“Per colmo di tanta incongruità, vediamo e tocchiamo con mano come il Console d’Italia a San Francisco, in California, non si sia ancora degnato di riconoscere il Regno d’Italia [..]. All’ora in cui scriviamo, abbiamo sott’occhio un passaporto rilasciato il 23 p.p. gennaio in cui vi si legge in caratteri cubitali: In nome di S.M. il Re di Sardegna ecc. ecc. B. Davidson, console di Sardegna”[52].
Il giornale è come una “bocca di leone” di Venezia[53] per tutti coloro che non hanno altro mezzo per far sentire la propria voce. Da Cincinnati arriva una lettera che riassume, una volta per tutte, la contraddizione di nominare rappresentanti non madrelingua: «Il nostro sistema vice-consolare non solo è umiliante, ma meschino e ridicolo. Avviene ben spesso che un Italiano per farsi intendere dal vice-console francese [sic] sia costretto a impiegare due interpreti: uno che comprenda il suo dialetto e un altro che parli il francese, perché possa farsi intendere dal suo rappresentante»[54].
Un altro settore da tenere sotto controllo, per il giornalista, sono le scuole pubbliche per gli emigrati di seconda generazione, come quella dei Five Points di Manhattan, dove sono ricoverati fino a cento fanciulli poveri sottratti all’accattonaggio. A questo proposito, Secchi de Casali ricorda il contributo fondamentale dato dalla società americana Children’s Aid society per la costituzione della scuola, e le nuove sfide che attendono la colonia:
“La nostra colonia non ha solo i piccoli da istruire […]. Anzi ha molti giovani adulti, ha uomini di cui non pochi qui arrivarono inetti a leggere e scrivere il loro nome. Vi hanno altri cui ignorare la lingua del Paese cagiona gravi danni[55]“.
La scuola serale per gli adulti, tra gli obiettivi delle Società di Unione e Fratellanza Italiana, di cui Secchi de Casali è a lungo presidente, è inaugurata nell’ottobre 1865, con uno spettacolo dal titolo davvero curioso:
“Lunedì sera, 9 ottobre, ebbe luogo la festa per l’apertura della scuola serale italiana per adulti. La vastissima sala della scuola, capace di più di 500 persone, era gremita d’eleganti signore e signori italiani ed americani [..]. Si aprì la festa col duetto L’Orgia, composizione del signor M.A. Barili, e fu cantato egregiamente dal signor A. Errani ed E. Barili, che v’ebbero vivissimi applausi[56]“.
A metà fra i due mondi, italiano e americano, il giornale esce listato a lutto il 22 aprile 1865, per l’assassinio del presidente Abram Lincoln al Ford’s Theatre di Washington. In quest’occasione, la sua condanna dei cospiratori è senza appello, anche se in passato aveva più volte assunto posizioni critiche nei confronti del governo federale[57]. Ai funerali del presidente partecipa anche la comunità italiana, con una rappresentanza di 500 uomini a New York (e 300 a Washington) i quali, per la prima volta, sventolano la bandiera tricolore per le strade della metropoli:
“Dacché si è costituito il nuovo Regno d’Italia questa fu la prima volta che gli italiani di New York venivano convocati in pubblico convegno dal proprio Console; era la prima volta che sfilavano nelle pubbliche vie preceduti dalla loro Bandiera Nazionale, vessillo riconosciuto ed onorato da quasi tutte le nazioni, inalberato dal più prode e più magnanimo dei Re, Vittorio Emanuele – piantato a piè dell’Etna e sulle sponde del Volturno dal più ardito e disinteressato soldato che vanti l’Europa – Giuseppe Garibaldi.
Convenuti di buona mattina al Cooper Institute, i nostri 500 concittadini erano poco dopo organizzati militarmente e divisi in compagnie dal sig. Prati, il quale si assunse generosamente di guidarli. Giunti all’angolo di Reade e Centre St. si fece sosta per circa tre ore onde far da ala alle altre divisioni, e alle 3 p.m. si incominciava in bell’ordine la marcia.
I membri del comitato, signori G.F. Secchi de Casali e Carlo Ferrero, non che il segretario della Riunione, Prof. A. Magni, ed il sig. Avv. Nash, Presidente della Società di Unione e Fratellanza Italiana, seguivano la bandiera portando armacolla una sciarpa di seta a tre colori, ciò che attirava lo sguardo di tutti.
Facevano parte di questa imponente dimostrazione italiani di ogni ceto e condizione; uomini di lettere e di belle arti; industrianti ed operai, tutti decentemente vestiti, o almeno secondo le loro circostanze il permettavano. Seguivano in coda alcuni ragazzi alunni della Scuola Italiana dei Cinque Punti. Tutti i membri avevano il petto fregiato della coccarda tricolore, e ci gode poter dire che non si ebbe a lamentare il benché minimo e dispiacevole incidente. Così l’Italia era rappresentata in tale lugubre e straordinaria dimostrazione da cinquecento persone; e questi non erano i soli Italiani presenti alla processione , ché vi intervenne numerosa la Loggia Massonica Garibaldi, non che un drappello di 120 membri del 39° reggimento, ultime reliquie della Guardia Garibaldi[58]“.
