Un mondo finisce, uno nuovo non è ancora iniziato

La triplice pressione finanziaria, regolatoria e giudiziaria contro “Big Tech” sta portando al tramonto dell’idea di Internet fondata sulla crescita illimitata, rapidissima e “disruptive” senza, tuttavia, che si intravvedano ancora modelli alternativi in grado di prendere il posto dei servizi esistenti e, soprattutto, in maniera economicamente sostenibile.

L’ultima in ordine di tempo, ma non sarà di certo l’ultima in senso assoluto, è stata la causa avviata negli Stati Uniti contro Google per possibile violazione della legge antitrust. Secondo il Dipartimento di Giustizia statunitense, l’azienda proprietaria del motore di ricerca e di numerosi altri servizi digitali abuserebbe tuttora della sua posizione dominante per svantaggiare gli editori e gli inserzionisti che decidono di utilizzare i prodotti della concorrenza.

La notizia è solo l’ultima di una lunga serie di cause e sentenze sfavorevoli contro le “Big Tech” accusate di aver nel corso del tempo acquisito una posizione di monopolio e di aver condizionato pesantemente ora le elezioni politiche, ora il mercato pubblicitario, ora la sicurezza informatica degli utenti, ora la privacy di milioni di persone. Ormai non passa mese senza che una nuova causa contro Facebook, Google, TikTok, Twitter non conquisti fugacemente le prime pagine dei giornali e telegiornali di tutto il mondo.

La conseguenza maggiore di queste cause giudiziarie non si misura, tuttavia, nella rilevanza delle multe pecuniarie inflitte alle aziende in questione – solitamente, una frazione insignificante dei loro fatturati – quanto nella percezione che le persone hanno e avranno in futuro dell’affidabilità di fornitori di servizi digitali accusati ora di aver abusato della propria posizione dominante, ora di aver gestito con troppa superficialità i dati personali degli utenti. Una reputazione in bilico, sempre sul punto di rovinare, che condiziona non tanto la diffusione dei servizi attuali quanto le possibilità di successo dei nuovi progetti futuri.

Dalla triste parabola del Metaverso di Facebook alla più silenziosa disfatta di tanti servizi lanciati dai concorrenti e che non hanno mai raggiunto la massa critica attesa malgrado gli investimenti, la visibilità, la base utenti di partenza su cui potevano contare, una delle conseguenze meno esplorate dell’accumularsi di cause – vinte o perse che siano – contro le “BigTech” è la disaffezione delle persone nei confronti di un modo di intendere Internet troppo dipendente da prospettive di crescita illimitata, rapidissima, “disruptive”. La triplice pressione regolatoria, giudiziaria e finanziaria si sta rapidamente rivelando insostenibile anche per le prospettive delle aziende di maggior successo al mondo, come dimostrano i recenti crolli in borsa, tagli del personale, progetti abortiti nel giro di pochi mesi.

Un mondo sta finendo, quindi, ma al tempo stesso ancora non si intravvede quello che potrebbe prenderne il posto. La regolamentazione europea, e a ruota quella internazionale, ha posto le basi per una Rete Internet forse più giusta, certamente più regolata di prima, senza tuttavia favorire la nascita di modelli di business sostenibili che possano realmente competere con quelle del passato recente e sul loro stesso terreno: come potrebbe ricevere investimenti da capitali di rischio o sufficiente credito bancario, oggi, un nuovo motore di ricerca globale, un nuovo social media, un nuovo servizio di intermediazione digitale a fronte delle crescenti difficoltà incontrate proprio da Big Tech nel finanziare la propria attività attraverso l’attività pubblicitaria, la diversificazione del business, la raccolta dei dati? Forse il futuro di questi servizi è nella loro nazionalizzazione, ma personalmente avrei un certo timore ad affidarmi a motori di ricerca, social media e strumenti pubblicitari soggetti alla estrema volubilità del potere politico.

Il problema di fondo, secondo me, è dato dal fatto che per anni si è sostenuta l’idea che a beneficiare dei servizi digitali ideati da Big Tech fossero unicamente le stesse aziende che offrivano questo servizio. Ancora oggi mancano studi indipendenti e statisticamente significativi riguardanti l’impatto economico che il venir meno degli attuali servizi di ricerca, informazione, comunicazione e marketing potrebbe avere sulle aziende e le persone che ne fanno uso. Nessuno sa, di preciso, che cosa potrebbe accadere qualora la pubblicità mirata su cui milioni di aziende in tutto il mondo hanno basato parte crescente delle proprie vendite negli ultimi dieci anni perdesse radicalmente di efficacia: forse, perché ancora oggi l’eccessiva semplificazione con cui questo settore viene raccontato dei media porta molte persone a credere che la pubblicità online sia un servizio erogato direttamente dalle Big Tech, e non uno strumento fatto proprio e utilizzato da milioni di imprese come alternativa più economica dei media tradizionali.

