Gli influencer contro la condivisione delle foto dei minori sui social

In questo articolo:

È un fenomeno nato insieme ai social ma che solo negli ultimi anni sembra aver raggiunto proporzioni tali da indurre più di un paese ad avanzare proposte di legge per regolamentarlo o, quantomeno, ridimensionarlo. Inclusa l’Italia.

Sette disegni di legge contro lo sharenting, ma nessun appello sembra fare effetto sui genitori che condividono online le foto dei propri figli

Nel momento in cui scrivo, sono infatti ben sette i disegni di legge depositati alla Camera e al Senato che cercano di porre un limite alla proliferazione non consensuale di foto di minori sulle piattaforme digitali, come ricordato da Simone Cosimi su Wired Italia.

Lo sharenting – la condivisione di foto di minori da parte dei genitori, soprattutto sui social – continua a mietere vittime, e a nulla sembrano valere gli allarmi degli esperti sui rischi e le conseguenze di breve e lungo termine, come ricordato dallo stesso Garante Privacy per voce del vice-presidente Ginevra Cerrina Ferroni. Non ci sono evidenze, purtroppo, che gli sforzi sin qui prodotti abbiano prodotto dei risultati apprezzabili fra i diretti interessati.

Fa riflettere, inoltre, il fatto che in un periodo storico in cui gran parte delle decisioni importanti riguardanti la sfera digitale vengono prese a livello europeo – basti pensare all’accentramento di poteri raggiunto dalla Commissione Europea con i nuovi Digital Markets Act e Digital Services Actun tema della massima urgenza come la condivisione online delle immagini dei bambini venga affrontato per lo più a livello nazionale, in ordine sparso tra i paesi dell’Unione.

Mancano, nelle proposte di legge prese in esame, i principali indiziati: i genitori, coloro che premono volontariamente il pulsante “pubblica” e decidono di esporre i propri figli alla visione di un numero incalcolabile di persone sconosciute e di software per lo “scraping” funzionali all’addestramento delle intelligenze artificiali, generando ricadute potenzialmente negative sulla sicurezza fisica e mentale dei bambini e sulla loro identità digitale futura.

Nessuna legge, ad oggi, prevede un limite alla possibilità dei genitori – qualora questi agiscano di concerto, o senza che uno dei due si opponga esplicitamente al volere dell’altro – possano pubblicare dieci, cento o migliaia di foto dei propri figli online (si leggano, a tal proposito, i dati allarmanti raccolti da Fondazione Carolina). Al più, l’unico elemento di rottura apprezzabile delle proposte di legge attualmente in discussione è l’obbligo di conferire una parte dei guadagni ottenuti tramite contenuti promozionali – in cui compaiono o sono protagonisti i propri figli – in un conto vincolato e dedicato a questi ultimi.

La mancanza di dati e ricerche sulle cause dello sharenting, una possibile spiegazione nel comportamento degli influencer e dei personaggi pubblici

Mancanza di coraggio, di visione politica, di volontà di affrontare il problema alla radice? La mia opinione è che – così come avvenuto per il Digital Services Act, il Digital Markets Act, lo stesso GDPR e il nuovo AI Act – la copiosa produzione legislativa di stampo europeo e nazionale sconti tuttora una forte carenza di dati e ricerche scientifiche capaci di analizzare approfonditamente tanto le conseguenze quanto le motivazioni all’origine di certe, criticabili, modalità d’uso delle nuove tecnologie. In questo caso, mancano ricerche capaci di spiegare i motivi che spingono migliaia (o milioni?) di genitori a trasformare i propri figli nell’oggetto dell’intrattenimento, della morbosità, dell’interesse altrui.

In questo senso, penso che sarebbe cosa buona e giusta mettere in discussione le spiegazioni basate sull’esperienza personale – l’esibizionismo, l’autocelebrazione, la sempreverde “scarica di dopamina” generata dai “like” (utilizzata da tempo immemore per spiegare qualsiasi fenomeno riguardante i social) – per prendere in considerazione un elemento del fenomeno rimasto fin qui ai margini, seppur visibile a tutti: vale a dire l’abitudine di molti influencer a condividere foto dei propri figli online, copiandosi vicendevolmente e incentivando in questo modo altri utenti meno noti e meno consapevoli a fare lo stesso.

Tutta “colpa” di Chiara Ferragni, Fedez e delle innumerevoli foto, video, stories e reels del piccolo Leone, quindi? In realtà, basta porre attenzione ai profili social di alcune delle persone più famose in ogni settore per rendersi conto di come la pratica dello sharenting sia diventata comune non solo tra gli influencer più attenzionati, ma anche a personaggi noti del mondo dello sport, della politica, della cultura e di altri mondi apparentemente lontanissimi dalle modalità di comunicazione proprie di Ferragni e dei suoi numerosi imitatori.