L’unione tra le due società sembra realizzarsi in occasione della Festa dello Statuto, quattro anni più tardi, celebrata la prima domenica di giugno in onore dello Statuto albertino, e momento culminante dell’identità italiana d’oltreoceano:
“Era bello vedere l’aspetto marziale dei nostri giovani bersaglieri, che dal contegno avreste detto veterani o truppe regolari: anche la loro bella divisa garibaldina e la nuova ed elegante uniforme degli ufficiali attraeva lo sguardo e l’ammirazione di tutti per dove passavano; non è dunque a meravigliarsi se al loro incedere fossero ovunque acclamati e festeggiati e scoppiassero le grida di Viva l’Italia, Viva la Guardia Colombo. Ed il bravo capitano Castelvecchi, il quale porta sul viso un’onorata cicatrice, riportata sul campo di battaglia in difesa dell’Unione Americana, aveva ben ragione di andarne superbo, come noi tutti andiamo orgogliosi di possedere in questa Metropoli un’Associazione di Giovani nostri concittadini, per patriottismo e decoro orgoglio di tutta la Colonia Italiana: questa Compagnia, che al suo nascere contava appena 45 membri, ora ne consta di 108 e maggiore ne sarà il numero alla Festa di Colombo![59]“.
Questi articoli di cronaca spicciola, basata sull’entusiasmo per il buon esito della manifestazione, possono sia rivelarci un aspetto fondamentale della vita dei nostri connazionali all’estero, sia darci alcuni indizi per ricostruire il quadro di relazioni e rapporti che ha formato l’immagine pubblica di Secchi de Casali.
Nel corso dei funerali di Lincoln lo abbiamo visto tra gli organizzatori della manifestazione, a fianco del presidente del Società di Unione e Fratellanza, di cui prenderà il posto. Nel corso della Festa dello Statuto c’è un colpo di scena: la moglie del primo cittadino di New York, tra gli ospiti d’onore della festa italiana, lo prende per un braccio e lo porta sul palco, a fianco del marito, Oakey Hall[60]. Un gesto al tempo stesso spontaneo ed eloquente, che dice molto sulla sua fama tra le autorità più in vista, e la sua inesausta attività di mediatore fra americani e italiani.
Le cronache di questa giornata ci rimandano una folla che scorre ordinata fra le vie della città fino al luogo di ritrovo convenuto, il «Karl’s Germania Park», dove gli italiani di New York banchettano in compagnia dei connazionali arrivati dalle altre città. Nel corso delle celebrazioni, Secchi de Casali riceve una medaglia d’oro dai membri della vecchia Garibaldi Guard, ora diventata Associazione di tiro al bersaglio, sorta di «corpo militare da parata» della colonia. Il direttore del primo giornale italiano si lascia andare, per un momento, a un’oratoria da consumato diplomatico:
“Mantenetevi sempre uniti e concordi, continuate ad essere vanto della nostra colonia, onorate sempre quella divisa, che la proverbiale camicia di Roma non soffra mai macchia, rispettata e temuta in ambo gli emisferi porta sempre glorioso ed intemerato il vessillo italiano e sulle sponde della Plata e in Lombardia, e a Roma nel ’49 e più tardi in Sicilia e sul Volturno, e sulla cima del Tirolo e per ultimo sui campi nefasti di Mentana: di una simile divisa andate superbi, come qui tutti lo siamo di voi[61]“.
Non mancano le tensioni, specie con le altre comunità di immigrati, che sembrano fare eco alla difficile situazione che sta vivendo la madrepatria con i Paesi europei. Con la differenza che gli italiani d’America sembrano avere molte meno remore ad usare la forza per contrastare gli oppressori.
“Terminata la festa, taluni nostri connazionali rimasti sul luogo vennero codardamente e senza provocazione alcuna assaliti da una cinquantina di devoti irlandesi, alle grida di Abbasso Garibaldi, Viva il Papa! Eppure sei Siciliani furono capaci a resistere e a porre in fuga i cinquanta Crociati delle Sante Chiavi! Melrose, nido di corvi papali, non è più il luogo preferibile per Italiani da convenire in alcuna solennità nazionale: aggiungi la grande distanza e il cattivo cibo![62]“.
4. La colonia agricola di Vineland
“Se vi ha qualche fatto nella mia vita di cui io possa a giusto titolo andar superbo, è quello di essere stato il primo ad iniziare e a costruire su solide basi, in una ridente parte degli Stati Uniti, una colonia agricola italiana: intendo di parlare di quella già stabilita nella bella quanto ferace pianura di Vineland, in un clima dolce e vivificante, posta a cavaliere tra i due grandi empori commerciali, New York e Philadelphia.
I possessori italiani di terreni in questa località ammontano già a 200 circa, la più parte provenienti da N.Y. e dal Long Island, ma anche molti nostri connazionali di Philadelphia sembrano determinati a stabilirvisi, e infatti alcuni di essi vi hanno già fatto acquisto di poderi [..]. La costruzione di case di pertinenza italiana continua sia al Sud sia al Sud-Ovest di Vineland, né credo esagerare dicendo che nella prossima primavera la Nuova Italia costituirà un bella e popolare borgata[63]“.
Le prime tracce del progetto di una colonia agricola tutta italiana a Vineland, nello Stato del New Jersey, appaiono sull’«Eco d’Italia» fin dal 1869, con avvisi più o meno espliciti sulla disponibilità di terreni a basso costo. La cittadina americana è stata fondata nel 1861 da tale Charles K. Landis, che ha fatto incetta di 20.000 acri di terreno coltivabile in una località vicino a Melville, per creare una sorta di città “utopica”.