Senza voler qui difendere l’operato ambiguo di aziende come Facebook, come Google, come TikTok, come Amazon, resta tuttavia il sospetto che gran parte delle norme, delle cause e delle sentenze degli ultimi anni contro le Big tech abbiano avuto come lodevole obiettivo quello di difendere gli utenti in quanto destinatari passivi dei loro servizi, senza occuparsi altrettanto delle conseguenze sui medesimi utenti in quanto utilizzatori attivi dei medesimi servizi (nel ruolo di dipendenti, freelance, imprenditori, influencer, piccoli commercianti o artigiani, commerciali). Mettere in crisi, come sta avvenendo ora, i complicati meccanismi di funzionamento degli attuali servizi digitali di massa attraverso regolamentazioni sempre più stringenti e da parte di organismi non eletti democraticamente (come le istituzioni europee dotate del potere legislativo) non ha tuttavia un impatto economico solo sulle trimestrali delle aziende in questione, ma anche sulle effettive capacità di guadagno di aziende e individui che se ne servono per vendere prodotti e servizi che danno lavoro ad altre persone, generando ricchezza per intere comunità.

Portando all’estremo questo ragionamento, ne consegue che “l’origine” degli abusi digitali oggi oggetto di cause giudiziarie non dipenda solo delle Big Tech che hanno costruito questi servizi, ma anche delle aziende che se ne sono servite per i propri guadagni che – tuttavia – hanno comportato a loro volta un guadagno per i loro azionisti, manager, dipendenti, fornitori eccetera eccetera. Se siamo d’accordo che il modo in cui la pubblicità mirata è stata progettata non va bene, il modo in cui sono stati raccolti i dati non è affatto accettabile, le modalità con cui certe aziende hanno acquisito posizioni di monopolio sono disprezzabili, il medesimo consenso non si trova nel modo in cui i medesimi servizi di intermediazione potrebbero essere erogati in maniera economicamente sostenibile. Se un’azienda come Twitter, per fare un esempio, non è in grado di sostentarsi attraverso la vendita di abbonamenti mensili in luogo della pubblicità, come potrebbero altre aziende più giovani, meno conosciute, meno strutturate fare lo stesso?

Un mondo si sta avviando sulla strada del tramonto, anche se con ogni probabilità esso proseguirà per molti anni ancora, mentre un nuovo mondo e modo di servirsi di Internet come strumento per generare valore ancora non è sorto o fatica enormemente a vedere la luce: la causa, forse – e sottolineo forse – è da cercarsi in una regolamentazione che non è stata altrettanto scrupolosa a valutare le due facce della medaglia, dando la priorità all’utente di Internet “passivo” rispetto a quello “attivo”, all’utilizzatore destinatario delle pubblicità online rispetto a quello che attraverso la pubblicità online riesce a vendere prodotti e servizi per l’azienda per cui lavora. Si tratta di uno sbilanciamento, a mio giudizio, che è esito di un’ambiguità di fondo e talvolta inconsapevole nel modo in cui ancora oggi la maggior parte delle persone si serve di questi servizi: da un lato chiedendo sempre maggiori performance, novità, opzioni a disposizione, dall’altro rifiutandosi di pagare o cercando ogni modo per non pagare per fruire delle medesime possibilità.

È una relazione ambigua, distorta, quella che la società odierna ha sviluppato nei confronti dei servizi digitali di massa, ma è solo guardando dentro a questa relazione, indagandola anche nei suoi aspetti meno piacevoli, che è possibile ideare un nuovo modo di utilizzare la Rete senza sfociare negli abusi commessi finora da entrambe le parti: fornitori e utilizzatori dei servizi, raccoglitori di dati e utilizzatori di questi ultimi a fini pubblicitari, raccoglitori delle informazioni e fruitori di queste ultime in maniera gratuita, costruttori di reti sociali e utilizzatori di queste ultime per i propri interessi personali. A meno di rinunciare al sogno, diventato per certi versi più simile a un incubo, di collegare tra loro persone, merci e informazioni in ogni parte del mondo così come avvenuto fin qui, il futuro del digitale passa per lo sviluppo di una visione d’insieme dell’utente di Internet quale destinatario passivo e al tempo stesso utilizzatore attivo dei medesimi servizi: una visione non facile da ottenere, ma di cui vi è urgente bisogno.

Foto di Tim Marshall su Unsplash

jacopo franchi

Autore

Jacopo Franchi

Mi chiamo Jacopo Franchi, sono nato nel 1987, vivo a Milano, lavoro come social media manager, sono autore del sito che state visitando in questo momento e di due saggi sull’impatto del digitale nelle relazioni tra persone (“Solitudini connesse. Sprofondare nei social media“) e nelle nuove forme di lavoro e di accesso alla conoscenza (“Gli obsoleti. Il lavoro impossibile dei moderatori di contenuti“).

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