Le foto dei bambini sono contenuti che in questo momento portano grande visibilità a poco prezzo, e per questo sono così condivise dagli influencer

La condivisione online delle foto e dei video dei minori non dipende mai da un’unica motivazione, valida per ogni persona e in ogni contesto, ma sicuramente è favorita dal fatto che le foto dei bambini sono solite ricevere un grande numero di “like”, che possono fornire una grande visibilità per colui che le pubblica, in alternativa a contenuti che hanno meno probabilità di diventare virali. In parole semplici: inserire una foto o un video di un bambino sul profilo di un personaggio pubblico, attualmente, ha un ritorno quasi certo e immediato in termini di visibilità gratuita per quest’ultimo.

Sarebbe davvero utile, in questo senso, approfondire il possibile nesso di causa-effetto tra il numero di contenuti online che ritraggono i bambini e che sono stati pubblicati nel corso degli ultimi anni da influencer e altri personaggi pubblici, e il numero di contenuti analoghi pubblicati nello stesso periodo di tempo da persone “comuni”, o quantomeno con un limitato seguito sui social media. Io non credo che queste ricerche esistano, o siano state prodotte in maniera continuativa e capillare, ma sarei ben felice di sbagliarmi in merito.

In che misura la condivisione online di foto di bambini da parte di genitori, nonni, zii, fratelli o sorelle “famosi” può influenzare un numero esponenziale di altre persone a fare altrettanto? Fino a che punto lo “sharenting” è un fenomeno spontaneo, nato dal basso, e in che misura esso invece si ispira a comportamenti e pratiche adottate dalle persone più in vista della società? E fino a che punto gli stessi politici che ora vorrebbero regolamentarlo ne hanno fatto uso e ne fanno tuttora uso, per apparire con il proprio profilo nei newsfeed di follower e potenziali elettori altrimenti poco interessati ai loro contenuti e alla loro attività online?

Un appello agli influencer per smetterla di promuovere lo sharenting, direttamente e indirettamente, e alle aziende per dotarsi di codici di condotta

Nell’attesa, chi ha a cuore la sorte dei bambini e degli adolescenti sovraesposti su media digitali potrebbe pensare a una forma di desistenza che, nel medio periodo, potrebbe prendere piede e tramutarsi in un vero e proprio “contro-trend”. Si potrebbe cominciare, tanto per fare un esempio, a non mettere più “like” alle foto dei bambini per non rafforzare nei genitori l’automatismo alla condivisione, e si potrebbe proseguire con atti di boicottaggio e manifestazioni pubbliche di dissenso verso tutti quegli influencer – di ogni ambito – che palesemente si servono delle foto dei figli per ottenere facile visibilità.

In prospettiva, potrebbero essere proprio gli stessi influencer e personaggi pubblici a smettere di seguire le raccomandazioni di agenzie di comunicazione, esperti e consulenti vari, per dichiarare pubblicamente di non voler condividere le foto dei propri figli in cambio di visibilità, e far seguire le parole ai fatti. Rinunciando, magari, a qualche surplus di “like” per contribuire a ridurre la diffusione di una pratica alla quale pochi sembrano intenzionati a rinunciare in primis, perché consapevoli della sua utilità nell’eterna competizione per non “svanire” all’interno dei social. Infine, le aziende potrebbero smettere di acquistare post promozionali da quegli influencer che fanno apertamente ricorso a una pratica così lesiva della privacy dei minori.

Senza arrivare all’estremo di proibire per legge la condivisione online delle foto dei minori tout court, si potrebbero pensare a codici di condotta e norme per disincentivare questa pratica su contenuti destinati ad avere una grandissima visibilità sulle piattaforme digitali, e non solo. Così come è stato per il fumo, fra gli anni Novanta e l’inizio del nuovo Millennio, anche la creatività dei nostri legislatori potrebbe indirizzarsi verso quelle che sono le probabili, reali cause della diffusione di un fenomeno nocivo, anziché pensare di poter ancora una volta delegare il controllo, la supervisione e il rispetto delle regole alle stesse aziende su cui questi comportamenti proliferano, e che non hanno mai davvero contrastato la diffusione di contenuti e profili riguardanti i minori (salvo quando sono state costrette a farlo).

jacopo franchi

Autore

Jacopo Franchi

Mi chiamo Jacopo Franchi, sono nato nel 1987, vivo a Milano, lavoro come social media manager, sono autore del sito che state visitando in questo momento e di tre libri sui social media, la moderazione di contenuti online e gli oggetti digitali.

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