Il sito web della città di Vineland, nella sezione storica, ricorda che la cittadina sorse a cavallo di una strada ferrata che portava all’importante centro commerciale di Philadelphia. Landis ingaggiò alcuni lavoratori per costruire una strada larga 100 piedi e lunga un miglio, che incrociava la ferrovia. La piatta continuità della campagna del New Jersey era stata spezzata, un semplice incrocio era sufficiente a segnare l’intervento umano. Il primo edificio costruito fu un ufficio postale, che fece insospettire le autorità della contea, data l’evidente inutilità di un simile ufficio in mezzo al nulla. Ma Landis, come Secchi de Casali, era pieno di “amici”, e riuscì a perdurare per circa un anno nel suo solitario “lavoro” di postino, prima che una famiglia di agricoltori decidesse di stabilirsi lungo l’incrocio che aveva appena finito di tracciare. La natura del terreno e le buone condizioni climatiche sembravano perfette per la coltivazione della vite. Da qui il nome della nuova città, Vineland, “Terra della vite” in italiano, che già superava i 5.500 abitanti nel 1865.
Con la benevolenza di Landis, nacquero diverse associazioni laiche, tra le quali i «Friends of progress», che promossero incontri e dibattiti pubblici sull’eguaglianza dei diritti civili. Nel 1868, cinquantadue anni prima l’approvazione del XIX emendamento che sancirà il diritto di voto femminile negli Stati Uniti, 172 donne di Vineland votarono per le presidenziali americane, mantenendo questo diritto negli anni a venire[64].
Dopo il 1870 Secchi de Casali è diventato presidente della Società di Unione e Fratellanza italiana e la sua autorevolezza presso la colonia è ormai consolidata. L’idea di dirigere i propri connazionali nella città di Landis sembra gli sia venuta durante la sua abituale passeggiata al mercato ortofrutticolo di New York, dove ha modo di acquistare alcuni frutti dalle proporzioni insolite, provenienti da Vineland, da esporre nel nuovo ufficio del giornale, in Liberty Street. Come suo solito, stringe amicizia con il membro più influente della comunità, il sopraddetto Charles K. Landis, con il quale collabora per la buona riuscita dell’integrazione tra italiani e americani.
“L’attenzione del signor Secchi de Casali fu rivolta primariamente verso Vineland per le immense quantità di bellissima frutta, ch’egli osservò più volte nel mercato di New York come provenienti da questo territorio; e quando egli vide i mille vigneti di Vineland, i numerosissimi verzieri di pesche e pere e d’altri prodotti cessò la sua sorpresa per l’immenso invio di frutta da un luogo appena conosciuto agli estranei della frutticoltura. Le famiglie italiane che a lui si rivolsero e delle quali egli è guida, formano una classe di persone molto desiderabile. Essi in massima provengono dall’Italia settentrionale, sono i migliori agricoltori e coltivatori di frutta, buoni conoscitori della coltura della vite, industriosi, intelligenti e patriottici. [..] Il gran numero delle manifatture di Vineland faciliteranno molte famiglie, impiegandone parte dei suoi membri, mentre gli altri potranno attendere al lavoro per migliorare le loro terre. Havvi grande vantaggio per essi a prescegliere Vineland a qualunque paese dell’Ovest. Qui eglino troveranno già costruite le strade, già costituite le scuole, già stabilite numerose manifatture e industrie. Essendo Vineland un centro ferroviario delle grandi città di Philadelphia e New York, essi saranno nel centro della civilizzazione invece di allontanarsene, si troveranno infine in una località che andrà rapidamente aumentando di popolazione, ove le loro case acquisteranno sempre più valore ed attrazione, ed ove infine la proprietà diverrà certamente la più preziosa[65]“.
A partire dall’ottobre 1873 «L’Eco d’Italia» segue da vicino l’evolversi della situazione, fornendo notizie precise sui prezzi dei terreni (circa 25 dollari all’acro[66]) e invogliando nuovi coloni al trasferimento, da New York e Philadelphia. I coltivatori italiani trovano una città nuova ma già perfettamente funzionante: manifatture, terreni coltivabili e una via ferroviaria tra le più importanti dello Stato, che assicura il collegamento con New York e Philadelphia, centri commerciali capaci di garantire lo smercio dei prodotti ortofrutticoli. A dicembre, tutto è pronto per far partire i lavori. Da Vineland, infatti, giunge una corrispondenza privata, a firma J. B. Baretti, che informa sullo stato della colonia:
“Gli italiani di qui, nonostante l’inclemenza della stagione, sono intenti a preparare il terreno per i lavori e le piantagioni primaverili. Il signor Costa ha dato l’ordine per l’acquisto di 200 alberi di mele e 100 di pere. Il signor Scrivani si propone di piantare 50 alberi di pomi e altrettanti di pesche. Altri mi hanno autorizzato a comprare per essi da cinque a diecimila viti da piantarsi subito in primavera e non pochi sono i nuovi arrivati e quelli che già preparano i loro poderi onde ottenere nel primo anno una o più raccolte[67]“.
Nonostante i tentativi di alcuni speculatori di intromettersi nelle trattative, rivendendo i terreni a prezzi esorbitanti agli italiani ignari[68], la colonia sembra prosperare nel migliore dei modi, anche se la città non muterà il nome in Nuova Italia come Secchi de Casali aveva sperato (il nome verrà assegnato a una piccola contrada).
Gli abitanti del XXI secolo di Vineland hanno ormai dimenticato il contributo di Secchi de Casali, e quella Piacenzia Avenue ancora presente in città[69] non sembra essere al centro di importanti crocevia. Eppure, ancora nel 1921 qualcuno si ricorda del lavoro di Secchi, e può testimoniarlo. A parlare è Alfredo Bosi, autore di Cinquant’anni di vita italiana in America, pubblicato dalla Bagnasco Press a New York. Il testo, presente su Internet, fotografa un momento della colonia dopo cinquant’anni dalla sua fondazione. Le famiglie italiane hanno raggiunto il migliaio, per un totale di circa 7.000 anime, e continuano sulla strada tracciata dal loro “patriarca” piacentino: ogni famiglia ha un patrimonio stimato fra i 10 e i 160 acri, si dedica alla coltivazione della vite o a quella della patata dolce, la Graziano’s sweet potato, dal nome del suo creatore, un orticoltore italiano. Altre specialità coltivate sono i lamponi, le fragole e il ribes, e c’è spazio anche per l’allevamento del pollame e del bestiame da latte. I “ruggenti anni Venti”, appena iniziati, sono vissuti dalle famiglie di connazionali, ormai arrivate alla seconda e terza generazione, nell’agiatezza: le loro belle case occupano le contrade di Nuova Italia, Garden Road, Newfield, Landisville, Minitola, Wheat, Wine e Oak Road. Milleville. Bridgeton. Sono presenti anche scuole d’italiano, e ben quattro chiese.
“La prospera e numerosa colonia, da lui fondata nel 1873 a Vineland, contea di Cumberland, Stato di New Jersey, col sistema dei pagamenti rateali da parte dei coloni italiani colà stabilitisi, è il monumento più bello che attesta dell’opera altamente umanitaria e tramanda ai posteri venerata la memoria del patriota e filantropo, il quale dedicò tutto se stesso al progresso materiale e morale dei suoi connazionali[70]“.
5. La nascita di una letteratura coloniale nelle pagine dell’«Eco d’Italia»
Questo paragrafo vuole rimandare all’interessante tesi proposta da Francesco Durante in Italoamericana, l’antologia della letteratura italiana negli Stati Uniti, edita da Mondadori nel 2001 e tra i primi libri ad interessarsi del Nostro dopo decenni. Durante valuta l’operato di Secchi de Casali in relazione al fine ultimo della propria ricerca. Pur interessandosi agli snodi principali della sua esistenza, egli individua alcuni testi apparsi nell’«Eco d’Italia» negli anni sessanta dell’Ottocento, tra i quali Il piccolo genovese, racconto anonimo pubblicato il 14 maggio 1869, che narra le sorti di un piccolo suonatore d’organetto, orfano, adottato da un ricco banchiere americano. Un testo che potrebbe essere stato scritto dallo stesso Secchi de Casali, a sua volta padre adottivo di due orfani italiani, e che sembra uno dei primi testi specificatamente letterari prodotti all’interno della colonia italiana.
I testi qui rappresentati – scrive Durante, nella sezione dedicata a Secchi de Casali – rappresentano alcuni fra i più antichi documenti di una letteratura protocoloniale. Apparvero tutti anonimi, o quasi, nelle pagine di Secchi de Casali e, anche se la circostanza ci sembra improbabile, non è da escludersi che siano, almeno in parte, opera dello stesso giornalista. Il giornale, nei primi due decenni, non ospita con regolarità appendici né dedica spazi fissi a materiali creativi. Con il passare degli anni, le appendici si fanno più frequenti. Nel ’69, per esempio, si pubblicano La Signora della notte di M. Fernández y González, e Capitan Dondero di Anton Giulio Barilli[71].
Dopo l’apparizione di una curiosa Strenna dei fattorini nel dicembre 1862, ad opera dello stesso fattorino del giornale, Raimondo Montefiori, le pubblicazioni non meramente giornalistiche cominciano a farsi più numerose. È dello stesso anno il «Primo almanacco d’Italia negli Stati Uniti», annunciato sul numero del 9 gennaio. Nel corso della ricerca ho più volte incontrato alcune composizioni di «cari amici» del giornale, come Wn. C. Bryant, redattore dell’«Evening Post» di New York, che scrive un’ode dedicata all’Italia, o Giulia W. Howe di Boston, su Roma, La città dell’amor mio.
Durante offre altri esempi, come il poema di «un amico di Boston» in chiave antipapale, apparso il 10 maggio 1862, e la poesia di «B.P.» del 19 novembre ispirata alla vicenda d’Aspromonte, ma il pezzo più importante per la “protoletteratura” coloniale rimane il racconto Il piccolo genovese.
Rendendo letteraria, e dunque significativa sia per i contemporanei sia per i posteri, la condizione di schiavitù in cui sono costretti i piccoli emigranti, il breve scritto diventa uno degli archetipi della letteratura coloniale successiva, che avrà ben altri mezzi e ben altra diffusione per farsi conoscere.
6. 10 giugno 1885
Nell’estate 1884, pochi mesi dopo aver dato alle stampe la sua autobiografia a puntate, Secchi de Casali avvia delle nuove trattative a distanza con il municipio di Forlì per il rimpatrio della salma di Maroncelli. È l’occasione, per il Nostro, di far rientro nella sua terra natale dopo quarant’anni di assenza. Nel frattempo continua una nuova raccolta fondi per la costruzione dell’Ospedale Garibaldi negli Stati Uniti. Mentre è impegnato in queste due imprese è assalito da un male incurabile, e alla mezzanotte del 10 giugno 1885 il «fondatore della stampa italiana in America» non è più.
Il suo giornale esce listato a lutto la mattina seguente, recandone l’immagine (fig.2, Ritratto di Gian Francesco Secchi de Casali in «L’Eco d’Italia», 11 giugno 1885,) in prima pagina (l’unica immagine che abbiamo di lui) e riportando le tappe principali della sua vita. Negli ultimi anni ha ottenuto numerose onorificenze, che si sono aggiunte alla concessione da parte del Re, nel 1872, dell’ordine dei SS. Maurizio e Lazzaro: la Turchia lo ha insignito dell’ordine del Medjidieh, il Venezuela dell’ordine di Bolivar, la Repubblica di San Marino gli ha inviato una medaglia al merito civile. La colonia italiana di Vicksburg, nel Missisipi, ha fatto coniare per lui una medaglia d’oro, in ricordo di una sua generosa colletta in favore delle vittime della febbre gialla. È stato due volte presidente della Grande Unione Italiana, presidente o membro onorario di numerose associazioni italiane negli Stati Uniti, in Brasile e nel Perù. Gli italiani di Montreal gli hanno offerto uno «splendido ricevimento» e una medaglia d’oro, a nome della Guardia Colombo della città. È stato giurato internazionale per l’Italia all’Esposizione internazionale di Philadelphia, e vice-presidente del 4° gruppo; per riconoscenza, gli espositori gli hanno regalato un magnifico album in mosaico fiorentino.
I funerali si tengono sabato 18 giugno nella sua nuova città di residenza, Elizabeth, nel New Jersey, dove lascia una vedova, Mary Jane McBride, e due figli adottivi, Carlo e Teresa Cuneo.
Viene sepolto nel cimitero di Evergreens, a Elizabeth, in una cassa di legno rosa, ricoperta esternamente dalle gramaglie e, all’interno, da uno strato di raso bianco. La tomba è a tutt’oggi assente nel più importante database online dei cimiteri americani, «Findagrave»[72], che riporta dati e fotografie dei sepolcri degli ultimi due secoli. Nel cimitero di Evergreens, nel New Jersey, si trova la tomba di una «Mary Jane», sprovvista di altri elementi identificativi. È probabile che il destino d’oblio che ha avvolto Secchi de Casali per più di un secolo sia lo stesso che ne ha disperso i resti mortali.
Fiorenzuola d’Arda, ottobre 2011
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[1] Luigi Mensi, Dizionario biografico piacentino, Piacenza, Del Majno, 1899, s.v.
[2] Emilio Ottolenghi, Ricorrenze storiche piacentine, in «La Scure», 10 giugno 1931.
[3] Sull’Oceano è l’unico romanzo italiano che affronti il tema dell’emigrazione, secondo la prefazione di Folco Portinari all’edizione Garzanti, 2009.
[4] Gian Francesco Secchi de Casali, Trentott’anni in America, in «L’Eco d’Italia», 5 febbraio 1883.
[5] L’autobiografia a puntate comincia in una data indeterminata della seconda metà del 1882 e prosegue nell’anno successivo. Le collezioni di microfilm (cfr. nota 10) coprono solo i primi sei mesi del 1882 e del 1883: è probabile che una buona parte di questa autobiografia sia andata irrimediabilmente perduta.
[6] Jacopo Franchi, Risorgimento, Unità d’Italia e vita quotidiana nei giornali di Piacenza (1848-1870), Università degli Studi di Parma, Facoltà di Lettere e Filosofia, Corso di laurea magistrale in Arti Letterarie e Musicali dal medioevo all’età contemporanea.
[7] Carlo Fioruzzi, Lettera al padre di Gian Francesco Secchi de Casali, in «Eridano», 17 giugno 1848.
[8] Francesco Favari, Supplemento a «La Provincia», 2 giugno 1860.
[9] Francesco Durante, Italoamericana: storia e letteratura degli italiani negli Stati Uniti (1776-1880), Milano, Mondadori, 2001.
[10] Biblioteca Umanistica – Sezione Nordamericana, Positive roll. 101/19, Anni: 1862-1882, (1883), (1884), 1885, 1889, (1891), 1892-1893, (1894). Formato in-folio. Gli anni indicati tra parentesi mancano del periodo luglio-dicembre. Il Catalogo attuale ignora le lacune degli anni 1863-1864, 1866-1868 e 1870-1871. Il giornale comincia come settimanale, diventa semi-settimanale negli anni settanta (si pubblica il mercoledì e il sabato) e quotidiano a partire dal settembre 1880 (in risposta alla nascita del concorrente diretto, Il Progresso Italo-Americano, fondato a New York da Carlo Barsotti), negli ultimi anni di vita del fondatore. I numeri che scandiscono i momenti di passaggio da settimanale e semi-settimanale non sono stati conservati. I fogli originali sono probabilmente dono di un antico lettore, che si è curato di sottolineare, con tratti incerti e grossolani, gli articoli da lui ritenuti più significativi.
[11] Giovanni Bianchi, Piacentini all’estero, in «Strenna piacentina», 1884, pp. 166-169.
[12] S.A., La morte di un nostro concittadino, in «Il Progresso», 25 giugno 1885.
[13] S.A., Piacentini illustri, in «Libertà», 5 novembre 1887.
[14] Giovanni Schiavo, Four centuries of italian-american history, New York, The Vigo Press, 1955.
[15] Frank Alduino e David Coles, Sons of Garibaldi in blue and gray: Italians in the American Civil War, New York, Cambria Press, 2007.
[16] Le ricerche storiche sugli emigranti piacentini hanno segnato il passo negli ultimi anni, dopo il decisivo contributo di Carmen Artocchini (L’emigrazione nel Piacentino dal 1800 all’Unità d’Italia, in Studi storici in onore di Emilio Nasalli Rocca, Piacenza, Deputazione di Storia Patria per le Province Parmensi, Sezione di Piacenza, 1971, pp. 15-26; Emigranti piacentini sulle vie d’Europa, in «Panorama piacentino», 1989, pp.61-64; Dal Gotico al paese del tango. Gli emigrati piacentini in Argentina, in «Libertà», 24 agosto 1991; Dalla Val d’Aveto all’Argentina. Con la storia di Maria Luisa Nobile ricordiamo tutti gli emigrati piacentini, in «Buon Natale Piacenza», 1992, pp. 65-68) e Tiziana Albasi (Correnti migratorie nel piacentino ai primi del ‘900, in «Piacentinità», I, 1999, pp. 13-14). Altre ricerche sono apparse, a intermittenza, sulla stampa periodica cittadina, firmati da Angelo Tojani (Piacentini nella pittoresca schiera dei suonatori d’organetto e ambulanti, in «Libertà», 14 marzo 1989), Gianfranco Scognamiglio (Madre coraggio dalla Rocca a Parigi sempre a piedi con quattro bambini, in «Libertà», 14 gennaio 1988), Lorenzo Cattivelli (Dai monti di Gazzola ai tram di San Francisco, in «Libertà», 1 gennaio 1993; Pescare salmoni in Canada con il cuore a Morfasso, in «Libertà», 14 febbraio 1994; Le spose di Soarza su e giù per l’Argentina, in «Libertà»; 28 novembre 1994; Riunirsi per ritrovare un po’ di patria. La storia dell’associazionismo nelle comunità di emigranti, in «Libertà», 20 novembre 1995).
[17] Archivio di Stato di Piacenza, Stato Civile, Registro atti di nascita parrocchiali, 1817-1820.
[18] Italianizzazione del piacentino pâltadôr, che è il corrispondente locale per “tabacchino, tabaccaio”, ma anche per “acquavitaio”: cfr. Lorenzo Foresti, Vocabolario piacentino-italiano (a cura di Giovanni Bianchi), Piacenza, Tipografia Francesco Solari, 1883, s.v.
[19] Archivio di Stato di Piacenza, Bobina Microfilm 230, Stati delle anime della parrocchia dei SS. Nazario e Celso, 1815-1823.
[20] Cfr. Piacentini illustri, in «Libertà», 5 novembre 1887: «Nel 1836, contando solo 17 anni, fu come altri studentini coinvolto in una piccola cospirazione contro la polizia, credo a proposito della chiamata dei gesuiti».
[21] Così Giovanni Bianchi, Piacentini all’estero: «Dal quartiere della Paganina un anno dippoi passava al Seminario, obbedendo alla volontà dei parenti che volevano cavarcene un prete, e forse in quel mezzo tempo la vocazione del campanile gli pareva d’avercela anche lui; ma, compiuto il terzo lustro, gli si rivoluzionavano le idee, e pur rimanendo sempre buon figliuolo e buon cristiano, usciva di Seminario, gettava il collare alle ortiche e, messi panni secolareschi, per quella noia di mangiare e di bere facevasi commesso viaggiatore di una casa libraria».
[22] Gian Francesco Secchi de Casali, True passages in life of an exile, in «Sartain’s Union Magazine», New York, novembre 1848, pp. 222-226. La rivista è conservata presso la University of California Davis, American Periodical Series, 1800-1850.
[23] Gian Francesco Secchi de Casali, True passages in life of an exile, p. 223.
[24] Carlo Fioruzzi, Lettera al padre di Gian Francesco Secchi de Casali, in «Eridano», 17 giugno 1848.
[25] S.A., G.F. Secchi de Casali, in «L’Eco d’Italia», 11 giugno1885.
[26] È possibile che in un futuro prossimo si potranno avere maggiori notizie circa il suo arrivo in America, grazie all’aggiornamento costante degli archivi storici delle autorità portuali statunitensi. Come esempio di ciò che le moderne tecnologie e i sistemi di network rendono possibile, si può consultare il sito di Ellis Island, il principale punto d’ingresso degli immigranti che sbarcavano negli Stati Uniti, dal 1892 al 1954, all’indirizzo online http://www.ellisisland.org. Il sito permette di individuare i dati dei passeggeri in arrivo registrati dalle autorità portuali, inserendo nome, data di nascita e sesso dell’emigrante.
[27] Gian Francesco Secchi de Casali, Trentott’anni in America, in «L’Eco d’Italia», 28 gennaio 1883.
[28] Ibid., quando parla del menu quotidiano: «Carne salata, bollita, dura e sfilata come stoppaccio; patate, pane, Iddio sa quando uscito dal forno, o carne di pecora in stufato durissimo, patate di nuovo e sempre ad ogni pasto, i beef steaks potevano benissimo servire da suola da scarpe».
[29] Secchi de Casali, Trentott’anni in America, in «L’Eco d’Italia», 8 gennaio 1883.
[30] Secchi de Casali, Trentott’anni in America, in «L’Eco d’Italia», 12 febbraio 1883.
[31] Il rientro della salma a Forlì avverrà nel 1886, l’anno seguente la morte di Secchi de Casali. Piero Maroncelli morì a New York il 1° agosto 1846, in condizioni economiche disagiate, cieco e affetto da severi disturbi mentali. Da un articolo recentemente apparso su un sito Internet (www.ciao.it) apprendiamo che la sua biblioteca, stimata in 946 libri rari, «a quei tempi considerata la maggiore di New York», andò colpevolmente dispersa. La notizia, tuttavia, ripresa da Wikipedia e da altre pubblicazioni online, lascia qualche legittimo dubbio, se non altro per l’assenza di riferimenti bibliografici precisi e per l’evidente difficoltà di determinare con esattezza la natura di una collezione andata perduta centocinquant’anni fa.
[32] Gian Francesco Secchi de Casali, Trentott’anni in America, in «L’Eco d’Italia», 28 gennaio 1883.
[33] Cfr. Giovanni Schiavo, Educators and writers, in Id., Four centuries of italian-american history, New York, The Vigo Press, 1955, pp. 264-274. È quantomeno singolare che lo studioso, tra gli ultimi autori a parlare di Secchi de Casali, lo riporti sotto la categoria degli «insegnanti», nella quale è rimasto per pochi anni, senza dedicare un paragrafo a parte alla sua carriera, quarantennale, di giornalista. La nascita del giornale è riassunta in poche righe, a p. 271. Fatto curioso davvero, tanto più che lo stesso Schiavo si è servito dell’«Eco d’Italia» per buona parte della sua ricostruzione storica sulla vita degli italoamericani.
[34] Gian Francesco Secchi de Casali, Trentott’anni in America, in «L’Eco d’Italia», 28 gennaio 1883.
[35] Secchi de Casali, Trentott’anni in America, in «L’Eco d’Italia», 16 aprile 1883.
[36] Ibid.
[37] Secchi de Casali, Trentott’anni in America, in «L’Eco d’Italia», 7 maggio 1883.
[38] Francesco Durante, Italoamericana, Milano, Mondadori, 2001, p. 241.
[39] Secchi de Casali, Trentott’anni in America, in «L’Eco d’Italia», 30 aprile 1883.
[40] Gian Francesco Secchi de Casali, Trentott’anni in America, in «L’Eco d’Italia», 18 giugno 1883.
[41] Pietro Russo, La stampa periodica italoamericana, in Gli italiani negli Stati Uniti: l’emigrazione e l’opera degli Italiani negli Stati Uniti d’America: Atti del III Symposium di studi americani (Firenze, 27-29 maggio 1969), Firenze, Istituto di Studi Nordamericani, Università degli Studi, 1972, pp. 493-546.
[42] Piero Bevilacqua, Andreina De Clementi ed Emilio Franzina, Storia dell’emigrazione italiana, vol. II, Roma, Donzelli, 2002, p. 315.
[43] Cfr. Secchi de Casali, Trentott’anni in America, in «L’Eco d’Italia», 14 maggio 1883. Per quanto riguarda il programma di «The Crusader», è Francesco Durante a riportarlo, a p. 426 della sua Italoamericana: « Noi ci atterremo al seguente programma; giusto o sbagliato che sia, forte o debole, non lo abbandoneremo: guerra incessante contro il sistema del Papato – Libertà religiosa e civile all’interno e all’estero – No alle persecuzioni e alle inquisizioni per diversità d’opinioni – Mantenimento delle scuole pubbliche ad ogni costo – Protezione dei cittadini americani all’estero, e rispetto dei loro diritti in qualunque paese – Diritti uguali per i cittadini naturalizzati e di nascita – Proibizione dei vescovi cattolici di mantenere nel loro paese il monopolio della proprietà della Chiesa».
[44] E di questa scarsa visibilità politica degli italiani darà un’interessante analisi nel numero dell’«Eco d’Italia» del 30 dicembre 1865, allorquando scriverà, in Gli italiani e gli Stati Uniti: «La sola causa di questo inconveniente è la totale assenza di politica associazione nella colonia italiana, e la nota apatia della maggior parte degli italiani nell’ottenere il certificato di naturalizzazione, per cui si escludono da sé stessi nell’esercizio dei diritti politici. Nell’ultima votazione in questa metropoli non più di 300 italiani si sono presentati ai collegi elettorali. Non c’è dubbio che, ove i coloni italiani avessero a formare regolari organizzazioni politiche, come fanno i tedeschi e gli irlandesi, acquisterebbero assai più preponderanza nella pubblica azienda e nei privati loro interessi».
[45] Alduino e Coles, Sons of Garibaldi in blue and gray, p. 52.
[46] Gian Francesco Secchi de Casali, La Guardia Garibaldi, in «L’Eco d’Italia», 24 maggio 1862.
[47] Il testo originale è in inglese. Lo trascriviamo affinché il lettore possa farsi un’idea dell’apprendimento da autodidatta del Secchi, che impiega una costruzione sintattica simile a quella italiana: «L’Eco d’Italia is the recognized organ of the italian population in America. It’s extensively circulated thorughout the United States, Canada, West Indies, Island of Cuba, Mexico, and in the principal cities in South America. The italian population in the United States exceeds sixty thousand: in New York there are no less than five thousand. Business men will find this paper the best medium of bringing their business to the notice of the italian population. This paper is extensively circulated throughout Italy, where american manifacturers and inventors will find this a medium to advertise their goods. Advertisments will be translated free of charge. This paper, having reached its thirteenth year, is now throughly established, and is the only italian paper in the United States».
[48] Tra il 1859 e il 1870 chiudono, per mancanza di fondi e lettori, o per il venir meno dell’appoggio delle autorità, «Gazzetta Piacentina», «La Provincia», «Indicatore piacentino»,«Il Paese», «Osservatore piacentino», «L’Indipendente», «Gazzetta di Piacenza», «L’Agitatore», «Il Flagello», «L’Operaio piacentino», «L’Eco del Po» e le due riviste del comizio agrario, «Monitore rurale» e «Rivista agricola piacentina». Nonostante le prime pubblicità a pagamento siano apparse fin dalla «Gazzetta Piacentina», le inserzioni occuperanno solo raramente più di un quarto di foglio.
[49] Gian Francesco Secchi de Casali, La situazione d’Italia, in «L’Eco d’Italia», 21 novembre 1862.
[50] Jefferson Davis (1808 – 1889), primo e unico presidente degli Stati Confederati d’America (1861-1865).
[51] Gian Francesco Secchi de Casali, Le piaghe d’Italia in America, in «L’Eco d’Italia», 1° marzo 1862.
[52] Ibid.
[53] Nell’antica Repubblica di Venezia le “bocche di leone” erano contenitori disseminati per la città, e in particolare nei pressi del Palazzo Ducale, per raccogliere le denunce anonime destinate ai magistrati.
[54] Lettera al direttore, in «L’Eco d’Italia», 13 aprile 1865.
[55] Gian Francesco Secchi de Casali, Le scuole italiane in New York, in «L’Eco d’Italia», 12 agosto 1865.
[56] Gian Francesco Secchi de Casali, Apertura della scuola italiana per gli adulti in New York, in «L’Eco d’Italia», 14 ottobre 1865.
[57] Cfr. Gian Francesco Secchi de Casali, Gli arresti preventivi, in «L’Eco d’Italia», 15 febbraio 1862, per scongiurare il pericolo di una dittatura militare: «Vorremmo ugualmente vedere il governo di Washington abolire le carceri per donne accusate di ribellione: invece di tenerle captive, sarebbe più decoroso per noi di farle passare le frontiere. Lasciamo all’Austria di esercitare questo sistema poco confacentesi alle nostre libere istituzioni».
[58] Cfr. «L’Eco d’Italia», 29 aprile 1865, e il numero del 6 maggio per il corteo funebre di Washington.
[59] Gian Francesco Secchi de Casali, La festa dello Statuto, in «L’Eco d’Italia», 11 giugno 1869.
[60] Oakey Hall (1826-1898), sindaco di New York dal 1869 al 1872, conosciuto dai suoi contemporanei come «l’elegante Oakey».
[61] Ibid.
[62] Ibid.
[63] Gian Francesco Secchi de Casali, Colonizzazione di Vineland, in «L’Eco d’Italia», 22 novembre 1873.
[64] Fonte: http://www.vinelandcity.org/History.htm.
[65] Articolo ripreso dal «Wineland Witness», 11 ottobre 1873, in «L’Eco d’Italia», 15 ottobre 1873.
[66] Misura anglosassone di superficie, pari a mq 4.046,85.
[67] J. B. Baretti, Lettera al direttore, in «L’Eco d’Italia», 27 dicembre 1873.
[68] Speculazioni denunciate da Celso Cesare Moreno sul giornale «Herald», e alle quali Secchi de Casali risponde invitando i contadini a mettersi in contatto con lui o con Charles K. Landis per evitare imbrogli, ed esortando Moreno a recarsi sul posto e raccogliere testimonianze veritiere delle truffe. Cfr. Gian Francesco Secchi de Casali, Una dichiarazione, in «L’Eco d’Italia», 17 gennaio 1874: «Non pensando ch’egli [Celso Cesare Moreno] abbia potuto attribuire e dirigere a me una tale bassa accusa, per quanto mi possa concernere come iniziatore di detto stabilimento, la denuncio volgare, calunniosa, mordace. In prova di ciò, mi appello a quanti italiani, sotto mio consiglio, si sono stabiliti nella Nuova Italia, presso Vineland, perché dichiarino se è vero che sono stati ingannati e da me indotti alla compera di terreni sotto illusoria promessa di qualsiasi specie».
[69] Per vederla, è possibile cercarla su Google Maps, digitando “Piacenzia Ave, Vineland, Atlantic, New Jersey 08360, Stati Uniti”, oppure le coordinate “+39° 28′ 17.94″, -74° 55′ 49.62”.
[70] Alfredo Bosi, Cinquant’anni di vita italiana in America, New York, Bagnasco Press, 1921, p. 224.
[71] Durante, Italoamericana (1776-1880), p. 434.
[72] www.findagrave.com: il sito permette ai suoi iscritti di aggiungere tombe di loro scoperta, complete di dati ricavati direttamente dalla lapide, con eventuali fotografie. Se si mette in secondo piano il lato macabro che un’operazione del genere indubbiamente comporta, è possibile comprendere l’utilità di un simile, tetro, strumento: il sito è infatti in collegamento diretto con «Ancestry», il motore di ricerca per ricostruire la storia della propria famiglia (www.search.ancestry.com).